18/6/2010 (18:40)
Addio al Lawrence d'Arabia italiano
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Morto a 101 anni Amedeo Guillet:
dopo la sconfitta dell'esercito in
Africa decise di continuare da solo.
In Gran Bretagna è una celebrità,
in Italia rimane quasi sconosciuto
GIORGIO BALLARIO
Se n’è andato l’altra sera a Roma, all’età di 101 anni. In silenzio, così come aveva sempre vissuto. «Se, invece dell'Italia, avesse avuto alle spalle l'impero inglese, sarebbe diventato un secondo Lawrence d’Arabia», scrisse di lui Indro Montanelli. E se fosse stato americano, verrebbe da aggiungere, sarebbe già diventato un eroe hollywoodiano tipo Rambo.

Invece Amedeo Guillet, ufficiale di cavalleria nato a Piacenza nel 1909 da una famiglia piemontese-campana, s’è dovuto accontentare di una medaglia, peraltro tardiva, la Gran Croce dell’ordine militare concessagli nel 2000 dal presidente Ciampi. Oltre che di un paio di ottime biografie e di un documentario televisivo a “La storia siamo noi”. Simile a un personaggio uscito dalla penna di Salgari, Amedeo Guillet ha attraversato indenne tre guerre: l’Abissinia, la guerra civile di Spagna e il Secondo conflitto mondiale. Si è guadagnato una quindicina di onorificenze ed è stato uno degli ultimi soldati italiani a deporre le armi in Africa Orientale, quando ormai il sogno dell’impero mussoliniano era crollato sotto i carri armati inglesi a Cheren e Agordat.

A capo del Gruppo Bande Amhara, un’unità composta interamente da soldati indigeni, dopo la caduta di Asmara e Addis Abeba il tenente Guillet decise di continuare la guerra da solo, abbandonando la divisa dell’esercito italiano e vestendo i panni di Cummandar es Sciaitan, il Comandante Diavolo. Già in precedenza lo stile di comando del giovane tenente aveva provocato più d’un mugugno fra i compagni d’arme: trattava gli ascari con dignità e rispetto, dava loro massima responsabilità e la possibilità di mantenere e curare i rispettivi usi e costumi e non è un caso che nella sua unità non si verificò mai un caso di diserzione, né di contrasto tra i soldati, nonostante la loro appartenenza a differenti etnie e fedi religiose. Permise ai suoi uomini di portare sempre al seguito i nuclei familiari (come da tradizione locale) ed egli stesso ebbe una concubina eritrea, Khadija, figlia di un importante capo tribù, che lo seguì durante tutto il suo periodo di servizio, in aperto contrasto con le disposizioni del Governatore italiano che impedivano – almeno sulla carta - i “rapporti duraturi” tra italiani e donne del luogo.

Finita la guerra con il crollo dell’impero italiano d’Africa, cominciò la guerriglia del Comandante Diavolo: in breve tempo divenne un vero spauracchio per gli inglesi, che scatenarono un'imponente “caccia all'uomo” per catturarlo. Per quasi otto mesi, su un cavallo bianco, il Comandante Diavolo - come un Che Guevara ante litteram - assaltò e depredò depositi, convogli ferroviari ed avamposti, fece saltare ponti e gallerie rendendo insicura ogni via di comunicazione. Ma alla fine del 1941 la banda era ormai allo stremo e lui stesso si ammalò di malaria: non potendo continuare ad oltranza la sua guerra privata contro l’impero britannico, Guillet sciolse l’unità indigena.

Travestito da arabo per alcune settimane visse di nascosto a Massaua, poi si imbarcò per lo Yemen, seguito dal suo fido luogotenente eritreo. Mentre stava per cadere in mani inglesi, Guillet trova ospitalità presso la residenza di un imam e grazie alla sua dimestichezza con i cavalli venne nominato “maniscalco di corte”. Nel ’43 beffò di nuovo gli inglesi e fingendosi un civile pazzo tornò in patria su una nave della Croce Rossa. Fedele alla monarchia, seguì il Re a Brindisi e vestì l’uniforme del ricostituito esercito italiano, a fianco di quegli inglesi che aveva combattuto per anni. Prima della fine della guerra civile, Guillet riescì nella sua ultima impresa: sottrasse la corona del Negus ai partigiani comunisti della brigata Garibaldi, che l’avevano sequestrata a un reparto della Rsi. Poi dopo il referendum del 1946, fedele al giuramento prestato ai Savoia, rassegnò le dimissioni dall’esercito.

Qui inizia la seconda vita di Amedeo Guillet. Sposa la cugina Bice, il suo amore giovanile, si laurea in Scienze politiche, vince un concorso e intraprende la carriera diplomatica, che lo porterà in Egitto, Marocco, Giordania, India. Nel ’54, come incaricato d’affari in Yemen, viene ricevuto calorosamente dal figlio dell’imam che gli salvò la vita anni prima. Nel 1975 conclude la sua attività diplomatica e si ritira a vivere in Irlanda, dove lo scova lo scrittore Sebastian O'Kelly, che gli dedica il libro “Vita, avventure e amori di Amedeo Guillet. Un eroe italiano in Africa orientale”. Nel 2000, a 91 anni, accompagnato a O’Kelly torna in Eritrea, dove è accolto con tutti gli onori dal presidente della giovane repubblica. In Gran Bretagna è una celebrità, in Italia è quasi sconosciuto. Solo l’anno scorso, in occasione del centesimo compleanno, i principali tg nazionali gli hanno dedicato un servizio. Per il film bisognerà ancora aspettare.

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