Articolo Tre di Ernesto Maria Ruffini

Le coperture di Brunetta

Renato Brunetta sostiene di aver già trovato le coperture per far fronte agli esborsi per Imu e IVA. Secondo quanto riporta il Corriere, il mancato premio Nobel ne avrebbe trovate “sette  più una”. Sorvolerò sull’affidabilità contabile di un tizio che invece di “otto” dice “sette più una”. E sorvolerò anche sulla prima proposta, ribattezzare una parte della spesa in conto capitale (in altre parole, investimenti) in spesa corrente: lo dice già Brunetta che si tratta di “un’operazione contabile, trasparente e lecita”, dice lui. Sarà. Ma a parte che “non omne quod licet honestum est”, è pur sempre un trucco contabile, uno di quelli con cui ci ha deliziato negli anni passati Giulio Tremonti; e per i quali stiamo ora pagando un conto salatissimo.

Mi soffermo di più sulla seconda proposta, perché la trovo di una pericolosità e superficialità estreme; una vera espropriazione di un bene comune, portata avanti con la solita spudorata aria allegra dell’italiota che ha avuto una “ideona”. Si tratta della rivalutazione delle quote di partecipazione nel capitale Banca d’Italia.

Le questione è complicata e richiede un momento di attenzione.

Cominciamo con il dire che i partecipanti (così si chiamano i “soci” di Bankitalia, composti da banche, assicurazioni, INPS e INAIL) attualmente iscrivono le quote nei loro bilanci per lo più in proporzione al capitale sociale: 156.000 euro in totale, equivalenti ai 300 milioni di lire sottoscritti nel 1936. Invero, qualcuno ha anticipato la furbata di Brunetta: è Carige, che ora naviga in queste acque.

Nel frattempo il patrimonio (capitale sociale + riserve) della Banca è però cresciuto, arrivando al cospicuo valore di 22,6 miliardi (tav. 19.29, pag. 286 ). A Brunetta non deve essere parso vero di potersi confrontare con un importo di simile altezza. Dopo averlo arrotondato a 25 (un 10% in più; ma sì, esageriamo), propone che i partecipanti valutino le loro quote in proporzione a questi 22,6 miliardi; iscrivendo questo nuovo valore nei loro bilanci, registreranno una corrispondente plusvalenza, che sarebbe tassabile e il gettito per lo Stato sarebbe di 5 miliardi. Calcolato, per inciso, non si sa in base a quale aliquota; il che è un’altra prova di affidabilità contabile del nostro.

Su questa operazione ho alcuni dubbi.

In primo luogo, non conviene. Mi spiego. La legge 262 del 2005, all’art.19, prevedeva entro il 2008 il trasferimento delle quote della Banca d’Italia in possesso di soggetti diversi dallo Stato o da enti pubblici; in poche parole, la nostra banca centrale doveva tornare di proprietà pubblica, come lo è stata dal 1936 fino alle privatizzazioni bancarie e assicurative. Il processo si è arenato proprio sulla valutazione del capitale. Se si facesse come propone Brunetta, si riconoscerebbe che il valore di Bankitalia è di 22,6 miliardi; e tanto lo Stato dovrebbe pagare alle banche proprietarie per riavere le quote. Insomma, l’ideona dell’italiota Brunetta fa guadagnare oggi allo Stato 5 miliardi, ma al prezzo di fargliene sborsare 22,6 al momento di riacquistare le quote, come prevede la legge. Quindi avvantaggia lo Stato solo temporaneamente e le banche stabilmente, regalando loro, di fatto, un patrimonio, quello della Banca d’Italia, che loro non è, ma che appartiene a noi tutti, i cittadini.

In secondo luogo, è discutibile che si possa valutare la Banca d’Italia in base al suo patrimonio. Può sembrare strano, ma riflettiamo un momento. La valutazione di un’azienda in base al patrimonio è una valutazione in base al valore di mercato, poiché il patrimonio non è che la differenza fra quanto valgono le attività, gli investimenti, e quanto valgono le passività, i debiti. Quindi è giusto farla quando chi possiede le quote è in grado di venderla sul mercato, vale a dire quando è il proprietario di diritto e di fatto dell’azienda. Le quote della Banca d’Italia però danno solo la proprietà di diritto, ma non quella di fatto della Banca: con buona pace dei complottisti del signoraggio che parlano di “Banca d’Italia spa” (incluso il rag. Beppe Grillo), i poteri dei partecipanti sono di fatto limitati all’approvazione – scontata – del bilancio; sono pressoché inesistenti nella scelta del Governatore, contenuti in quella degli altri membri del Direttorio (vedasi l’art. 17 dello statuto) e nulli in tema di vigilanza (art. 18); le quote poi non sono liberamente cedibili sul mercato (art. 3).

Conclusione: non è proprio corretto valutarle in base al patrimonio. Il principale beneficio dell’essere partecipanti della Banca d’Italia è nel dividendo; pertanto, sarebbe più corretto valutare la Banca capitalizzando tale dividendo (70 milioni nel 2013; vedi qui, pag. 300) in base a un tasso free risk (perché zero è il rischio dell’essere soci di Bankitalia); tasso che per l’Italia, secondo questo studio (tav. 3, pag. 4) sarebbe stato nel 2013 il 4,4%. Con questo calcolo il valore delle quote di Bankitalia sarebbe circa 1,6 miliardi.

Neanche questo valore, a mio parere dovrebbe andare a vantaggio della banche, poiché ci sono enti, se non pubblici, semi-pubblici che potrebbero sostituire le banche come partecipanti, con vantaggio della società civile e maggiore trasparenza della proprietà di tutte le banche, non solo di quella centrale. Ma questo ci porterebbe fuori del seminato.

Il seminato è quello accennato all’inizio. E cioè che il lupo perde il pelo ma non il vizio; che per gli pseudo economisti di Forza Italia-PDL-RiForza Italia, siano essi Tremonti o Brunetta, consiste nel dare libero sfogo alla fantasia, inventare trucchi contabili, depauperare la ricchezza passata e futura di questo paese per un miserabile guadagno elettorale presente, ingannando quasi tutti gli italiani e arricchendone pochi. Tanto il conto arriverà dopo (questo è un altro esempio), quando al potere ci saranno altri da incolpare o loro stessi ad inventare altri trucchi, per non chiamarle vere e proprie frodi.

D’altronde, cosa vi ci si può aspettare da gente che ha per leader un frodatore? Frodi. Anche se loro le chiamano coperture.

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