John Lydon creò i PIL appena dopo lo spegnersi di quella fiamma
incandescente che era stato il movimento punk britannico, movimento di cui lui
stesso era stato la più rappresentativa "immagine", come cantante dei Sex Pistols. Ma quello che urlava
sguaiato slogan anarcoidi e sovversivi insieme a Matlock, Cook, Jones e Sid
Vicious non era John Lydon: era Johnny Rotten, un'entità creata ad arte dal
manager Malcom McLaren e costruita sulla personalità allucinata e debordante del
giovane Lydon.
Finita l'avventura con i Pistols, il cantore del sogno ribelle e
(auto)distruttivo del punk, pretendeva ora il suo spazio: fu per questo che si
unì al chitarrista Keith Levene, già con i Clash, e con una sezione ritmica
portentosa come quella formata dal bassista Jah Wobble e dal batterista Tim
Walker diede vita alla sua nuova incarnazione artistica nei Public Image
Limited.
Dalle ceneri del punk era nato, come si sa, il dark, introdotto
da Siouxsie, Cure e Joy
Division. All'interno di questo filone musicale si inserirono anche i PIL,
ma già con i loro primi due dischi ("First Issue" e "Metal Box/Second Edition"),
il gruppo di John Lydon si distinse nettamente da tutto il resto del movimento
dark. La vocazione della band tendeva in realtà verso orizzonti ben più ampi di
quelli disegnati da Siouxsie, Smith e Curtis: il ritmo dominante in gran parte
dei loro brani era un ipnotico groove vicino più al dub che al punk, la chitarra
di Levene assicurava le dissonanze proprie del rock gotico, e su tutto si
stendeva il canto disarticolato e rantolato di Lydon, straordinario interprete
delle psicosi che attanagliavano la generazione dell'immediato post-punk.
I PIL danno alle stampe "Flowers of Romance", terzo album e
probabilmente il loro capolavoro, in una formazione ampiamente riveduta che
della line-up originale conserva a tempo pieno praticamente il solo Lydon:
Levene compare saltuariamente, Wobble ha avviato una carriera solista come
musicista ambient-dub, Walker è già stato sostituito dall'eccezionale Martin
Atkins (che non a caso diventerà uno dei più importanti protagonisti della
musica "industriale"), che insieme a Lydon è il vero protagonista della svolta
sancita da questo disco.
I ritmi ossessivamente tribali scanditi da Atkins e i maniacali
flussi di coscienza intonati da Lydon sono in pratica tutto ciò che compone la
struttura dei brani di questo disco. Qua e la compaiono timidi strati di
elettronica e distorsioni di chitarra, il basso è un accessorio occasionale. Il
risultato è un disco che col punk e col dark conserva soltanto una parentela
superficiale, ma che punta decisamente verso la musica d'avanguardia, verso una
canzone rock talmente scarnificata e ridotta ai suoi elementi essenziali che in
non pochi momenti supera persino gli esperimenti più radicali della new wave,
lasciandosi alle spalle qualsiasi definizione di genere e imbarcandosi nel
tentativo di rivoltare l'inconscio musicale di un'intera era musicale.
"Four Enclosed Walls" apre l'album con Martin Atkins intento a
tenere un ritmo regolare e preciso come un metronomo: ma il canto di Lydon se ne
va invece da tutt'altra parte, completamente avulso dall'ossatura del brano,
simile più a un agonizzante, sgraziato muezzin mediorientale che agli sberleffi
del vecchio Johnny Rotten. Ancor più complessa è "Track 8": stavolta il ritmo di
Atkins diventa ansiogeno e oscuro come da manuale dark-punk ma ancora una volta
nessuno degli altri musicisti sembra aver voglia di accodarvisi: Levene si
lancia in un concerto per dissonanze chitarristiche, il basso si limita a
borbottare svogliato e scostante, Lydon recita poche battute come in trance.
"Phenagen" rompe così gli indugi e abbandona una volta per tutte qualsiasi
somiglianza con la musica rock: stavolta è un piano scordato e stonato a dettare
il tema, subito abbandonato dalla litania intonata da un Lydon ben oltre l'orlo
della crisi di nervi e accompagnato da campane, deboli pulsazioni, stordenti
distorsioni chitarristiche.
La title-track complica l'arrangiamento introducendo violini e
cori spettrali, insieme ad una lieve presenza dell'elettronica: ma a dominare la
scena sono sempre le percussioni etniche di Atkins e il canto di Lydon, che mai
come in questi brani (così come in molti episodi del precedente "Metal Box")
riesce davvero ad aggiornare lo "spleen" dei poeti maledetti alla psiche
deragliata della generazione punk.
Il disco prosegue inanellando capolavori su capolavori,
intessendo ritmi sfibranti che non concendono un attimo di pausa: realmente
straordinario è il binomio formato da "Under The House" e "Hymie's Him",
praticamente due assoli di un Martin Atkins sempre più scatenato: la prima vede
la voce e gli effetti relegati sullo sfondo rispetto allo show del batterista:
la seconda è uno strumentale in cui al concerto per percussioni di volta in
volta dissonanti, metalliche, cerimoniali e industriali, si affiancano droni di
tastiere che conferiscono al pezzo una statura visionaria e misteriosa che
recupera la vera essenza del "dark".
"Banging The Door" è forse il pezzo più convenzionale, non
lontano dagli incubi macabri di Siouxsie. "Go Back" tenta addirittura di
recuperare le radici del "rock" con il riff iniziale di Levene (anche se sempre
trafitto da un oceano di dissonanze): peccato che il canto robotico di Lydon e
il contrappunto di poche, sparute note pianistiche facciano naufragare anche
solo una parvenza di normalità in un caos demoniaco: è il momento dunque per la
chiusura affidata a "Francis Massacre", il pezzo più allucinato (e allucinante)
dell'opera: Atkins picchia come un dannato su qualunque cosa trovi a portata di
mano, Lydon urla come uno psicopatico colto da una crisi epilettica, in
sottofondo si avvertono ronzii elettronici e fugaci interventi pianistici. Brano
che è una vera e propria piece d'avanguardia, mette in luce meglio di ogni altro
tutta la lucida follia del progetto PIL. Nulla avviene a caso nel disco, tutto è
calibrato con cura certosina per ottenere un effetto di totale disgregazione dei
suoni, delle parole, persino delle immagini che riesce ad evocare in ogni
istante questo unico, monolitico, delirante e terrorizzante kammerspiel
che è "Flowers of Romance".
Sembrano passati secoli da quando Lydon, o meglio Johnny Rotten,
e i Sex Pistols infiammavano il mondo con i loro grezzi e irresistibili inni
anarchici. "Flowers" non ha più nulla a che vedere con la musica rock: quello
realizzato dai PIL è un campionario di visioni mostruose, è un'esperienza di
sconvolgente messa a nudo della reale desolazione che è tanto in noi, quanto
intorno a noi. Il che è poi null'altro che il vero, dichiarato obiettivo del
punk: solo che prima dei PIL nessuno lo aveva reso esplicito con tanta
chiarezza.