OndaRock



  1. Four Enclosed Walls
  2. Track 8
  3. Phenagen
  4. Flowers of Romance
  5. Under the House
  6. Hymie's Him
  7. Banging the Door
  8. Go Back
  9. Francis Massacre


PUBLIC IMAGE LIMITED

Flowers Of Romance
(Virgin) 1981
dark-punk
John Lydon creò i PIL appena dopo lo spegnersi di quella fiamma incandescente che era stato il movimento punk britannico, movimento di cui lui stesso era stato la più rappresentativa "immagine", come cantante dei Sex Pistols. Ma quello che urlava sguaiato slogan anarcoidi e sovversivi insieme a Matlock, Cook, Jones e Sid Vicious non era John Lydon: era Johnny Rotten, un'entità creata ad arte dal manager Malcom McLaren e costruita sulla personalità allucinata e debordante del giovane Lydon.

Finita l'avventura con i Pistols, il cantore del sogno ribelle e (auto)distruttivo del punk, pretendeva ora il suo spazio: fu per questo che si unì al chitarrista Keith Levene, già con i Clash, e con una sezione ritmica portentosa come quella formata dal bassista Jah Wobble e dal batterista Tim Walker diede vita alla sua nuova incarnazione artistica nei Public Image Limited.

Dalle ceneri del punk era nato, come si sa, il dark, introdotto da Siouxsie, Cure e Joy Division. All'interno di questo filone musicale si inserirono anche i PIL, ma già con i loro primi due dischi ("First Issue" e "Metal Box/Second Edition"), il gruppo di John Lydon si distinse nettamente da tutto il resto del movimento dark. La vocazione della band tendeva in realtà verso orizzonti ben più ampi di quelli disegnati da Siouxsie, Smith e Curtis: il ritmo dominante in gran parte dei loro brani era un ipnotico groove vicino più al dub che al punk, la chitarra di Levene assicurava le dissonanze proprie del rock gotico, e su tutto si stendeva il canto disarticolato e rantolato di Lydon, straordinario interprete delle psicosi che attanagliavano la generazione dell'immediato post-punk.

I PIL danno alle stampe "Flowers of Romance", terzo album e probabilmente il loro capolavoro, in una formazione ampiamente riveduta che della line-up originale conserva a tempo pieno praticamente il solo Lydon: Levene compare saltuariamente, Wobble ha avviato una carriera solista come musicista ambient-dub, Walker è già stato sostituito dall'eccezionale Martin Atkins (che non a caso diventerà uno dei più importanti protagonisti della musica "industriale"), che insieme a Lydon è il vero protagonista della svolta sancita da questo disco.

I ritmi ossessivamente tribali scanditi da Atkins e i maniacali flussi di coscienza intonati da Lydon sono in pratica tutto ciò che compone la struttura dei brani di questo disco. Qua e la compaiono timidi strati di elettronica e distorsioni di chitarra, il basso è un accessorio occasionale. Il risultato è un disco che col punk e col dark conserva soltanto una parentela superficiale, ma che punta decisamente verso la musica d'avanguardia, verso una canzone rock talmente scarnificata e ridotta ai suoi elementi essenziali che in non pochi momenti supera persino gli esperimenti più radicali della new wave, lasciandosi alle spalle qualsiasi definizione di genere e imbarcandosi nel tentativo di rivoltare l'inconscio musicale di un'intera era musicale.

"Four Enclosed Walls" apre l'album con Martin Atkins intento a tenere un ritmo regolare e preciso come un metronomo: ma il canto di Lydon se ne va invece da tutt'altra parte, completamente avulso dall'ossatura del brano, simile più a un agonizzante, sgraziato muezzin mediorientale che agli sberleffi del vecchio Johnny Rotten. Ancor più complessa è "Track 8": stavolta il ritmo di Atkins diventa ansiogeno e oscuro come da manuale dark-punk ma ancora una volta nessuno degli altri musicisti sembra aver voglia di accodarvisi: Levene si lancia in un concerto per dissonanze chitarristiche, il basso si limita a borbottare svogliato e scostante, Lydon recita poche battute come in trance. "Phenagen" rompe così gli indugi e abbandona una volta per tutte qualsiasi somiglianza con la musica rock: stavolta è un piano scordato e stonato a dettare il tema, subito abbandonato dalla litania intonata da un Lydon ben oltre l'orlo della crisi di nervi e accompagnato da campane, deboli pulsazioni, stordenti distorsioni chitarristiche.

La title-track complica l'arrangiamento introducendo violini e cori spettrali, insieme ad una lieve presenza dell'elettronica: ma a dominare la scena sono sempre le percussioni etniche di Atkins e il canto di Lydon, che mai come in questi brani (così come in molti episodi del precedente "Metal Box") riesce davvero ad aggiornare lo "spleen" dei poeti maledetti alla psiche deragliata della generazione punk.

Il disco prosegue inanellando capolavori su capolavori, intessendo ritmi sfibranti che non concendono un attimo di pausa: realmente straordinario è il binomio formato da "Under The House" e "Hymie's Him", praticamente due assoli di un Martin Atkins sempre più scatenato: la prima vede la voce e gli effetti relegati sullo sfondo rispetto allo show del batterista: la seconda è uno strumentale in cui al concerto per percussioni di volta in volta dissonanti, metalliche, cerimoniali e industriali, si affiancano droni di tastiere che conferiscono al pezzo una statura visionaria e misteriosa che recupera la vera essenza del "dark".

"Banging The Door" è forse il pezzo più convenzionale, non lontano dagli incubi macabri di Siouxsie. "Go Back" tenta addirittura di recuperare le radici del "rock" con il riff iniziale di Levene (anche se sempre trafitto da un oceano di dissonanze): peccato che il canto robotico di Lydon e il contrappunto di poche, sparute note pianistiche facciano naufragare anche solo una parvenza di normalità in un caos demoniaco: è il momento dunque per la chiusura affidata a "Francis Massacre", il pezzo più allucinato (e allucinante) dell'opera: Atkins picchia come un dannato su qualunque cosa trovi a portata di mano, Lydon urla come uno psicopatico colto da una crisi epilettica, in sottofondo si avvertono ronzii elettronici e fugaci interventi pianistici. Brano che è una vera e propria piece d'avanguardia, mette in luce meglio di ogni altro tutta la lucida follia del progetto PIL. Nulla avviene a caso nel disco, tutto è calibrato con cura certosina per ottenere un effetto di totale disgregazione dei suoni, delle parole, persino delle immagini che riesce ad evocare in ogni istante questo unico, monolitico, delirante e terrorizzante kammerspiel che è "Flowers of Romance".

Sembrano passati secoli da quando Lydon, o meglio Johnny Rotten, e i Sex Pistols infiammavano il mondo con i loro grezzi e irresistibili inni anarchici. "Flowers" non ha più nulla a che vedere con la musica rock: quello realizzato dai PIL è un campionario di visioni mostruose, è un'esperienza di sconvolgente messa a nudo della reale desolazione che è tanto in noi, quanto intorno a noi. Il che è poi null'altro che il vero, dichiarato obiettivo del punk: solo che prima dei PIL nessuno lo aveva reso esplicito con tanta chiarezza.