La materia dell'Oratione (seguita nel 1529 da una Seconda
Oratione, al nuovo cardinale Francesco Cornaro) è variamente ripresa nel tre Dialoghi,
cioè negli atti unici Dialogo facetissimo (1529), Bilora e Parlamento di Ruzante che l'era vegnù
de campo (1530): gli ultimi due da considerarsi fra i capolavori del Beolco e del teatro italiano del Cinquecento.
Nel Bilora (nome d'arte di uno dei compagni
di Beolco, Castegnola) un contadino
abbandonato dalla moglie, Dina, viene a Venezia e dopo aver cercato invano di convincerla
a tornare con lui, uccide il ricco mercante
veneziano Andronico con cui la donna convive. Nel contrasto fra il dialetto dei contadini
e il veneziano del vecchio e facoltoso cittadino, torna il plurilinguismo della Pastoral,
ma ora non si tratta più di satira
antiletteraria, bensì di un'opposizione insanabile fra due condizioni: da una parte la
fame e l'ignoranza della campagna, dall'altra il denaro e il prestigio sociale della città, che rimane un mondo incomprensibile e
insidioso per i contadini .
Nel Parlamento Ruzante, arruolatosi
durante la guerra di Cognac per fuggire la miseria,
diserta e arriva a Venezia, più straccione di prima, per cercare Gnua, che ora vive in
città con un bravo. Di nuovo, il tentativo di riprendersi la donna fallisce («Se me
bastasse un pasto a l'anno, te porissi dire. Mo el besogna che a' magne ogni dì
»:
scena 3) ma questa volta è il contadino che, dopo essersi vantato con un compare
incontrato per caso, Menato, di essere diventato coraggiosissimo, braoso, si piglia
in santa pace una terribile bastonatura da parte del ganzo della ragazza. Come mai, si
meraviglia Menato, un uomo spavaldo e violento come Ruzzante s'è lasciato picchiare in
quella maniera senza neppure reagire? E' stata Gnua che l'ha stregato (risponde il
poveraccio ancora disteso per terra), facendogli credere per incantesimo che l'assalitore
non era solo, ma che ce n'erano più di cento, talché il partito migliore gli era
sembrato quello di lasciarli sfogare sulla sua schiena. Menato è così sbalordito, che
tocca a Ruzzante consolarlo: se solo avesse saputo di aver davanti un solo avversario,
l'avrebbe legato insieme alla sua complice: «Poh, compare! Che me fa a mi? O cancaro, la
sarae stà da riso, s'a' i ligava! E sì aessè po dito ch'a' no ve faze pì de le
comierie» [traduzione].
Alla violenza della storia, che ormai gli preclude ogni possibilità di
esistenza normale, Ruzzante oppone, con una specie di autoinganno istintivo e calcolato
insieme, la sua propria "contro-storia", che tende, almeno nell'immaginazione, a
rovesciare il «roesso mondo»: neppure più una commedia dunque, ma un sogno di
commedia, attraverso il quale il protagonista può accedere dal suo ruolo effettivo di
vittima miserabile, a quello, duplice, di derisorio eroe e spettatore.
Poco dopo i Dialoghi - e forse perché intanto aveva potuto
accrescere il numero dei suoi collaboratori-attori - Beolco scrisse due commedie regolari
in cinque atti, La Fiorina e La Moscheta . La prima ("commedia di
Fiore", ragazza desiderata da due contadini, Marchioro e Ruzante, e alla fine sposa
di questo) riprende con molta eleganza la tipica situazione dei mariazi;
la seconda resta anche per l'alta qualità drammatica più vicina al Bilora e
specialmente al Parlamento. Nella Moscheta le distruzioni della guerra
hanno obbligato Ruzante e sua moglie Betìa a rifugiarsi a Padova, dove per un po', e per
sua disgrazia, il contadino crede di essere diventato furbo. Istigato dal solito compare
Menato, che vorrebbe portargli via Betìa, già sua amante prima che si sposasse, Ruzzante
decide di mettere alla prova la fedeltà della moglie, e le si presenta travestito e
parlando moscheto, cioè italiano. La donna, che dapprima non lo riconosce ed è
pronta a guadagnare coi suoi favori la borsa offertale dallo straniero, poi è furibonda
quando scopre l'inganno, e si darà non solo a Menato, ma anche a un soldato bergamasco
loro vicino, che Ruzzante aveva cercato di imbrogliare. Così il ricorso alle astuzie dei
cittadini non giova a Ruzzante più di quanto gli fosse servito, nel Parlamento, il
farsi soldato. Anzi, se ormai la snaturalité
del Pavano non è più un rifugio sicuro contro i vari cancheri del rovescio mondo,
come le invasioni e le guerre, tradire la propria natura non fa che peggiorare ancora la
situazione, esponendo il villano a un subisso di bastonate e di corna.
Il tema della burla,
così comune nella novellistica e nel
teatro del Cinquecento, e certe scene specifiche - come quella piena di doppi sensi osceni
in cui il bergamasco Tonino, chiuso in casa con Betìa, descrive a Ruzzante rimasto fuori
il suo incontro amoroso con la donna come se stesse invece parlando della mula (III, 3-4)
- apparentano La Moscheta ad altri testi comici certamente noti a Beolco, come La Calandria o La Lena. Tale
ritorno al canone si accentua nelle commedie successive, recitate con successo sia a
Venezia che a Ferrara (in una famosa lettera a Ercole d'Este duca di Chartres, del 1532,
Ruzzante annuncia il suo arrivo in quest'ultima città insieme a numerosi compagni e
compagne, e propone che l'allestimento del loro prossimo spettacolo sia affidato all'Ariosto).
Un libero, brillante rifacimento della Rudens di Plauto - ma con reminiscenze terenziane e ariostesche - è La Piovana, così
come un'altra commedia di Plauto, l'Asinaria, è il modello della Vaccària (1532-33). In entrambe Beolco, lasciati i rustici cenci del
contadino Ruzzante, recita una parte di astuto servitore, rispettivamente Garbinelo e
Truffo. Un altro passo verso la norma è compiuto nell'Anconitana (1534-35?), commedia cittadina, ambientata a Padova, che
mette in opera risorse ben collaudate del "genere": intreccio erotico multiplo
affidato a varie coppie di giovani, rapimenti perpetrati dai corsari, fanciulla travestita
da uomo, vecchio lascivo innamorato di una cortigiana, e così via. Qui troviamo di nuovo
Ruzzante, ma, come nelle commedie precedenti, nei panni di uno zanni avant la lettre, il
malizioso domestico del senile e sciocco Sier Tomao. La pratica saggezza di questo nuovo
personaggio subalterno, finalmente integrato nel mondo "civile", e insieme parente dei
servitori del Bibbiena e dell'Aretino, è compendiata da Truffo in
una riflessone che sembra anticipare la dialettica hegeliana di servo e padrone, e la
complementarità del Signor Puntila e del suo servo Matti in un noto Volkstück di
Brecht: «Faze pur, sti richi, co' i vuole, ch'i no pò fare senza nu; perché, se nu a'
no foessàm famigi, igi no serae paruni» (II, 1) [traduzione].
Al termine di questo "viaggio verso la letteratura" il
personaggio di Ruzzante (ma un Ruzzante ormai amante dei libri e filosofo) torna un'ultima
volta, nel 1536 o '37, nella Littera a Messier Marco Alvarotto, mandata forse al
compagno perché la recitasse in sua assenza ad Alvise Cornaro e ai suoi amici: uno dei
testi più suggestivi, e vero e proprio testamento, del grande padovano. Ruzzante racconta
di aver cercato lungamente il segreto per vivere indefinitamente, e di averlo trovato
quando gli è apparso in sogno un vecchio amico morto, Barba Polo, che dall'alto di una
collina gli ha mostrato il podere di Madona Legraçion, Madonna Allegrezza, i cui
abitanti, vivendo in modo semplice, frugale e sereno, concentrano in ogni loro gesto e
momento, e dunque salvano dal tempo, la
perfezione e la consapevolezza della vita felice: «un'ora di vita di uno che sappia di
esser vivo, è più vita, e più lunga, di quella di uno che viva tutta la sua vita e non
sappia mai di esser vivo
»: estremo rifugio di Ruzzante dai Fastibii e dai Pensieri
della Storia in un paradiso della mente che può stare a paragone con altre,
magnifiche utopie europee del Cinquecento, dall'Abbazia di Thélème descritta da Rabelais nel Gargantua
all'isola incantata di Prospero nella Tempesta di Shakespeare.
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