Nella lezione precedente si sono
già intraviste le ragioni specifiche della fiorente situazione veneziana nella storia del
teatro rinascimentale, dopo un iniziale "ritardo" rispetto ad altri centri come
Ferrara: presenza di un patriziato pieno di energia e, nel Cinquecento, ancora molto
ricco, per cui i focolai di iniziative spettacolari si moltiplicavano, come se nella
Serenissima ci fossero decine di piccole corti
smaniose di primeggiare; contatti materiali più facili che altrove, e favoriti già dalla
topografia cittadina, fra cultura alta e consumatori popolari (per cui proprio a Venezia,
in questi primi decenni del secolo, abbiamo i primi episodi di teatro a pagamento);
ambiguo atteggiamento della classe dirigente davanti a un fenomeno come questo teatrale,
che era appannaggio e passatempo favorito della jeunesse dorée, ma presentava un
potenziale di evento di massa - di qui le varie proibizioni delle commedie, nel 1508,
1521, 1530, subito o presto disattese per pressioni interne al potere; possibilità,
infine, per gli aspiranti drammaturghi e teatranti, di attingere la loro ispirazione da
una realtà colorita, socialmente e linguisticamente mista fino alla confusione delle
razze, delle classi, degli idiomi, come quella del grande porto adriatico affacciato
sull'Oriente.
Ciò spiega anche la varietà delle forme teatrali nei primi decenni
del Cinquecento, oltre alle già ricordate momarie.
Studenti e giovani nobili, spesso compagni della calza , recitavano seguendo la strada aperta da Cherea, commedie di
Plauto e di Terenzio, o anche testi "importati"
da altre regioni d'Italia, Siena o Firenze. E accanto alle commedie più o meno regolari
venivano recitate egloghe dialogate, contrasti plurilingui, e si improvvisavano - specie
da parte di professionisti come Domenico Taiacalze, Zuan Polo o suo figlio Çimador -
farse "alla buffonesca".
Rispettivamente all'inizio e alla fine di questo periodo di massimo
splendore del teatro veneto, e dunque parallelamente alla grande produzione pavana di Ruzante che incontreremo nella prossima lezione, nascono due testi dialettali veneziani molto diversi e
lontani per qualità, ma entrambi illustrativi della cultura teatrale cittadina, ed
entrambi anonimi: La bulesca, "comedia de alcuni bravi, vulgar,
bellissima", come chiosa Sanudo, recitata dai Zardinieri nel 1514, senza divisione in
atti; e la straordinaria Veniexiana, di cui non si conoscono effettive
rappresentazioni, ma sicuramente destinata alla scena, composta secondo il suo più
autorevole editore ed esegeta Giorgio Padoan (1982: 140-53) nella seconda metà degli anni trenta.
Nella Bulesca, che non presenta particolari pregi in termini di
caratterizzazione drammatica dei personaggi, risalta invece con bella evidenza un aspetto
della vita veneziana di allora, la presenza di una numerosa e rissosa malavita. Il bravo
Bule, innamorato respinto della prostituta Marcolina, si azzuffa spalleggiato
dall'amico Bio con uno dei clienti della donna, Fracao, finché la calma è ristabilita
dall'intervento di un autorevole personaggio. L'esile, comune fatto di cronaca è tuttavia
ravvivato da una ricca, precisa serie di riferimenti realistici: a luoghi veneziani,
quartieri, osterie, cibi, da un senso concreto della lingua parlata e dello spazio urbano
che resterà caratteristico del teatro veneto.
Neppure la trama della Veniexiana (in cinque atti, scoperta e
pubblicata solo nel 1928 da E. Lovarini da un unico codice marciano) appare, di per sé,
molto originale o ingegnosa. Un uomo d'arme "foresto", Iulio, è notato per la
sua avvenenza da una giovane nobildonna veneziana sposata, Valiera, che attraverso la
domestica Oria gli dà un appuntamento per la sera stessa: ma anche un'altra signora, la
vedova Anzola, desidera un convegno col giovanotto, e coi buoni uffici della sua serva
Nena e di un facchino bergamasco, Bernardo, riesce a farselo venire in casa e a goderne i
favori, mentre Valiera lo aspetta invano. La sera dopo, quando Iulio si presenta
finalmente alla donna che più lo attrae, Valiera, questa gli vede al collo una catena
regalatagli da Anzola, la riconosce, e in un impeto di gelosia lo caccia. Finalmente, dopo
un'altra giornata di smanioso desiderio, Valiera rimanda Oria in traccia di Iulio, e verso
sera, dopo una tempestosa spiegazione i due amanti finalmente si congiungono.
A parte il tratto assai comune della continuità dell'azione, che fra
ambasciate di serve, lunghe attese delle padrone e convegni notturni si snoda con una sola
lunga interruzione per quattro giorni e tre notti, la Veniexiana appare fortemente
anomala nel quadro della commedia rinascimentale, caratterizzata piuttosto, come abbiamo
visto, da trame ingarbugliate, equivoci, burle,
sorprendenti e felici agnizioni. Il suo impianto novellistico ricorda piuttosto trame di Masuccio Salernitano e del Bandello, e come ha osservato ancora
Padoan (1982: 150-52) ci
riporta al circolo di giovani veneziani colti, spregiudicati e gaudenti che si riuniva
attorno a Giovan Francesco Valier, celebrato dall'Ariosto come narratore di novelle salaci e misogene, (Orlando
furioso, XXVII, 137-39), e - prima di finire impiccato per divulgazione di segreti di
stato nel 1542 - amico del Castiglione,
del Bembo, del Bibbiena e dello Speroni.
Ben al di là di questo suo possibile interesse come documento
"privato" dei liberi costumi delle patrizie venete (pure le due protagoniste
appartennero forse a casa Valier, e l'ipotesi realistica sembra confermata dall'explicit
del manoscritto, «Non fabula non
comedia ma vera historia», e dall'avvertimento contenuto in due distici latini sempre
nell'ultima carta: «tu lege, disce, sile» - leggi, impara, taci) la commedia si è
imposta all'ammirazione dei lettori moderni per le sue qualità intrinseche: la franchezza
e la sensualità di Anzola, che durante la tormentosa attesa di Iulio cerca di trovar
sollievo abbracciando la serva Nena come se fosse un amante («Cara, dolçe, sta' cussì
un puoco; e po' comenza a biastemar, azò che ti creda omo [
] menzona le parolle
sporche, co' fa i omeni»: I); la lotta, nella giovane Valiera, fra orgoglio e gelosia da
un lato («Missier, andé. E vardè da qua indrio no tratar cusì zentildonne. E disé a
Anzola che Valiera ghe renderà el cambio, col tempo»: IV), desiderio dall'altro che la
induce a capitolare e a ordinare a Oria: «Sastu zò che ti ha a dir a Miser Iulio? Che 'l
vegna e che non guarda a parolle, che Madona xè pì desiderosa de esso che de
manzar
» (IV).
Infine, alla presenza di uno spazio cittadino sobriamente evocato come
in altri testi veneziani (l'osteria del Pavone, il magazzino di Gallipoli, Rialto, San
Marco) si aggiunge la suggestione del tempo
che scorre troppo lento la sera, troppo veloce la mattina, scandito dalle ore notturne
suonate dalle campane di una chiesa vicina ([Valiera]: «El xè sonao tre ore e costù no
vien
»: III; [Bernardo]: «A' 'l sona! sona oto ori»: III; «Ah diavol! n'het
sentut? Des ori. A' 'l scomenza a fà dì»: III).
Talché nella Veniexiana, per concludere con le parole di un
poeta moderno, sentiamo «alcunché di amaro, che insapora di dramma tutta la commedia
[
] la malinconia della sensualità» (Valeri,
1958: 16).
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