I viaggi, la morte

Da Le voyage di Charles Baudelaire
a Bateau ivre di Arthur Rimbaud.

Il rapporto che avvince gli eccipienti primi della nostra attività estetica, spazio tempo, sembra graduarne la dignità: mentre è possibile riferirsi ad un io vivido nel buio tempo, poiché gli affioramenti del mondo morale ci consentono di immaginare una vita e un pensiero non spaziali, riesce più arduo riferirsi a una plaga di spazi cui l’io prepotente e legatore non convalidi, archiviandoli in una successione temporale. La prora taglia l’oceano: «io» trapasso il decimo meridiano. «Io registro nel tempo» il decimo meridiano, poi l’undecimo.

Ebbene: chi pensa che il tempo fluisca, che la vita si compia e vanisca nel tempo, al leggere l’Ariosto od il Salgari?

Il Corsaro Nero può indifferentemente seguire o precedere i Misteri della Jungla Nera. La fuga di Angelica può indifferentemente seguire o precedere la tempesta che getta Olimpia e il suo amante nell’isola sola. Basta che Medoro compia i diciotto anni, che una lieve peluria gli fiorisca il labbro e la gota. Il campo a Parigi e la battaglia sono necessari perché Zerbino lo possa inseguire poi e ferire, ma la data di tale battaglia non è ariostescamente memorabile.

Il sogno sottrae i suoi eventi alle riprove categoriche della realtà. Nel non essere del sogno ci è consentito dimenticare i vincoli onde la realtà grava ogni singolo fatto: per infiniti riferimenti essa gli assegna invece una posizione unica, e, diremmo, una figura individua.

La distruzione di questi vincoli fa che l’inesorabile imperio del tempo venga nel sogno eluso e come dimenticato a sua volta: la capitalizzazione degli sviluppi, operata dalla storia, non ci riguarda. Nei nostri meravigliosi sogni di bimbi andavamo forse inferendo che la luce arridenteci era in parte dovuta alla fredda tomba dello Spielberg.

Il meccanismo segreto della conseguenza era non soltanto ignoto, ma volutamente ignorato.

Si direbbe che la fantasia pura operi ciò che è altrimenti impossibile alla ragione: separi lo spazio dal tempo. In questo dileguare verso i fuochi misteriosi del sogno è smarrito il senso di un io centrale coordinatore a cui sia riferibile ogni parte della realtà nota.

Ma l’affioramento del mondo morale, ma ogni fenomenalismo morale è esprimibile soltanto se l’io coordinatore venga pensato come attività, se cioè venga intensamente pensato nel tempo.

Così dicevo che una maggiore dignità sembra conferita a questo eccipiente più comprensivo dell’aisthesis, al tempo. Così sembrano essere i sognatori alquanto discosti dalla vita etica: parliamo di gente che scrive, in quanto scrive: l’Ariosto era un bravissimo uomo.

Il modo stesso per cui si inoltrano nell’astrazione, il meccanismo attuante la fantasia li induce a non veder più il contenuto della vita interpretata come successione temporale, quindi come attività, quindi come attività storicamente consequenziata e legata ad effetti, quindi come dovere.

Essi anelano a dissolvere nell’irreale i vincoli tutti della realtà: teoretici ed etici.

Io credo si tratti di un fenomeno tecnico, effetto (1) e causa ad un tempo, oltre che delle solite e complesse vicende spirituali ed ambientali. Poi, nel lavoro, tutto si somma e s’imbroglia: e l’intrico inganna e irretisce ogni analista.

Gli scrittori che traggono il loro avviamento da un forte spunto fantastico più difficilmente possono farsi efficaci rappresentatori di una totalità morale: ciò non significa, beninteso, che essi siano inetti a narrare d’una sentinella che fa il suo dovere, d’una ragazza che resiste alle tentazioni.

Per contro i «morali» sono talora scarsamente fantastici, quando poi non facciano dormire in piedi. (2)

Il Corneille fantasioso, (3) ve lo immaginate? Per il gelido e sublime scolaro dei Gesuiti, Roma vince Alba in quanto l’idea «dovere» è nell’Orazio tersissima e ferma, nel Curiazio una voce sommessa le sorge a lato: l’amore. (La simmetria delle posizioni drammatiche è guida alla interpretazione.)

Il Curiazio ancora è legato a vincolo alcuno del sentimento, ad alcuna mollezza di affetti: le sue radici morali bevono ancora alcun succo dall’humus di umanità. L’Orazio è un nucleo di volontà pura, astratto al di là di ogni premessa umana nel mondo della pura finalità. (4)

Toccò al Corneille la sorte di essere lodato per il calore spagnolesco del Cid: come descrive bene la Spagna, oh che Spagna!

La Spagna del Corneille potrebbe essere, salvo il risalto del sentimento cavalleresco, Turchia o Abbiategrasso. Ma Orazio, Augusto, Poliuto del Corneille non possono essere scambiati con alcuno.

Una tendenza che per far presto chiamerò spaziale accompagna li spiriti inquieti dei viaggiatori nel mondo fantastico – li spiriti «insouciants» dei simbolisti francesi nel mondo letterario: e forse non in questo soltanto.

Certo è che il viaggio, rivissuto o immaginato come fine a se stesso, conferisce alla vita una tonalità ariostesca o disetica, così come fa nei riguardi della poesia la «migrazione estetica» del simbolista, insofferente di ogni adagiamento realistico dell’espressione.

Viaggiatori e simbolisti (5) amano adibire l’esperienza a catalogo per la serie indefinita delle differenziazioni spaziali: e poi che, così praticando, la loro aisthesis si rivolge con preferenza a questa serie spaziale, essi ne accentuano intensamente il motivo lirico più alto, cioè la sua sognata infinità.

Essi vorrebbero rifiutarsi di credere che, come ci è dato vivere un breve tempo (scongiuri), così ci è dato percorrere un tenue spazio: auspicano perciò al loro protagonista una sorta di immortalità spaziale, un al di là topografico ove abbia corso la esperienza ulteriore, infinita.

Prevale per contro nei sedenti (6) la meditazione dei problemi etici, una cura prammatica. I sedenti sono più pratici, più fidi alla realtà, più giusti, più puri. Sognano sognando, ma vivendo vivono. Zappano almeno la terra, emarginano almeno le pratiche del quotidiano dovere. Gli altri sognano vivendo e così non vivono. La loro vita si dissolve nella illusione di poter conoscere tutto; – ma l’io morale è un feroce inibitore, un meticoloso limitatore, un accanito e formidabile negatore: chi vuol «provare tutto», finisce col non provare il più importante, che è la «sua» vita.

Se è poeta, dovrà necessariamente vivere e scrivere: Le bateau ivre.

I sedenti sognano anch’essi, onestamente, con l’animo puro del giovane che guarda agli occidui fuochi del sogno e pensa al lavoro di domani. Di là dal monte la rosea nube scolora. Essi costruiranno pacatamente solidi manufatti: le case, gli argini, le ferrovie. Essi, con fresco animo, vogliono riabbracciare gli amici che tornano dai paesi lontani – che tanto più sanno e conoscono! Ma una delusione li attende: i reduci hanno sperimentato la desolata vanità del mondo spaziale: deserto orrendo è la terra a chi non possieda il secreto interiore dell’essere: un fine «morale».

I viaggi, che sembravano via via poter appagare un desiderio inestinguibile, hanno rivelato la gelida uniformità degli oceani e dei continenti.

È merito certo del Baudelaire, che ha tanti altri meriti, l’averci dato una vivida drammatizzazione di questa dialisi degli umani in sedenti e migranti – nelle forme d’un canto amebeo.

È qui opportuno annotare che Baudelaire non può considerarsi un puro spaziale, in quanto si avverte in lui un orgasmo di origine etica, presagio spaventoso della sanzione che verrà perseguendo l’eslege, se anche come urto d’un Dio esteriore, (7) d’un Dio giudicante.

Non è facile sempre distinguere se operi in ciò la raffinata perizia dell’artista o l’angoscia umana del perduto: probabilmente l’acutezza del tecnico sente qual è la linea dominante del tema, la incide, la «valorizza», strappandola come lucidità acre al tormento dell’uomo: al modo certi antiquari innamorati che sanno quale sia il pregio d’un quadro, anche per venderlo bene.

Certo è che il Baudelaire introduce nel suo dramma l’idea: nelle forme più ossedenti del presagio, della paura, del rimorso, servendosi di quanto materiale espressivo gli venga offerto dalla storia degli uomini, non rifiutando i simboli del cattolicesimo.

In Une martyre, la donna si spoglia: un ritratto languido, la solitudine strana della camera rivelano

un amour ténébreux,
Une coupable joie et des fêtes étranges
Pleines de baisers infernaux
Dont se réjouissait l’essaim des mauvais anges
Nageant dans les plis des rideaux.

I baci infernali, di cui si ringalluzziscono gli angeli cattivi, nascosti nelle pieghe delle tendine! Nel sonetto La Destruction, il demone della sensualità artificiale:

Et, sous de spécieux prétextes de cafard
Accoutume ma lèvre à des philtres infâmes.

L’aggettivazione etica non è limitata a questo spécieux, a, questo infâmes. Ecco:

… un désir éternel et coupable

che ricorda «les coupables joies»; e il verso stupendo:

Il me conduit ainsi, loin du regard de Dieu.

Lontano dallo sguardo di Dio, cioè al di là di ogni limite pensabile di miseria e di abiezione.

Questa espressione, più che un simbolo della vita sentimentale, è lo schema di un profondo pensiero. Siamo già al di là della tecnica espressiva, siamo alle soglie di una chiarezza filosofica di cui non mancano accenni nel poeta di Correspondances.

Si rileggano, fra le pièces condamnéés dal tribunale della Senna le meravigliose quartine di Femmes damnées, meravigliose non certo per la geremiade finale «descendez, descendez, lamentables victimes, etc.», che è una via di mezzo fra il coro tragico e, forse, Bossuet – ma per le intuizioni etiche della stupenda Hippolyte. Irrompono nell’orrore della cupa sensualità, come lampi lividi fra i cumuli d’una tempesta.

Je sens s’élargir dans mon être
Un abîme béant…

In tutta la forsennata poesia l’idea etica è richiamata tragicamente, è paurosamente sottintesa. Il graduale dissolvimento della volontà-fine (morte etica) conferisce appunto al dramma la sua infernale pateticità.

Le Voyage chiude il libro del poeta, e, del libro, il capitolo ultimo, titolato La Mort.

Queste strofe sembrano recuperare, davanti alla buia eternità, ciò che sarebbe stato sogno gioioso al ragazzo, quando avesse potuto lasciare la patria

les yeux fixés au large et les cheveux au vent,

ciò che è divenuto nell’uomo una desolata follìa: l’avidità del nuovo, nel senso spazialmente corrotto onde la interpreta il ricercatore dimentico d’ogni finalità con una intenzione, direi con una posa, esclusivamente estetica. Il rimpianto di un motivo etico che intessa la trama della vita è tuttavia manifesto, se pur non espresso, nella forma talora spleenitica, talora cinica, talora desolata della composizione.

C’è poi da notare che, per effetto di quella calda ed intensa umanità tutt’affatto baudelairiana, i folli cercatori d’ogni nuova fortuna s’imbattono nella posizione lirica degli amici immobili; si celebra così la stupita freschezza di questi, la loro bontà rimasta ancora un po’ ingenua, la loro fede nella vita, non per anco alterata dagli urti della falsa esperienza spaziale. Il poemetto merita troppo una breve esposizione.

Nella prima ripresa, a tinte logico-espositive tipicamente francesi (il ragionare in versi però si fa anche da altri e in modo assai più pedestre, come ben sappiamo) viene analizzato lo spunto iniziale che mette in moto il manìaco dei viaggi: viene nettamente riconosciuto che les vrais voyageurs sont ceux-là seuls qui partent pour partir –cioèdei simbolisti puri, (8) degli astratti dalla realtà etica:

Ceux-là dont les désirs ont la forme des nues
Et qui rêvent, ainsi qu’un conscrit le canon,
De vastes voluptés, changeantes, inconnues,
Et dont l’esprit humain n’a jamais su le nom!

Il carattere astratto del sogno è lucidamente affermato: con sicura chiarezza, con acume psicologico: con vigore rappresentativo degno del poeta.

Non mancano tocchi espressionistici di rara potenza, come ad esempio:

ils s’enivrent
D’espace et de lumière et de cieux embrasés.

Acuto, secondo me, l’aver principiato dal fanciullo, la cui vita psichica rappresenta appunto il momento della pura esteticità nello sviluppo ontogenetico. D’altronde in questo polittico del Voyage c’è un po’ lo schema di certi polittici fiorentini o senesi – le età dell’uomo, il corso della vita e simili – cosicché è giusto cominciare dall’infanzia.

Nella seconda ripresa il tema è contrappuntato per alcuni facili sviluppi pseudo-ironici: commento del fattaccio in tono di facile filosofia: il viaggiatore è un sognatore inguaribile, ridicolo, talora donchisciottesco (Capoue-taudis); concettose dialettizzazioni francesi come

pour trouver le repos court toujours comme un fou,

di gusto a noi alieno. Non manca un richiamo mitologico prevedibile: Icaro. (9)

Importante è l’affermazione del destino umano di questi migranti e della sua vanità etica:

Singulière fortune où le but se déplace
Et, n’étant nulle part, peut être n’importe où.

Ancora, incidentalmente:

… L’Imagination qui dresse son orgie.

Orgia è dunque il puro sogno, come la sbornia, come l’estasi procurata dagli oppiacei.

Nella terza ripresa irrompe, vivida e chiara, la calda dolcezza baudelairiana. Una musicalità improvvisa e fluente sgorga dal cuore proprio del poeta, dopo i sobbalzi critici delle precedenti riprese; una stupenda espressione ci trascina.

Gli spiriti intatti degli immobili, con ingenuo e fraterno e passionato trasporto, chiedono ai viaggiatori di svelare i mondi misteriosi, a loro per anche celati. I rimasti si volgono ai reduci come a dei fratelli maggiori, che possano farsi maestri d’accorgimenti e di verità, narratori di fantasiose fortune: il racconto potrà concedere, come un sogno, l’esaudimento che non concede la vita:

Etonnants voyageurs! quelles nobles histoires|
Nous lisons dans vos yeux profonds comme les mers! (10)

Si noti l’aggettivazione originalissima, in particolare quel «nobles».

Con brutale ruvidità rispondono i migranti, quasi lieti di spezzare ogni fede nell’esperienza spaziale, di negare ogni gioia al sogno comune, di cui ora sentono l’orrida vanità. La quarta ripresa si svolge potentemente come antistrofe della terza, e chiude con intensi tocchi descrittivi de’ paesi lontani, de’ paesi «fantastici».

Affiora la «posa» baudelairiana del trovar interessante soltanto ciò che è tragedia, una sorta di spasmofilia estetica:

malgré bien des chocs et d'imprévus désastres
Nous nous sommes souvent ennuyés, comme ici,

dove il nucleo snobistico del concetto è costituito da quel malgré.

Però, però questa supposta posa, fin dove è posa? Forse, per il Baudelaire e per tanti altri meno poeti di lui, si tratta di un’estrema verità – di uno spostamento patologico, che il dolore ha creato, dalle normali acquiescenze alla vita. Quello che più angustia il folle poeta è la noia, la spaventevole noia – ne circondi l’orrore, purché sia rotto il cerchio implacabile della noia. (11)

Occorre avere il coraggio ben chiaro della onestà: questo trouver du nouveau ad ogni costo è un principio di dissoluzione. Trouver du nouveau – quindi la tensione simbolistica – quindi il viaggio senza meta – quindi l’oppio e lo haschisch.

La realtà etica di un padre che fa sacrifici per mantenere i figli al ginnasio, prega Dio che Carluccio non isciupi il dizionario, così poi servirà per Pieruccio: questa realtà è aborrita dai sognatori ad ogni patto. Ma è realtà, realtà buona, non demenza.

Nella quinta e sesta ripresa si compie il canto amebeo, con accenti di profonda verità umana (le peuple amoureux...) diatroce sarcasmo (la femme, esclave...) di ritenuto dolore (le martyr qui sanglote). Acuta l’annotazione del contenuto retorico della storia, (12) di quella specie di fede virtuale che è guida agli umani e che trascina gli spiriti anche quando non è se non trama di mere parole (L’Humanité bavarde...).

Bello il grand troupeau, se pure abusato dai filosofi faciloni e dai romanzieri spleenitici. Finale oppiaceo, che intende forse recare ad un’ultima e logica illazione l’illogicità degli spaziali (Già che abbiam fatto trenta, facciamo trentuno – sembrano dire gli astratti) – e in cui comunque il poeta è un po’ Cicero pro domo sua.

Nella settima ripresa, tetre constatazioni, tormentose domande, gioco di abbandono e d’irrequietudine. Poi una tristezza raccolta, che si tramuta nel gioioso presagio della libertà! Accorati rimpianti divengono richiami dell’oltre vita.

Si riaffaccia, non più come accenno ma come espressa determinazione, il motivo dell’orrore preferibile al tedio. Il mondo

Une oasis d’horreur dans un désert d’ennui.

Le due quartine dell’irrequietudine (Faut il partir?; Comme le Juif) sono del tipo logico e disquisitivo che occorre nella prima e nella seconda ripresa, mentre le seguenti hanno carattere di commozione più dolce ed intensa – un po’ viziata dalla mitologia; che per altro consente simboli e trapassi più rapidi e di comune accezione.

Elettra, e i fratelli ci chiamano: andiamo a raggiungerli. Questo tratto, molto sentito e patetico, è in contrasto con la tesi direttiva dello snob spaziale, ma le sorge di contro appunto come una valida antitesi, germinata dal sentimento. Nell’ottava ripresa, brevissima, la morte liberatrice, forse quella stessa Elettra che ci ha indicato il «dovere», viene invocata con accento assai dissimile dal rimpianto petrarchesco: «i dì miei più correnti che saetta – fra miserie e peccati – sonsen andati – e sol morte n’aspetta», il quale è edonistico e religioso ad un tempo. Viene invocata nelle spoglie di un capitano di lungo corso (Le Voyage!) sì che il nostro cervello un po’ ingenuo, un po’ fanciullesco, atto quindi a certi guazzabugli, finisce per fare una rozza sintesi di teschio, scheletro, falce, lenzuolo e Caròn dimonio. L’allegoria, in fondo, e dato quel cervello, non ci sembra del tutto sgraziata. Più anche ci piace l’off, son stüff finale, detto con semplicità:

Ce pays nous ennuie, ô Mort! Appareillons!

Il grido Verse-nous ton poison ricorda il shakespeariano poison e par quasi esprimere un intendimento antitetico nei confronti di esso: il cercatore del nuovo non respinge, ma chiede anzi gli si porga il farmaco ultimo: quello che dischiude le soglie dell’ignoto.

Con qualche sospetto, ma riconoscendolo saldamente avvinto allo schema logico della composizione, leggiamo poi l’ultimo verso.

I richiami marinareschi del grande antecessore non sembrano estranei alla figurazione fantastica nella quale si effuse il tema autobiografico di Bateau ivre. (13) Ma un’esperienza diretta fa, come sempre accade, la potenza espressiva di questo lavoro di Arthur Rimbaud.

Al leggerne i primi versi, si è tentati a credere che la trasposizione in simboli si operi qui per semplice e volgare allegoria. Ma non è agevole definire dove, ad un punto, lo spostamento dal mondo storico e fisico al mondo fantastico divenga artificio.

In alcune posizioni espressive c'è ancora purezza e ingenuità: il simbolista vive realmente e lirizza il fenomenalismo attraverso la deformazione simbolica. Il bimbo così s’impaurisce se il muso del cavallo gli vien troppo accosto (muso simbolo), si rallegra se la nostra mano saluta (mano simbolo), teme la maschera truce, sorride per lo zucchero dolce. Così «vive» sognando, quando ha tra mani il battello, la locomotiva, i soldati.

Ma il simbolista, da questo stato liricamente encomiabile, esteticamente casto, travalica troppo facilmente nel metaforismo voluto, nell’allegoria levata a sistema: è quando cominciamo a sentire un sottile cerchio alla testa, come dicono i romanzieri allorché l’eroina si complica.

Bateau ivre come già Le Voyage segue nel complesso lo schema di una ricapitolazione autobiografica. (14) Catarsi non è la morte fisica, invocata come società esercente la più bella linea di navigazione – sì il riconoscimento della propria stanchezza e nullità morale dentro i termini d’una sopravvivenza fisiologica. In ciò sembra raggiunto il fondo più cupo dell’irreale – ad opera proprio di chi verso questo irreale tendeva come verso la luminosa bellezza del mondo, ad opera di chi avrebbe voluto trasfondere il suo empito di vita in un sogno fantasmagorico, appartandosi infinitamente da tutte le realtà veristiche e dal loro odore troppo vero di basse cuisine. (15)

In tutta la composizione è percepibile, dietro la trama caotica del sogno – lo sgomento della dissoluzione che lo accompagna: questo fin nella tonalità della strofe e del verso, che è quasi sempre o tetra o accorata, anche ove più la luce risfolgori, che si svolge con un presentimento di pausa il quale raffigura musicalmente l’abisso. (16)

Non forse in primissimo piano, ma di là dal risalto dei fantasmi più lineati, sembra dunque acquisito al dramma che il puro sogno, la corsa nello spazio puro, ci consegnano ad un tragico nulla. Il dramma che nell’Ariosto brav’uomo non c’è, perché è portato all’infuori de’ casi di sua vita, che nel Furioso non c’è, perché è portato lungi alla materia e alla tecnica del poema; (17) che c’è nella vita d’una nazione, nella storia d’un popolo; (18) il dramma, nel caso studiato, inerisce alla persona storica del poeta.

Sognare, sognare! Non è vivere.

E, come dentro di noi una voce comanda, che si abbia a vivere, così chi vuole soltanto sognare (ove altri non vivano per lui) avrà cenere soltanto e sgomento. (19)

L’allevamento e la costrizione educativa (sic!), i primi impacci procurati dagli haleurs, cioè dai bardotti che traggono la nave lungo le piatte alzaie, vengono a un tratto a cessare:

Je ne me sentis plus guidé…

I fleuves impassibles sono il monotono scorrere della vita borghese, la banale educazione borghese, la insopportabile santità della famiglia: circondano di grigiore l’adolescenza del poeta affidata ad «institutori» troppo impreparati al loro compito, inetti comunque a seguire e a confortare nel tragico suo sviluppo un’anima di eccezione. Si veda, a questo riguardo, Les poètes de sept ans che anticipa l’esegesi di Bateau ivre. Rimbaud ricorda con certo sarcasmo sua madre:

Et la Mère, fermant le livre du devoir,
S’en allait satisfaite et très fière, sans voir,
Dans les yeux bleus et sous le front plein d’éminences,
L’âme de son enfant livrée aux répugnances.

La sciocca inanità dei metodi educativi correnti, praticati a un tanto il chilo, vuoti d’un amore sollecito e vigile, non potrebbe essere più ferocemente rappresentata: Sans voir!

Il risultato di siffatta perizia pedagogica nei confronti d’un soggetto d’eccezione, e per di più livré aux répugnances, è poiestremamente brillante: contro l’implacabile mediocrità degli educatori offrirà scampo e rifugio la fresca latrina: il terribile ragazzo si ricorda:

… entêté
À se renfermer dans la fraîcheur des latrines.

Ma, sopra tutto, il sogno di una fuggente tempesta:

couché sur des pièces de toile
Ècrue, et pressentant violemment la voile.

Per tornare a Bateau ivre, questi haleurs, che tirano come giumenti la nave sognante, sono bersagliati dagli striduli pellirosse del Salgari (20) (diciamo Salgari tanto per intenderci) – le cui grida giungono al fanciullo solitario come la prima voce della libertà, (21) fantasioso presentimento transoceanico.

Il ragazzo si allontana quindi dagli équipages cioèda tutte le confraternite della realtà. Non può arrendersi a questa realtà, a nessuna sua forma: ed essa finisce per lasciarlo descendre (sic) où je voulais.

L’analisi della trasposizione simbolica in Bateau ivre, mi condusse a un esame interessante, ma troppo lungo per essere qui compendiato. Basti un accenno.

La potenza del simbolo fleuves risiede, oltre che nella immagine in sé (corrente regolare, tra due rive sagge, lungo la quale i carichi di cotone e di grano si inoltrano felicemente a destino, contrapposta alla disordinata libertà oceanica), risiede nella premessa concettuale di questa immagine: una sorgente lontana, un ente primigenio cui il «dissoluto» ancora si sente avvinto. Anche qui, la tecnica espressiva è avvalorata da una intuizione di ordine filosofico. (22)

Profondamente, forse involontariamente espresso, questo oscuro legame di colui che tra poco sarà un «muchacho perdido» nel senso borghese delle parole, alla verità biologica e storica della sua gente, all’origine e quasi direi alla disciplina della stirpe, alla realtà etnica, la quale impone doveri.

Il simbolo, coi misteriosi processi dell’analogia e con l’eccitare «a latere» gli schemi logici del nostro spirito, affretta per più rapidi tocchi queste complesse determinazioni.

La composizione si svolge poi con un carattere strettamente unitario, cioè come episodio unico fatto d’una serie spaziale.

Doviziosa la germinazione simbolica: la virtuosità espressiva raggiunge dei massimi: finisce poi per saziare, come ogni mezzo del quale si abusi (produzione imposta nel campo economico – tesi imposta e tecnica imposta nel dominio dell’arte).

Talora il simbolo prende addirittura il sopravvento: lieto dell’invenzione, il poeta si indugia a delinearlo e lo reca a un tale risalto, da farci dimentichi dello sviluppo tematico del poema.

Il simbolista diviene allora un espressionista, talvolta un semplice descrittore: espressionista e descrittore, beninteso, in quanto si prescinda dal contenuto simbolico della composizione, momentaneamente dimenticato.

Versi di tipo espressionistico ve n’è fin che si vuole; si può citare a occhi chiusi:

Et des taches de vins bleus et des vomissures
Me lava…

dove l’attitudine espressionistica si accentua in quel violento «lava», detto dell’ondata tempestosa, che spazza dal ponte ogni cianfrusaglia e ogni porcheria. Anche:

les azurs verts; où, flottaison blême
Et ravie, un noyé pensif, parfois, descend;

e il susseguente:

Des noyés descendaient dormir, à reculons

esprimenti la tragica e lenta discesa negli abissi marini o nel sottoponte immerso, contraddistinta dal fatto che l’annegato non cammina, e non cammina in avanti. Il verso del Betti:

Nell’acqua fonda calano i morti
Buttati giù dalle tempeste (23)

più accorato, più umano, manca di questa audacia espressiva quanto alla determinazione dell’immagine.

Dei mostruosi serpenti è detto:

… les serpents géants dévorés des punaises,
Choient, des arbres tordus, avec de noirs parfums.

Nel secondo verso la tecnica è espressionistica, nel primo veristica.

Verista, ma stupendamente verista e quasi fotografico è il verso (dei gabbiani):

Et les fientes d’oiseaux clabaudeurs aux yeux blonds.

Un esempio interessante di relatività cinematica ed estetica è offerto da quelle audacissime péninsules démarrées che subiscono un trionfale tohu-bohu.

Chi ha visto un film preso da nave capisce subito: nel 1871 lo schermo ancora non esisteva e il poeta raggiunge questa immagine con un’originalissima evocazione, senza il favore della riconferma illuminante.

Ci chiediamo se questi eccessi tecnici non siano causa, per avventura, di una menomazione della intensità lirica; se non siano gli «individui» prevalenti sulla totalità.

Il canone beethoveniano richiamato a didascalia per l’andante della sinfonia in fa maggiore: «Mehr Ausdruck der Empfindung als Malerei», e che, in certa misura, i simbolisti avrebbero potuto far loro, almeno quanto alle buone intenzioni, li riconduce, per una troppo sollecita ricerca dell’Ausdruck, per una abusiva compiacenza verso l’espressione – a ricadere nella Malerei.

Essi vogliono staccarsi dalla tecnica realistica, dalla logica positivistica, da Zola insomma: si valgono della sensazione e dell’analogia per ottenere la Ausdruck der Empfindung – ma poi dimenticano, come accennai, il punto di partenza; presi dalla passione del metodo, si danno alla caccia e all’allevamento forzato del simbolo; il simbolo-mezzo diviene fine: e talune composizioni, veri vivai di simboli, sono tutte pittura e niente espressione, intendendo quest’ultima parola nel senso più alto e più comprensivo.

Con quanto maggior vigore e quanto più fortunatamente il sinfonista mantiene mezzo il mezzo e fine il fine! Egli realmente esprime l'inesprimibile: e i cenni descrittivi sono in lui soltanto pretesti per raggiungere e dire il mistero.

Ma nella musica: che scoperta!

Certi accostamenti, si dirà, sono i punti deboli della critica.

Ebbene: c’era una volta un poeta, poniamo si chiamasse Quinto Orazio Flacco, che faceva del simbolismo. Ma, come la misura dell’arco romano è perfetta, cosa perfetta e impeccabile è la sua tecnica simbolistica. Ci si perdoni la povertà ginnasiale delle citazioni: si voglia rileggere, se non la si sa a memoria, la nona, libro primo, dei Carmina: Vides ut alta.

Si vedrà che una potente e beethoveniana espressione di sentimento è raggiunta dal poeta proprio per mezzo di analogie simboliche: solché esse si mantengono mezzo, voce sommessa intesa a una sublime armonizzazione. Il simbolo mai non uccide la poesia.

Della pace, della sicurezza che succede alle tempeste dell’adolescenza per una legge a noi superiore e che segna il trapasso al raccoglimento supremo, è detto:

nec cupressi
Nec veteres agitantur orni.

Questa interpretazione simbolistica credo non sia troppo fantasiosa, anche tenendo conto che in latino cupressus e ornus son femmine. Tant’è vero che il Carducci riprende in Mors lo spunto oraziano, valendosi, anche se per esprimere un più tragico stato, dei medesimi simboli:

Tale degli alti pioppi, se luglio il turbine addensa,
Non corre un fremito per le virenti cime.

Si voglia rileggere, nella quarta, libro quarto dei Carmina stessi, i versi:

Quid debeas, o Roma, Neronibus
Testis Metaurum flumen et Hasdrubal

eccetera, eccetera, fino alla chiusa.

Anche qui una beethoveniana espressione di sentimento raggiunta simbolisticamente.

Duri e tozzi, ruvidi e certi i pilastri simbolici: meglio così, vecchio poeta, così più vivido ed alto è il trapasso all’al di là misterioso della conoscenza.

«Oh!» potrebbe ammonirci l’autore del De arte poetica liber, «non è questione soltanto di scelta de’ mezzi, di misura nel servirmene. Dentro le forme del mio simbolismo c’è una realtà morale: quella che ha di sé plasmato l’arte gesuitica del gelido e sublime Corneille, quella che ha dato il suo pane a Livio, “che non erra”; la realtà dell’arco e del ponte, della strada e della fossa, del Metauro e delle Gallie.

«Questa realtà non fu una corsa traverso lo spazio, ma una costruzione “storica” e uno sviluppo nel tempo.

«Se abbiamo camminato e navigato, non era a cercare immagini e sogni, ma per mettere in ordine il mondo.

«Per raggiungere le risonanze terribili del testis Metaurum mi occorse non la poetica solo, ma il console Claudio Nerone: la volontà lucida, la celere marcia, l’assalto delle sfolgoranti coorti. Mi occorse che i primipili cadessero ventenni nella furibonda battaglia: atroce sangue sui giovani visi: e allora tolsi i miei simboli da quella realtà, ascoltai allora gli epici suoni della vita».

Non sapremmo che rispondere al vecchio. Egli, pacato, c’inviterebbe a depromere più benignamente un altro boccale dalla diota sabina, ma di quel quadrimum.

Ho prima notato che Bateau ivre raggiunge di fatto, se non intenzionalmente, la percezione e l’espressione del dissolvimento morale: così già Le Voyage; così, con più cosciente messa in tema, Femmes damnées.

Il folle volo è rotto ad un punto da improvvisi tocchi nostalgici, il cui richiamo deve esser pervenuto anche al poeta di Paris se repeuple durante le sue peregrinazioni equatoriali:

Je regrette l’Europe aux anciens parapets!

Sono le balaustrate del Luxembourg, dolci e malinconiche in un mattino d’ottobre, e quelle che simmetrizzano le terrazze e i jets d’eau di Versailles, e quelle, fastigi marmorei, dei ponti: sotto cui passa il buon fiume borghese della vecchia patria, della patria reale e storica; che non si può dimenticare, che non si dimentica mai, nemmeno da Alcide Bava (24) fino a quando alcunché d’umano vige nell’animo nostro.

Poi il pianto e la stanchezza del fanciullo smarrito, il quale, da certi aspetti, ci pare il martire di una bieca fatalità psicologica.

… j’ai trop pleuré…
L’âcre amour m’a gonflé de torpeurs enivrantes.

Egli rivede se medesimo solo nel mondo, che ha negato: si specchia in una imagine straziante:

Si je désire une eau d’Europe, c’est la flache
Noire et froide où vers le crépuscule embaumé
Un enfant accroupi plein de tristesses, lâche
Un bateau frêle comme un papillon de mai.

Eppure il mondo continua a faticare sua vita: ma il poeta se ne sente avulso, straniato: il suo sguardo sul mondo è spettrale. Il traffico segue: la sistemazione bismarckiana si adempie con volontà lucida e vigile. Affaccendati, i battelli «porteurs de blés flamands ou de cotons anglais» tagliano gli uni agli altri la rotta: vittoriose fiamme e pavesi sono ali nel vento della marina. Vigono nella notte, ai pontili, gli occhi implacabili dei falots – indicatori alle navi dabbene della giusta, della saggia, della necessaria rotta.

Rimbaud poté rivedere la Francia, rivide sua madre. Morendo nell’ospedale della Conception a Marsiglia disse della sua vita: «… C’était mal! ».

Non c’importa di accalappiare, per nessun fine edificante, questa confessione atroce questa che a un umano è costata tanto dolore e sì tragica esperienza dell’essere. Non abbiamo titoli all’ufficio «de propaganda virtute». Abbiamo citato a chiarimento di quanto ci interessa notare: la sensibilità morale vige sotto il velo dell’astrazione estetica.

Il problema dell’espressione non sembra potersi disgiungere da un riferimento alla totalità. La poesia-vita non può essere avulsa dalla totalità: perduta, episodica.

Se paia talora trasfondersi in forme astratte o allucinatorie, astratto e irreale è solo l’eccipiente fantastico, cui misteriosi richiami di vita percorrono, con celata intensità.

La poesia non è una esercitazione logica o paralogica, non una dissertazione spaziale, non una figurazione nominale. Esercitazioni logiche «pure» sono il giuoco degli scacchi e certi sviluppi non applicativi dell’analisi matematica; figurazioni estetiche pure sono i disegni del caleidoscopio, la decorazione dei tappeti presa a sé, e i motivi ornamentali in uso nei biscottifici.

La poesia in quanto epitome purificatrice della conoscenza nella estensione più ampia di questa, non può cancellare dal mondo le realtà etiche. Quando voglia prescindere «in absoluto» da un qualunque motivo della realtà complessa, rinnegarne un qualunque vincolo, si trasforma in arzigogolato ricamo, in «imaginosa finzione», nel senso più dilettantesco della parola.

Come la tesi, piccina e gretta, promana il tanfo di una chiusa miseria, suscita il prepotente bisogno di spalancar le finestre: vien voglia di prendere il sicuro assertore e di strascinarlo per una corsa pazza nel mondo, che veda: che rinunci a stillare i teoremi della meschinità; la negazione così di un fine possibile, di uno sviluppo possibile, di una norma o di una legge o di una coordinazione possibile inaridisce le fonti stesse della espressione.

Così si ottengono i frantumi del campanile ruinato; caro cimelio per i raccoglitori di rarità.

L’ultimo viaggio, l’ultima partenza non sono un monopolio lirico dei simbolisti: questo motivo è stato pizzicato un po’ da tutti, è stato talora orchestrato con tromboni, non di rado con pifferi.

I simbolisti, contrappuntandolo mediante i sottintesi del loro destino tragicamente spaziale e gli incisi delle loro esperienze in libertà, hanno reso più acre il senso dell’analogia fra la partenza e la morte: il migrare dei simbolisti è un determinare nuove fortune spaziali, nuove conoscenze e nuove sensazioni astratte dall’impulso coordinante dell’io, è un perdersi nella casualità oceanica; il morire è un accedere a più vasta dissoluzione, a più sconfinata casualità, ove ogni impaccio sia tolto dei vincoli d’ogni teleologia.

Filosoficamente questo anelito verso il caos adirezionale rappresenta un regresso alla potenza primigenia dell’inizio, ancora privo di determinazioni etiche: una ricaduta nell’infanzia dell’essere, se così sia lecito dire.

Io credo che nella persona umana esso appalesi la rivolta della materia paziente contro l’insopportabile tirannide della finalità. Anche la finalità eccede ed erra e viene in questo errore a negarsi: la materia è incaricata di rappresentarle i vincoli logici del mondo, le premesse proprie di essa finalità: la materia è la memoria logica, la «premessa logica» su cui lavora ogni impulso finalistico, ogni «forma» attuante se stessa (chiara idea platonica rielaborata dagli evoluzionisti e poi da Bergson). Così nella economia di ogni evoluzione possibile non è lecito distruggere il meccanismo proprio, il sopporto della evoluzione.

È strano che le acute dottrine trascurino i fatti del sentimento, il quale costituisce l’indice della funzionalità teleologica. Se il sentimento è rivolta, ciò significa che il dio operante ha sbagliato.

Fantasticamente il non essere viene concepito dai due poeti come l’al di là dello spazio noto; essi accettano fantasticamente l’idea d’una immortalità teoretica, ammettendo che la serie delle esperienze spaziali possa celebrarsi oltre i termini della vita storica. A questo perviene la già commentata chiusa del Voyage e, a lor modo, perverrebbero i versi di Bateau ivre:

«Est-ce en ces nuits sans fond que tu dors et t’exiles,
Millions d’oiseaux d’or, ô future Vigueur?»

se le parole «future» e «Vigueur» non riportassero in giuoco l’idea temporale dello sviluppo, l’idea della energia operante.

L’oltre vita è nichilisticamente intuito nella settima, libro quarto, dei Carmina:

nos, ubi decidimus
quo pater Aeneas, quo dives Tullus et Ancus
pulvis et umbra sumus.

E nell’accenno dell’ode seguente:

Quid foret Iliae
Mavortisque puer, si taciturnitas
obstaret meritis invida Romuli?

Soltanto il potente poeta attuerà, contro la tenebra sopravveniente, la consacrazione degli eroi.

Il che concorda con la tesi foscoliana dei Sepolcri, la quale pone, al di là della morte, il nulla teoretico ed etico ed è, nell’accezione comune della parola, nettamente materialistica. La consapevolezza etica si propaga tuttavia attraverso la discendenza mediante gli impulsi suscitati nella nazione dalla memoria coordinatrice: (25) per la quale memoria vengono buone le urne nella decorazione classicheggiante o, secondo il classico, la espressione dei potenti poeti:

… lingua potentium vatum…
… dignum laude virum
Musa vetat mori.

I poeti, gli espressori sono, in generale, i potenziatori della vita dello spirito lungo la discendenza della stirpe.

Povero Baudelaire! Della stirpe per entro le cui fonde latebre, ove si attuano misteriose germinazioni, anche il suo canto andrà permeando alla luce: approderà un giorno alle rive della luce:

… afin que si mon nom
Aborde heureusement aux époques lointaines,
Et fait rêver un soir les cervelles humaines,
Vaisseau favorisé par un grand aquilon…

Lo Shakespeare, in Amleto, interpreta la migrazione verso l’assoluto come un cessare dell’attività finalistica: dall’essere del monologo al non essere pratico ed etico.

Per meravigliose risonanze sentimentali il non essere (morire, dormire, forse sognare – to die, to sleep; – to sleep! perchance to dream!) appare allo spirito esausto dal veleno della vita attuata, come un riposo:

The potent poison quite (26) o'er-crows my spirit.

Il compagno di gioventù (antistrofe affettiva nella economia del dramma) comprende e quasi con superiore chiarezza ammette il fato, consente alla morte. Non piange, non urla, non secerne untuosi conforti: solo proferisce le parole della puerile bontà:

Good night, sweet prince,
And flights of angels sing thee to thy rest!

«E voli di angeli cantino per il tuo riposo».

La morte individuale è qui poi elemento di una ulteriore significazione: immagina il poeta che una feroce fanfara, la volontà luminosa di giovinezza, sopravvenga al mostruoso dissolversi di una stirpe, uccisa da neri veleni. Un’altra stirpe, pura e più forte, continuerà la vita. Fortebraccio reggerà la trama dell’essere:

He has my dying voice.

«Egli ha il mio voto di morente».

Il poeta vuole figurare che la ricostituzione morale operata da Amleto costa a lui e alla sua schiatta la rinuncia alla vita. L’eccesso contro la vita è espiato così.

Ad un’altra progenie è commesso di perpetuare l’attività finale dell’essere.

Ci preme di notare come nella compiutezza cosmica dello Shakespeare la serie spaziale passi in secondo e terzo piano, luminoso o nero sfondo, rispetto alla serie temporale degli sviluppi.

Notiamo ancora: lo spasimo tragico proviene ad Amleto non dalla mancata funzione finalistica (il che accade in Femmes damnées, Le Voyage, Bateau ivre), non dall’ossessione dell’abisso morale aprentesi d’attorno al puro esteta: sì dalle angosce crucianti onde l’attività finalistica lacera le deboli fibre della creatura umana. Il fine (27) strazia la materia.

Un soprappiù di intensità tragica è poi reso al dramma dal fatto che Amleto si propone un fine «negativo» di giustizia riparatrice (negazione del male e quasi rigetto di questo nel campo dell’impossibile); (28) la quale opera è per l’esecutore ben più desolatamente grave che non il sacrificio incontrato per un fine «creativo» (costruzione del bene, armoniosa preparazione delle époques lointaines).

Con simboli classici il Goethe (Elegien, I-VII), con goethiana serenità il Carducci (Roma) presagiscono il proprio distacco dalla sede pragmatica della vita.

Immagina il grande alemanno che la eterna Ebe latina abbia sorriso a lui peripatetico nella suburra e lo abbia introdotto presso la maestà terribile di Giove capitolino. Egli implora il perdono del nume: il quale, verisimilmente, aveva commesso alla dea di condurgli un eroe (Hast du ihr einen Heroen herauf zu führen geboten?), non un poetastro.

Indulga il Nume al fedele della bellezza: non erra forse anch’essa sua figlia, la crudele Fortuna, al sovvenire de’ suoi favori gli umani?

Accolga il Nume lo spirito del poeta in questo suo Olimpo latino, sulla rupe del Campidoglio immortale (der hohe Capitolinische Berg); lo Psicagogo poi guiderà verso la pace serena dell’Erebo l’anima che ha compiuto il ciclo poetico, il ciclo eroico.

Con dolce spunto romano ricorda il monumento funerario di Cajo Cestio, quasi vigilante presso il cimitero dagli alti pini, dagli alti cipressi: ivi è la porta e corrono ivi le mura che guardano verso l’Appia, la Latina e l’Ostiense. Rosse di antico mattone, paiono, nel sole morente, il limitare d’una eternità serena. «Sopportami, o Giove, presso di te: ed Hermes più tardi mi guidi, oltre il monumento di Cestio, giù dolcemente all’Orco». Questo potrebbe dire ogni legionario di Claudio.

Ma per accedere così puri, così sereni, alle soglie dell’Appia, bisogna saper cadere ventenni al Metauro, primipili della prima coorte: bisogna aver lavorato impavidi alla costruzione cosciente del proprio fine.

Non importano i favori della rinomanza meretrice (l’ora suprema calando con tacita ala mi sfiori la fronte e ignoto io passi…) purché un fine morale ci sia: sia esso la patria di Horace o la fede di Pauline, sia esso la «volontà buona» di Kant.

Il Carducci parafrasa e diluisce la rapida e perfetta espressione goethiana nel noto finale di Roma.

Dopo essersi imbizzito anche una volta contro i reggitori del Regno – celie allobroghe del «vinattiere di Stradella», fili di ragno del «tessitor di Biella» (29) – dopo aver coesortato gli aspetti della patria a un epitalamio immortale – egli si rivolge alla Madre:

O nave, che attingi con la poppa l’alto infinito,
Varca a’ misterïosi lidi l’anima mia.

Egli affretta alla sua pace un al di là teoretico ed etico popolato non già dai freddi «paradeigmata» di Platone, ma dagli spiriti assenzienti de’ padri, vigili sopra i destini ed i compiti della discendenza. Essi accoglieranno la sua anima pura κατ’ασφοδελòν λειμῶνα, lungo le rive del fiume sacro a sua gente, la Flaminia dipartendosi verso le genti ed il mondo infinito.

Egli ributta, come Rimbaud, la realtà misera e tetra: ma non rifugge verso l’al di là spaziale e ipologico della fantasia pura, della aisthesis pura: rinnova invece alla stirpe il presagio d’un al di là morale sopra la bassezza e l’angoscia.

Onesto e buono, fervido e incuorante, egli ripudia la grettezza degli spiriti involuti nelle mode o negli intrichi del giorno: a ciò non sospinto da una dissociante mania estetica, ma da una perenne trepidazione morale. (La sua ingenuità, la sua inesperienza del mondo lo condussero a mal valutare e però a disistimare e a spregiare uomini che lo eguagliavano in volontà di bene e lo avanzavano in saggezza e, neppur parlarne, in capacità di governo.) Condoniamo alla sua «riesumazione» il gusto di certi peccati decoramentali, nel considerare questa profonda funzione umana a cui, secondo sue forze, egli adempie con amore sincerissimo. Così, donde accorsero gli «ultimi nostri», (30) da Villa Corsina e dalla fùmida prua del Vascello, egli si è allontanato dopo nobili adempimenti.

La cadenza catalettica del pentametro spegne, con silente pausa, il rapido volo dattilico:

Dulde mich, Iupiter, hier, und Hermes führe mich später
Cestius Mahl vorbei, leise zum Orkus hinab.

1927

 

1. Effetto di un dato psicologico, causa di una predilezione tonale ed espressiva.

2. Un esempio accettabile della prima affermazione, non del dormire in piedi, sono i Promessi Sposi: anche là dove la materia avrebbe potuto offrir motivo ai voli della fantasia, il tema etico preoccupante domina interamente la situazione: e la tonalità espressiva è sempre logica e realistica, anche se screziata di ironia o di dolore (castello dell’Innominato, passo dei lanzichenecchi, Federigo, monaca di Monza, ecc. ecc.).

3. Il Corneille raggiunge una sorta di fantasticità etica nel suo meraviglioso Polyeucte: l’attitudine morale degli eroi e dei martiri è quivi espressa con potenza transumana.

4. È il gesuitico Perinde ac cadaver di origine indubbiamente classica: probabilmente stoica. Notevole questo dirigersi della moralità gesuitico-corneliana verso alcuni canoni di Kant (vedasi ad esempio la Pedagogia).

5. Si parla di simbolisti puri, in quanto tali.

6. Preghiera di una interpretazione corretta: sono sedenti coloro che non fanno del viaggio un fine a sé.

7. La nota biblica di Dio giustiziere ricorre insistentemente nel Baudelaire.

8. Il bimbo che imita sbuffando il treno in partenza è un simbolista-animista.

9. Icaro è per altro in un piano leggermente diverso. Ha comune con i simbolisti lo scambio fine-mezzo. Il discorso sarebbe lungo anche qui: Odisseo dantesco, ecc.

10. Si noti il ritmo «marittimo» di questi versi che sembrano rappresentare anche musicalmente il continuo sobbalzo della prua, il tangage della nave, all'incontro dell’onda oceanica.

11. Circa l'ennui baudelairiano si legga il finale della Préface nelle Fleurs du mal stesse. – Il Leopardi non supera in questa direzione il concetto di «noia», donde in esso Leopardi una più arida, una più stupenda, una più disperata desolazione.

12. La storia ha anche un contenuto retorico.

13. Opinione condivisa da altri. Cfr. Marcel Coulon, Au coeur de Verlaine et de Rimbaud: Paris, Soc. Ed. «Le Livre» – p. 149: «On n’a pas assez dit que Rimbaud doit énorméinent à Baudelaire. Dans une forte mesure, Bateau ivre se trouve orchestré en marge de Voyage».

14. È un’autobiografia in anticipo, beninteso: una divinazione: il poeta non aveva allora 18 anni.

15. Verlaine – Art poétique:«Fuis du plus loin la pointe assassine» ecc. ecc. – Questo plus loin è l’interpretazione logica della realtà, la integrazione filosofica degli aspetti fenomenici.

16. La tecnica della cesura è recata in Bateau ivre a un estremo grado di perizia.

17. Benedetto Croce: La materia per l’armonia – L’attuazione dell’armonia – in Ariosto – Ed. Laterza, Bari.

18. Troppo lungo sarebbe il discorso: edizione definitiva del Furioso 1532: sacco di Roma 1527.

19. Preghiera di interpretare saggiamente: il poeta sogna per sé e per il suo popolo, che vive. Se pretende di svellersi dalla vita per darsi allo snob della eccezione, cade in una sorta di miseria, in un abisso di stupidità.

20. Il Journal des Voyages, il Tour du monde e altri Tomes de Mr. Figuier illustrés –Coulon, pag. 139 del citato volume.

21. In Les poètes de sept ans: «Forêts, soleils, rives, savanes! Il s’aidait de journaux illustrés...», e in Bateau ivre stesso, più avanti: «J’ai heurté, savez-vous, d’incroyab1es Florides...»: è la cosiddetta vena esotica di Rimbaud. Si veda anche la plaquette del Coulon, pagina 136: «… Ivre de départ, ivre d'inconnu, ivre de liberté n’importe où et le plus loin possible de la détestable (sic) réalité que lui sert l’existence quotidienne».

22. Il Rimbaud sembra derivare dall’intimo della sua personalità anche una coscienza genetica; vedasi ad es. il primo capoverso di Mauvais Sang nella Saison en Enfer:«J’ai de mes ancêtres gaulois l’oeil bleu blanc, la cervelle étroite, et la maladresse dans la lutte».

23. Il Re Pensieroso – I Palazzi di smeraldo.

24. È lo pseudonimo giovanile del cinismo rimbaudiano.

25. Quella tal memoria, che talora si offusca, come tutti sappiamo.

26. Mentre lo S. accudisce alle notate significazioni, sorgono in taluni delle grandi perplessità; troppi sono i morti: e se il veleno è belladonna, giusquiamo o cicuta: e come il poeta, di solito così bravo, si dia tanto pensiero per la successione al regno di Danimarca: una vera quisquilia!

27. Un discorso circa la creduta abulìa amletica, circa il determinismo e l’asserito agnosticismo del dramma sarebbe qui fuor di luogo. È un discorso complicato però.

28. Se pensiamo, è questo l’oscuro senso di ogni ripresa etica: ricostruire la realtà giusta, dimostrando l’impossibilità fenomenale delle posizioni disetiche.

29. Stradella e Biella sono due realtà nell’organismo della nazione, non meno di Gallarate e Busto Arsizio. I due toponimi sono dal poeta richiamati per mero incidente.

30. «Fuori alla Certosa di Bologna» è un’altra celebrazione de’ vincoli tra l’individuo e la gente, dal Carducci sì fortemente sentiti.

published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859

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Framed image: superimposition of a postcard of the Gaius Cestius pyramid sent by Gadda to Ugo Betti in 1930 (unpublished – by kind permission of the Betti Archives, Rome) and of Giovanni Battista Piranesi, Piramide di C. Cestio, from Vedute di Roma, 1745.

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