Guglielmo Caccia detto il Moncalvo
 

Il testo seguente è di Alberto Cottino ed è tratto da "Guglielmo Caccia detto il Moncalvo - Un pittore del '600", 1997.

Guglielmo Caccia detto il Moncalvo, è forse l'esponente più importante dell'arte della Controriforma in Piemonte: è anzi l'artista devoto per eccellenza, umile e modesto glorificatone di Dio, ma grande in quanto sa esprimere sentimenti universali.

Della sua giovinezza sappiamo ancora poco: non conosciamo, ad esempio, il nome del suo maestro, anche se la sua opera giovanile è permeata di ricordi casalesi e vercellesi (fino al recupero della grande tradizione di Gaudenzio Ferrari); è probabile anche che fin da giovane frequentasse Milano e fosse ben   al corrente del clima culturale di quella città, una delle più profonde   e tenaci propugnatrici delle idee della Controriforma. Gli esordi del pittore sono precocissimi; a soli diciassette anni, infatti dipinge un'Annunciazione e una Sacra Conversazione   per due chiese di Guarene (Cuneo), l'Annunciata e San Michele. Si   tratta di due dipinti un po' ingenui ed impacciati nella definizione della scena e nell'esecuzione, e legati in qualche modo ancora alla tradizione cinquecentesca casalese, ma già pochi anni dopo, con la pala della parrocchiale di Calliano raffigurante la Crocifissione (1593) si cominciano a precisare i suoi rapporti con la cultura vercellese, che fa capo ancora a Gaudenzio, ma che viene tradotta nel severo ed icastico linguaggio della Controriforma. Poco prima (1590) il pittore aveva iniziato il suo lavoro di frescante al Sacro Monte di Crea (cappella della Presentazione al Tempio), luogo dove sarà in seguito attivo più volte (cappelle del Martirio e del Riposo di Sant'Eusebio, della Nascita della Vergine, 1593), forse fornendo in seguito anche disegni o progetti al suo allievo Giorgio Alberini, a sua volta lungamente presente al Sacro Monte in date successive (cfr. G. Romano.  

Sempre del '93 sono gli affreschi della chiesa di San Michele a Candia Lomellina (Cappella del Rosario), suo capolavoro giovanile: nella stessa chiesa, ma nella cappella dell'Annunziata, vi sono affreschi del   1586 di   Gerolamo e Pier Francesco Lanino, figli di Bernardino; è possibile che Guglielmo abbia esordito come frescante in queste scene come collaboratore o associato di Pier Francesco, con cui lavora nel 1593   alla pala di Larizzate e che in un documento del 1596 lo chiama "mio compagno" in ogni caso, è probabile che sia attraverso di loro che il   Caccia recupera la tradizione gaudenziana, anche se non bisogna dimenticare che Gaudenzio era stato attivo a Casale, dove a quel tempo si conservavano numerose sue opere. È stato anche notato (Romano, ibid.) che in queste opere Caccia dimostra di ben conoscere l'estremo approdo del manierismo lombardo, studiato evidentemente dal vivo a Milano, soprattutto il linguaggio di Antonio Campi, così come appare evidente l'antico ma sempre valido modello delle architetture di Bramante (percepibile nella nitida struttura archittettonica della Presentazione al tempio). È altresì vero che sulla complessa cultura del Caccia, in questi anni giovanili in rapida evoluzione, agiscono profondamente le suggestioni della Controriforma, non solo quelle letterarie di Carlo e Federico Borromeo, e dei trattati-precetti del tardo Cinquecento, ma anche quelle irradiate da centri del territorio piemontese-lombardo: non si dimentichi che vicino alla sua città natale vi è l'importante nodo religioso costituito dal santuario di Boscomarengo, promosso da papa Pio V Ghislieri, a suo tempo decorato con opere di Giorgio Vasari e della sua scuola (e dove il Moncalvo esegue due dipinti importanti); ed anche che il pittore ha occasione di collaborare con uno dei più notevoli esponenti dell'arte del cattolicesimo controriformato italiano, Federico Zuccari, negli affreschi della Grande Galleria di Palazzo Reale a Torino (commissionata da Carlo Emanuele I di Savoia e terminata nel 1607), oggi scomparsa.  

Non v'è dubbio, però, che il Caccia doveva considerare con sospetto questi grandi artisti, coltissimi depositari delle verità divine più elevate: la religiosità del Caccia, forse meglio aderente all'esempio proposto da San Carlo Borromeo, è   vicina agli umili, al pio e devoto popolino di campagna, alla piccola nobiltà rurale, che viveva con piccoli possedimenti e piccole rendite, in piccoli paesi e coltivava piccoli e semplici sogni.  

In questo senso esemplare è la paletta della parrocchiale di Grana (1595), raffigurante la Madonna col Bambino, santi e donatori, dallo schema semplice e devotamente efficace, in cui i due astanti inginocchiati umilmente di fronte alla Madonna sono ritratti con eccezionale acutezza realistica e psicologica, e quasi accostabili a quelli, solo di poco posteriori, di Tanzio da Varallo: non a caso, uomo di campagna il Caccia, uomo di montagna Tanzio, tutti e due conoscitori delle grandi città ma più a loro agio all'interno di comunità ristrette, in paesi lontani dai clamori delle corti.  

Ritroviamo Caccia, artista ormai maturo e culturalmente definito, qualche anno dopo a Cioccaro con due tele per la parrocchiale, entrambe del 1602, la Madonna col Bambino tra i santi Vittore e Francesco e la  Madonna dei  Rosario, dove è stato notato (Romano) un interesse per il Cerano, quantunque il risultato stilistico appaia piuttosto diverso, ed in altri borghi del Monferrato e dell'alessandrino, in cui prosegue la sua opera di capillare "evangelizzatore" pittorico secondo le nuove correnti controriformate: nel  1606   dipinge la Madonna del Rosario nella parrocchiale di Pontestura, nel 1608 il San Francesco nella chiesa di San Pietro a Villanova d'Asti, subito dopo la grande Resurrezione nel Duomo di Asti, una delle sue opere più note, e in piccole località quali Borgo San Martino (Madonna del Rosario nella parrocchiale, verso il 1610), Sala Monferrato, Crescentino, Solero, Melazzo (1611), Casorzo, Mombercelli ed altre.

Negli anni immediatamente successivi lavora per Casale Monferrato (tele raffiguranti San Michele, l'Annunciazione, la Natività, l'Annuncio ai pastori, la Fuga in Egitto per la chiesa di San Michele, ed altre tele per altre chiese), Santa Croce di   Boscomarengo, per il Duomo di Alessandria; la sua fama lo porta ad essere chiamato a Novara (affreschi della cappella di San Carlo nella chiesa di San Marco, 1613-15), ed a Chieri (affreschi e tele nell'abside di San Domenico, Resurrezione di Lazzaro e Moltiplicazione dei pani e dei pesci, 1615-16, pala della Cappella del Rosario raffigurante, ancora una volta la Madonna del Rosario). Gli anni seguenti (1617-19) il Caccia li passa a Milano, città in cui ottiene prestigiose commissioni, ma con cui aveva mantenuto contatti fin dall'inizio della carriera, e dove il pittore più affine a lui per ideologia artistica è senza dubbio il giovane Daniele Crespi, austero e icastico cantore della controriforma borromaica: con lui lavora agli importanti affreschi della cupola di San Vittore al Corpo ed a quelli della Cappella di San Bruno in San Pietro in Gessate e da solo in Sant'Alessandro (Cappella del Sacro Cuore), Sant'Antonio, Santi Paolo e Barnaba con tele di notevole impegno (Visioni dei santi Francesco, Pietro, Giacomo, Paolo). Tornato nei luoghi natii, tra le numerose opere di lieve ed affabile poetica religiosa post-tridentina - che dipinge spesso in collaborazione con le figlie Orsola e Francesca - si possono ricordare la pala della chiesa di Montabone (1615-20), della cattedrale di Valenza, della chiesa di S. Martino a Castagnole Monferrato. Il Caccia muore a Moncalvo, città dove risiedeva e dove aveva fondato un convento per sistemare le figlie, il 13 novembre 1625.  

Come si evince da questo elenco, limitato alle sole opere più importanti, Guglielmo Caccia fu infaticabile lavoratore, legato a filo doppio al territorio perché pittore di chiesa, ed è questo uno dei suoi aspetti storicamente più interessanti, forse non ancora convenientemente sottolineato: fortunatamente la maggior parte delle sue opere è ancora visibile nei luoghi per cui esse sono state eseguite, pertanto possiamo ancora oggi, a distanza di quattrocento anni, ricostruire con sufficiente precisione e chiarezza lo stretto rapporto che legava Caccia alle comunità di devoti dei piccoli paesi del Monferrato e dell'alessandrino ed il ruolo fondamentale che l'arte ricopriva negli anni della Controriforma in provincia, anche nel contribuire a dare un'identità ed una precisa ideologia ad una società. È altresì interessante e non casuale (certamente frutto del capillare lavoro di diffusione delle nuove idee controriformiste) che fosse proprio in quei decenni che numerosissime comunità parrocchiali del Monferrato e dell'alessandrino decidessero di dotarsi di pale d'altare, chiamando alla loro realizzazione il Moncalvo e, negli anni successivi alla sua morte, la figlia Orsola che ne continua l'opera: spesso si trattava di dipinti dedicati alla Madonna del Rosario. Anche a Milano egli era, in fondo, un pittore di parrocchia: il quartiere che aveva come suo centro di gravità la chiesa poteva, in fondo, come nucleo ed entità sociale ben definita, agevolmente sostituire la piccola comunità campagnola, per cui in sostanza il risultato non cambia.

Per chiarire la "forma mentis" dei pittori della Controriforma, bisogna premettere che già nel 1564 Giovanni Andrea Gilio scriveva Due dialoghi (...), in cui Nel secondo  si ragiona de gli errori de Pittori circa l'historie, volume che verosimilmente Moncalvo conosceva assai bene. L'errore principale dei pittori è, secondo l'autore, l'abbandono della consuetudine, cioé in sostanza della buona tradizione, imputabile soprattutto a Michelangelo e ai manieristi; bisogna tornare "a dipingere le sacre immagini poneste, e   devote (...)", semplici, chiare, comprensibili a tutti, come facevano i pittori del Quattrocento: non troppo "esagerate", con le figure "sforzate, parendoli gran fatto di torcerli il capo, le braccia, le gambe", o - peggio ancora - nude, come usavano fare Michelangelo ed i seguaci. Quando il Moncalvo inizia la carriera, attorno alla metà degli anni Ottanta del Cinquecento, le cose sono ulteriormente cambiate: il Concilio di Trento ha varato una vera e propria normativa per i pittori (decreto sulle immagini sacre, 1563, ma si pensi anche a trattatisti quali il cardinale bolognese Gabriele Paleotti, che scrive il Discorso sopra le immagini sacre e profane, edito nel 1582, che ha un'enorme influenza); la peste del, 1576 ha acuito il dolore degli umani e la paura della morte, e li ha stretti ancor più intorno a Dio nella speranza di un futuro migliore; la figura del cardinale Carlo Borromeo è stata in quei difficili anni fulgido esempio nell'aiuto ai poveri ed ai malati. Il Moncalvo è, per eccellenza, il pittore della Controriforma in Piemonte, l'artista devoto e ligio alle direttive ecclesiastiche e, non a caso ottiene un discreto successo anche a Milano, una delle capitali dell'arte della Controriforma, in cui la massima autorità politica e culturale era rappresentata nei primi decenni del Seicento da Federico Borromeo. Questi nel 1625 pubblica il De Pictura Sacra, opera che ebbe un vasto influsso sulla cultura lombarda e padana: l'autore assume posizioni severamente moraliste, condannando tra l'altro la presenza dei nudi e di tutto ciò che poteva risultare in qualche modo "fisico" (arrivando, addirittura, a consigliare di non mettere troppo vicino i santi tra loro nelle pale d'altare, in modo che non possano alimentare pensieri sconvenienti!); è chiaro che il bersaglio principale di tutte le critiche dei moralisti del tardo Cinquecento e del Seicento è il Giudizio Universale di Michelangelo alla Cappella Sistina, con tutti quei nudi e le figure "sforzate", così contrarie al "decoro" che la chiesa richiedeva per le pitture sacre. È probabile che i pensieri del Moncalvo fossero sulla stessa lunghezza d'onda.

Seguendo la linea della ricerca del "decoro" predicata dal Gilio e poi dagli alfieri della Controriforma, il Moncalvo si allinea così alle tendenze della contemporanea pittura italiana, sia padana che dell'Italia centrale, che diviene squisitamente "religiosa" in quanto intende "commuovere" il fedele, spiegandogli con semplicità e forza persuasiva i misteri delle Sacre Scritture: operazioni affini sono svolte negli ultimi decenni del Cinquecento da pittori quali Ludovico Carracci (che certamente il Caccia ben conosceva) e Bartolomeo Cesi a Bologna, Girolamo Muziano e Federico Zuccari (con cui il Caccia lavora negli anni 1605-7) a Roma, e nella Milano borromaica, tra gli altri, da Simone Peterzano, Ambrogio Figino e - più tardi - da Daniele Crespi, con cui Moncalvo ha occasione di collaborare. Il linguaggio che adotta Moncalvo è comunque colto e raffinato, sopportato da una tecnica eccellente, di cui già i contemporanei coglievano le preziosità, anche se essenzialmente finalizzato alla divulgazione delle idee propugnate dal Concilio di Trento. In questo senso è assai indicativa la segnalazione effettuata qualche anno fa da Marco Rosci (Storie del popolo lombardo. Realtà di san Carlo e metafora aristocratica di Federico Borromeo, in "1l Seicento Lombardo", catalogo della mostra, Milano 1973, 1, p. 54), della relazione tra la maniera "accademizzante e `morbidamente' misticheggiante" del tardo Moncalvo milanese (si riferisce agli affreschi di S. Alessandro: ma questa lettura si può estendere sostanzialmente a tutta l'opera del pittore piemontese) e le idee espresse nel circolo di Giovanni Ambrogio Mazenta, architetto e generale dei barnabiti di S. Alessandro. Anche Andreina Griseri (1964) aveva sottolineato come nel 1619 Girolamo Borsieri avesse elogiato il Moncalvo perché dipingeva "con loda massimamente dei devoti, avendo una gratia che facilmente ferisce nel loro genio": il termine "gratia" è certamente una chiave di lettura per capire il ruolo ed il significato della pittura religiosa in età controriformista. Altamente significativo per comprendere il ruolo storico di Moncalvo e della sua continuatrice Orsola è, a mio parere rilevare anche il grandissimo numero di Madonne del Rosario che si diffondono a tappeto in quegli anni su tutto il territorio monferrino e alessandrino (e non solo). Sulla motivazione di così grande successo non sono mai state fatte ricerche definitive, che avrebbero dovuto peraltro essere stimolate dal lodevole repertorio pubblicato da Vittorio Natale nel 1985, che affronta l'argomento da un punto di vista generale e non ha la pretesa di indagare sulle cause storiche della così grande estensione di questa iconografia in anni ravvicinati in un territorio relativamente circoscritto. È probabile che nella promozione di questo culto la figura di maggior rilievo dovesse essere stata quella di papa Pio V, nativo di Boscomarengo (e salito al soglio pontificio nel 1566), il cui ricordo era ancora ben vivo nei decenni di attività del Moncalvo, ma non bisogna dimenticare che l'attuale provincia di Alessandria faceva parte della Lombardia, uno dei grandi bacini di diffusione delle idee della Controriforma: giustamente il Natale afferma che la zona alessandrina "va acquistando una certa omogeneità figurativa, non priva naturalmente di contraddizioni, all'ombra della grande bottega moncalvesca e, soprattutto, la stessa zona trova una sua giustificazione, per quanto concerne la diffusione rosariana, quale porzione della più ampia provincia domenicana riformata Utriusque Lombardiae" (V. Natale, 1985, p. 411).

Riscoprire Moncalvo, dunque, significa anche ripercorrere nello spazio e nel tempo la devozione controriformata diffusasi nel Monferrato e nell'alessandrino, in un viaggio che porterà anche alla conoscenza di antiche comunità dove arte, storia e religiosità s'intrecciano in un nodo indissolubile, miracolosamente sopravvissuto fino ad oggi per oltre quattro secoli.

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