«Potete immaginare con quale tumulto di sentimenti m'imbarcai per il Messico» racconta Prati.
«Io e Boninsegna - che poi avremmo addirittura diviso la stessa camera per tutto il Mondiale -
viaggiammo ovviamente assieme, ma col tacito impegno di evitare l'argomento "chi di noi due
verrà prescelto per affiancare Riva". Debbo però immaginare che, come capitò a me, anche lui
avesse un solo pensiero e un solo obiettivo: quello dì... fregare il compagno di volo».

Continua Pierino: «Io sembravo favorito per due motivi: perché proprio l'anno prima Boninsegna
aveva dovuto lasciare il Cagliari non essendoci uno straordinario feeling tattico fra lui e Riva
(diciamo pure che si pestavano un pò i piedi: non per nulla dopo la sua partenza - con Riva
ormai padrone assoluto dell'attacco - il Cagliari vinse lo scudetto). E poi perché, un po' a
sorpresa, nell'ultimissima
amichevole di rifinitura, venni inserito nella formazione titolare del primo tempo. Ma forse fu
proprio lì, per voglia di strafare, che mi giocai il Mondiale. Corsi come un pazzo, mi imballai.
Quando arrivò la prima partita vera, quella con la Svezia, in campo andò Bobo. E ci restò sino
alla finale».

Niente da fare dunque per giocare "al fianco" di Riva: ma "al posto" di Riva c'era qualche possibilità
oggettiva di poter scendere in campo?
«No, nessuna. A meno che non si fosse infortunato seriamente. Gigi era atteso a quei Mondiali
come il "Pelé Bianco", come il contraltare del "vero " Pelé: sapeva di essere sotto gli occhi del
mondo intero. La pressione era enorme: lui la vinse con l'orgoglio e tirando fuori quei guizzi di
potenza e di classe che tutti ricordiamo. Era molto concentrato, molto silenzioso: certi "giochi",
certi gruppi e gruppetti che si erano formati e che alimentavano insinuazioni e speculazioni non
lo sfioravano, né gli interessavano».

Indubbiamente, quello messicano fu un Mondiale molto movimentato: le "staffette", le esternazioni di
Rivera, i clan in seno alla squadra, le divisioni "ideologiche" della stampa italiana che frastornavano
Valcareggi... Insomma, Prati come visse tutti questi problemi dal suo ruolo di "osservatore" allo
stesso tempo coinvolto ed escluso?
«Io non potevo che allenarmi con rabbia e volontà, aspettando un mio turno che purtroppo non
arrivò mai. Dopo ogni gol segnato nelle partitelle, dopo qualche azione ben riuscita gridavo a
Valcareggi "ha visto mister che roba?". Oppure "e adesso che cosa aspetta a mettermi dentro? ".
Ma non giocai neanche un minuto, anche se negli ultimi incontri venni perlomeno "promosso "
dalla tribuna alla panchina (e fu da lì che vidi la finale col Brasile): evidentemente Valcareggi
pensava che qualcuno crollasse. E in effetti, detto adesso, con tutta la serenità che viene dal
tempo che è passato, se in quel Mondiale fu commesso un errore, fu proprio l'aver distribuito
male le forze a disposizione. Non dimentichiamo che si giocava a oltre 2000 metri: ma per sei
partite (più due micidiali tempi supplementari) vennero impiegati stabilmente solo dodici
giocatori su ventidue; cinque (Furino, Gori, Niccolai, Poletti e Juliano) giocarono poche e in
certi casi insignificanti manciate di minuti; gli altri cinque, fra i quali il sottoscritto, non
giocarono mai».

Se ne andò sognando un altro Mondiale?
«Disputai ancora le qualificazioni per l'Europeo successivo, quello del '72, al quale purtroppo
non arrivammo. Mi trasferii dal Milan alla Roma: ma al Mondiale del '74 indovinate chi andò?
Gigi Riva naturalmente. Si vede che era proprio scritto così!».
In quell'Estate 1970 Pierino Prati era al top della carriera. Al Milan faceva sfracelli, in Nazionale ebbe
la sfortuna di essere contemporaneo di un certo Riva che in Messico non li lasciò spazio

«Se fossi nato in Svizzera, invece che a trenta chilometri da casa mia, o se fossi diventato un'ala
destra invece che un'ala sinistra, io avrei disputato due Mondiali e almeno quaranta-cinquanta
partite in Nazionale (quante sono state le mie convocazioni effettive): invece, in maglia azzurra,
ho giocato solo 14 volte nell'arco di otto anni. E di Mondiali ne ho fatti uno solo: anzi, l'ho
visto un po' dalla panchina e un po' dalla tribuna. Ma non ce l'ho con Gigi: è stato e resterà il
più grande attaccante italiano di tutti i tempi. La mia sola colpa è stata quella di essere esploso,
come calciatore, nel momento sbagliato. Il suo».

Eppure Pierino Prati non aveva ancora ventidue anni quando disputò, da titolare, la finale del
Campionato Europeo per Nazioni del 1968: aveva appena vinto il suo primo scudetto col Milan e
dominato la classifica cannonieri. Quella partita con la Jugoslavia finì 1-1 e, secondo le regole di
allora, venne rigiocata. Al suo posto però entrò Gigi Riva: e Prati, quella maglia da titolare,
praticamente non la vide mai più.
Al punto che alla vigilia dei Mondiali del '70, il Commissario tecnico Valcareggi si "dimenticò"
addirittura di lui nello stilare la lista dei ventidue convocati per il Messico.
Pierino Prati, per quanto reduce da un campionato non esaltante, ne rimase sostanzial-mente più
deluso che sorpreso. Ma ancor più sorpreso rimase, di lì a poco, una notte di quel maggio ormai
lontano, quando lo svegliarono all'improvviso dicendogli di sbrigarsi, di fare la valigia, di correre al
consolato la mattina dopo e di prendere il primo aereo per Città del Messico. Sul quale trovò -
sbigottito - l'altro grande escluso di quella convocazione: Roberto Boninsegna. Era successo che
durante la preparazione a Toluca, Pietro Anastasi, centravanti azzurro designato, aveva pagato
oltremisura uno sciocco scherzo da spogliatoio rivolto a una parte indubbiamente delicata del corpo
(maschile). Dovette essere operato d'urgenza per riparare la torsione di un "funicolo spermatico", un
particolare anatomico che balzò all'inattesa gloria delle prime pagine sportive.

Si pose il problema della sua sostituzione e Valcareggi, con un guizzo inatteso, cooptò i due
bomber del Milan e dell'Inter che aveva scartato nella prima "stesura". Per far quadrare il conto dei
ventidue, dovette però rinunciare a un altro elemento già presente in Messico. Toccò al generoso
gregario Giovanni Lodetti, che venne rispedito in Italia e che non perdonò mai quel gesto né a
Valcareggi, né a Rivera (suo capitano), né all'Umanità. Una cosa, comunque, sembrò certa ai tecnici e
ai critici: seppur in maniera un po' contorta si era arrivati alle scelte giuste. Perché il parco-attaccanti
originale era veramente modesto dal punto di vista numerico e, soprattutto, assolutamente male
assortito: Gori non era un centravanti vero e proprio, lo stesso Anastasi aveva caratteristiche
particolari. In altre parole, se si fosse infortunato Riva nessuno avrebbe potuto sostituirlo.
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