Gadda e Machiavelli

Gian Mario Anselmi & Nicola Bonazzi

Sorprendente, ma tutt’altro che casuale, il legame tra Gadda e il Segretario fiorentino rischia di riservare più d’una sorpresa. Machiavelli pare essere uno degli autori che con più ostinazione il Gran Lombardo ha frequentato per attingere a quella prosa fiorentina da cui egli stesso ha dichiarato di essere in qualche modo «ossesso». A proposito del Primo libro delle Favole (il testo dove più che altrove agisce quell’«iperfiorentino» di cui ha parlato Claudio Vela), (1) Gadda ammette:

Molte di queste «favole» sono scritte [...] in lingua italiana arcaica, arieggiante a modelli del ’300, ’400 e ’500, da Dino Compagni al Villani; dal Cellini al Machiavelli [...]. D’altra parte, non sono nuovo a tali esiti formali. Soluzioni formali del genere possono trovarsi con facilità nella mia produzione precedente. Per esempio, nella prefazione al Castello di Udine, che ha per titolo Tendo al mio fine. Direi che sono stato sempre ossesso da questa «prosa» toscana: anche Dante, Compagni, Machiavelli. (Gadda 1993b: 27)

La duplice occorrenza, nella medesima battuta, del nome di Machiavelli (come pure di quello del Compagni, altro campione, del resto, del fiorentino arcaico), se non lo si vuole considerare un lapsus significativo, andrà comunque valutato per quello che effettivamente è: l’ammissione, fatto salvo il Manzoni, di un primato dell’autore del Principe nelle preferenze letterarie, non solo linguistiche, di Gadda; soprattutto laddove, poco oltre, egli sia costretto a confessare, ed è circostanza rarissima, che per abbandonare il pastiche arcaico delle Favole e «scrivere in altra forma», deve stare «quindici giorni almeno senza leggere, per esempio, il Machiavelli» (Gadda 1993b: 27).

Il primato machiavelliano sembra palesarsi già in anni lontanissimi. In un «elenco delle letture da fare per la redazione del romanzo», ovvero il Racconto italiano di ignoto del novecento, in data 26 marzo 1924 Gadda annota al primo punto: «Machiavelli. Stile, vedere un po’» (SVP 573). Un elenco, questo, dove figurano Stendhal, Balzac, Kipling, «Whitmann» (sic) e «Dostjewski» (sic): il nome d’apertura fa così la figura d’una curiosa anomalia ma, per il medesimo motivo, appare indizio di un interesse non occasionale. Passa poco meno di un mese e, in data 23 aprile 1924, Machiavelli ricompare: «Leggendo le “Storie fiorentine” di N. Machiavelli. – Con questi pensieri si morì» (SVP 580). Un rimando di tal genere, a così scarsa distanza dal precedente, testimonia una lettura se non assidua almeno attenta, corroborata, pochissimi anni dopo, da un giudizio che non lascia spazio a ripensamenti: in una battuta della Meditazione milanese (siamo nel ’28), alla richiesta di un immaginario critico, che pretende dei nomi a supporto di un ragionamento precedente, l’Autore risponde: «L’intelligentissimo e a me caro Niccolò Machiavelli, meraviglioso scrittore, di fronte a cui tanti altri sono dei meschini e reumatizzati pasticcioni» (SVP 843).

Ce n’è d’avanzo, insomma, per assumere a prova il sospetto che il laboratorio gaddiano, negli anni giovanili, abbia incamerato l’importante lezione di lingua e stile dell’autore del Principe. A un livello esteriore, per l’appunto linguistico-stilistico, i molteplici influssi machiavelliani sono stati ampiamente dimostrati da Vela, che richiama, per il «martellamento insistito dei futuri» di Tendo al mio fine (Vela 1994: 183), le pagine conclusive del Proemio delle Istorie fiorentine; per l’uso frequente del verbo in clausola (es.: «E l’erba, che sarà cresciuta, la mangerà il cavallo, che campato sarà», ancora in Tendo al mio fine, RR I 122), certi sintagmi sempre delle Istorie; per l’imperativo prescrittivo di alcuni capoversi del Castello di Udine (es.: «Il sangue bisogna darlo, i soldati devono darlo», RR I 130), i «debbe» con cui si aprono tanti periodi del Principe; e valga, infine, quale esempio definitivamente probante, il termine «cognizione», per il quale Manzotti suggerisce, oltre ad una discendenza leopardiana e, naturalmente, manzoniana, una casistica tratta dal Proemio al libro I dei Discorsi: «vera cognizione delle storie», «cognizione della antiche e moderne cose», «cognizione delle istorie», dove la parola in questione, si noterà, è sempre accompagnata dalla specificazione del sostantivo, come appunto ne La cognizione del dolore (Manzotti 1996: 203).

Ad un livello più profondo, invece, Gadda pare avere ben compreso e metabolizzato la visione sostanzialmente pessimistica, il lucido disincanto con cui Machiavelli guarda alle vicende umane. Se ne ha la riprova leggendo la recensione che egli dedicò ad una messa in scena della Mandragola nel 1954, recensione di densità critica eccezionale (e già questo basterebbe a testimoniare una frequentazione costante con le opere del Segretario) dove, oltre la robusta intelaiatura di pensiero, oltre le ragioni di un’analisi sempre puntuale, una suggestione non effimera porta a riconoscere idiosincrasie e istanze tutte personali.

Si trascelgano alcune battute significative: «Il Machiavelli ha saputo estrarre dal suo spirito amaro e beffardo, dalla sua spietata curiosità di osservatore fiorentino, dal suo civismo deluso e dalla sua statolatria di funzionario e di filosofo e di teorizzatore politico mal confortato dagli eventi, ha saputo estrarre una sorta di commedia irrisoria che non è frequente nel repertorio comico per la semplice ragione che non è neppur comica e non è nemmeno umoristica» (SGF I 1092); ancora: «Il Machiavelli ha visto, ha voluto vedere, anche sulle scene della Mandragola, gli impulsi realmente operanti nel costume e nella società del suo tempo; li ha visti nell’amarezza e forse nella disperazione dell’utopista politico, dell’uomo indubbiamente acceso da una vigorosa, da un’autentica “passione civile”» (SGF I 1093); infine: «Amaro o addirittura perfido il tono, la battuta è crudele, la lingua (fiorentina) è tagliente [...]. La spietata denuncia di una società, dall’intrico dei di cui vincoli strani emerge lottando il naturale sentimento, il senso incomprimibile della vita, della bellezza» (SGF I 1094).

Se ora si volesse aprire la famosa «giustificazione» gaddiana all’uscita in volume della Cognizione del dolore (L’Editore chiede venia del recupero chiamando in causa l’Autore), ovvero il viatico indispensabile, perché di mano dell’autore, ad una lettura corretta del romanzo e dell’intera produzione di Gadda, non si potrebbe fare a meno di notare una qualche consonanza di princìpi, rafforzata, di là dal tono generale, dalla ricorrenza di certo lessico: se la commedia risultava «irrisoria» (e altrove «irrisione della umana dappocaggine», SGF I 1093), per il romanzo si parla di una «programmata derisione» (RR I 759); se lo spirito di Machiavelli appare a Gadda «beffardo» (e altrove la commedia una «beffa», SGF I 1093), le vicende del mondo muovono questi «alla polemica, alla beffa, al grottesco» (RR I 760); e muovendolo pure a «un’apparente crudeltà» (RR I 760), non resta da ricordare che pure la battuta della Mandragola è «crudele», notando di passaggio una idiosincrasia per i «furbi o furbastri» (RR I 762) da appaiare all’antipatia per messer Nicia, «lo sciocco saputo che si crede furbo» (già prima «sciocco saputo e vanitoso», SGF I 1092).

Senza necessariamente vedere, come altri ha fatto col Pasticciaccio, un legame di discendenza tra i personaggi e le atmosfere della Mandragola e quelle della Cognizione del dolore, (2) ce n’è però d’avanzo per postulare di nuovo l’importanza che Machiavelli sembra aver avuto, per Gadda, nell’allestimento di un teatro mentale dove far muovere figure volta a volta mostruose o ridicole, e dove l’indignazione e la satira beffarda tengano i primi posti. Non appare casuale che, di Machiavelli, Gadda colga soprattutto l’amarezza: amarezza che è appunto conseguenza di un atteggiamento etico integro («la Poetica sarà poco più che un capitolo dell’Etica», dirà nella Meditazione breve circa il dire e il fare, SGF I 444), di una statura morale che produce «angoscia» di fronte alla «scioccaggine» del mondo (Come lavoro, SGF I 435). Già si è visto, nella recensione alla Mandragola, che lo spirito di Machiavelli è «amaro»; la sua è l’«amarezza dell’utopista politico»; «amaro» pure il tono della commedia. Ancora in un’altra recensione (questa volta alla Congiura di don Giulio d’Este di Bacchelli) il giudizio di Machiavelli sulle signorie italiane sembra a Gadda «troppo amaro e pessimistico» (SGF I 732) e, poco oltre, la sua «amarezza» gli appare addirittura «tragica» (SGF I 734); mentre in Eros e Priapo (uno dei testi che, per essere del periodo fiorentino e tutto giocato sul registro dell’indignazione, risente più della lezione machiavelliana) è dato trovare un’occorrenza di tal genere: «La moltitudine, che al dire di messer Nicolò amaro, è femmina [...]» (SGF II 224). In quest’amarezza Gadda pare riconoscersi: viene da sottoscrivere il giudizio di Gian Carlo Roscioni, non ristretto invero al solo Machiavelli, secondo cui «l’influsso sull’opera di Gadda degli scrittori politici del Cinquecento [...] si rifrange, parossisticamente, in tutte le pagine che trattano dei rapporti dell’individuo con la società» (Roscioni 1995: 143).

Dentro coordinate così ricche sembra porsi pure l’innata propensione all’invettiva, ad un «dir male» che diventa, sia nell’autore del Pasticciaccio che in quello del Principe, vero programma letterario attraverso il quale dare sfogo all’indignazione e al risentimento, (3) secondo quanto Gadda argomenta nell’Intervista al microfono:

Nella mia vita di «umiliato e offeso» la narrazione mi è apparsa, talvolta, lo strumento che mi avrebbe consentito di stabilire la «mia» verità; il «mio» modo di vedere, cioè: lo strumento della rivendicazione contro gli oltraggi del destino e de’ suoi umani proietti: lo strumento, in assoluto, del riscatto e della vendetta. Sicché il mio narrare palesa, molte volte, il tono risentito di chi dice rattenendo l’ira, lo sdegno. (SGF I 503)

La rancura verso gli «oltraggi del destino» richiama quella machiavelliana contro il «tempo dispettoso e tristo» che gli fa spargere «veleno», che lo sforza ad un «dir male» per lungo tempo intermesso: (4) e nel «raglio» (Machiavelli 1965: 269) dell’autore trasformato in asino si avverte la valutazione delle componenti ferine dell’uomo, di quella possibilità di «imbestiamento» che lo stesso Gadda avverte come sempre in agguato («strane bestie» che «dormono nello strame della pigrizia e della sensualità» sono gli uomini nella pagina finale della Meditazione Milanese, SVP 849) e che, condotta alle sue conseguenze ultime, produce la metamorfosi che dà luogo alla favola; in essa, notoriamente, si dice dei propri simili «quello che non si può dire o sarebbe troppo pericoloso dire», colorendolo di «un sorriso sapienziale bilicato fra amarezza e bonarietà»: (5) inevitabile forse, per Gadda, giungere prima o poi al Primo libro delle Favole, all’apologo brevissimo nel quale agiscono, spesso sotto sembianze animali, pulsioni e istinti che già nel loro primo manifestarsi dichiarano la ferinità della natura umana. Inevitabile tanto più se si vuole riandare, cogliendo il suggerimento gaddiano con cui abbiamo aperto, a quella singolare dichiarazione di poetica che è Tendo al mio fine, dove, dopo essersi definito «umiliato dal destino, sacrificato alla inutilità, nella bestialità corrotto» (RR I 119, corsivo nostro), Gadda annuncia un programma letterario tutto sbilanciato sul versante, appunto, della bestialità:

Sarò il poeta del bene e della virtù, e il famiglio dell’ideale: ma farò sentirvi grugnire il porco nel braco: messi il grifo e le zampe dentro e sotto dal cùmulo della gianda, dirà la sua cupida e sensual fame con le vèntole balbe degli orecchi e immane gaudio di tutto il cilindro del corpo. E fremirà nel suo codino cavaturaccioli.
Grugnirà, dirà; finché la pazza frusta lo farà maiulare come il gatto pestato in sulla coda, e saltare come il cavallo legato, quando arde la stalla. (RR I 119-20)

La scoperta della bestia che dorme nell’uomo produce quell’angosciata consapevolezza di cui tante volte Gadda dice di sentirsi portatore: l’equivalente della selva oscura in cui Machiavelli-asino si trova immerso all’inizio della sua avventura animale, non solo parodia della selva dantesca, ma viatico, terribile se si vuole, verso le radici ultime dell’uomo, verso una carnalità e un’istintualità che rimandano direttamente alla «golpe» e al «lione» del capitolo XVIII del Principe.

In questo «modo di vedere» le cose del mondo (per riutilizzare alle parole dell’Intervista al microfono), che è poi un vedere oltre le apparenze, oltre le maschere dei ruoli sociali quotidianamente indossate, si sublima l’affinità tra Gadda e Machiavelli: affinità amara e dolorosa, che piega all’indignazione e al dissolvimento anche «i pensieri più belli» (Tendo al mio fine, RR I 122).

Università di Bologna

Note

1. Vela 1994: 193. All’articolo di Vela questa voce è in larga parte debitrice.

2. Ci riferiamo a Claudio Meldolesi al quale La mandragola appare «uno dei punti originari dell’avventura creativa del Pasticciaccio» – cfr. Meldolesi 1987: 166.

3. G.M. Anselmi-P. Fazion, Machiavelli, l’asino, le bestie (Bologna: Clueb, 1984), 31.

4. N. Machiavelli, L’asino, in Il teatro e tutti gli scritti letterari, a cura di F. Gaeta (Milano: Feltrinelli, 1965), 272.

5. V. Branca, Introduzione a Esopo toscano dei frati e mercanti trecenteschi (Venezia: Marsilio, 1989), 9.

Published by The Edinburgh Journal of Gadda Studies (EJGS)

ISSN 1476-9859
ISBN 1-904371-00-0

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