L'unica commedia del filosofo nolano fu
pubblicata a Parigi nel 1582, prima dunque di tutte quelle a noi note di Della Porta, alcune delle quali
tuttavia, scritte e rappresentate negli anni settanta, quando Bruno studiava a Napoli, egli ebbe
probabilmente occasione di conoscere. Resta in ogni caso al Candelaio un valore di
testo conclusivo del teatro cinquecentesco: forma letteraria ormai abbastanza prestigiosa
per affidarle un complesso messaggio filosofico; consuntivo delle convenzioni e delle
risorse di un linguaggio comico che tocca qui iperbolicamente il suo apice e suoi limiti;
dimostrazione del derisorio fallimento di ogni linguaggio che si presentasse come veicolo
della cultura (o delle culture) ufficiali, letterarie e scientifiche, del tempo.
Nel Candelaio. Comedia del Bruno Nolano,
Academico di nulla Academia, detto il Fastidito (con l'epigrafe In tristitia
hilaris, in hilaritate tristis) il corpo della favola vera e propria è preceduto:
da un sonetto caudato in cui il testo chiede
beffardamente A gli Abbeverati nel Fonte Caballino (cioè ai poeti) qualche
componimento di presentazione e di lode con cui coprire la propria nudità, per non dover
mostrare «scuoperto alla Signora sua / Il zero e menchia, com'il padre Adamo»;
da una Dedica scritta a Parigi nell'estate del 1582 Alla Signora Morgana B.
(forse un'amica campana dell'ex-studente), in cui è sottolineato il significato
filosofico dell'opera («Ricordatevi, Signora, di quel che credo che non bisogna
insegnarvi: il tempo tutto toglie e tutto
dà; ogni cose si muta, nulla s'annichila; è un solo che non può mutarsi, uno solo è
eterno, e può perseverare eternamente uno, simile e medesimo
»);
da un Argumento ed ordine della comedia, con un'esposizione delle tre
"materie" o subplot di cui è composta;
da un Antiprologo che annuncia la cancellazione della recita (attrici ammalate,
attori ubriachi ecc.), e traccia un memorabile ritratto dell'autore: «dirreste ch'ave una
fisionomia smarrita: par che sempre sii in contemplazione delle pene dell'inferno, par sii
stato alla pressa come le barrette: un che ride sol per far comme fan gli altri: per il
più, lo vedrete fastidito, restio e bizzarro, non si contenta di nulla, ritroso come un
vecchio d'ottant'anni, fantastico com'un cane ch'ha ricevute mille spellicciate, pasciuto
di cipolla»;
da un Proprologo che riconferma l'imminenza dello spettacolo, spiega l'apparato e
presenta uno a uno i personaggi smascherando con magnifico estro verbale le loro
turpitudini e i loro «ociosi principii, debili orditure, vani pensieri, frivole speranze,
scoppiamenti di petto, scoverture di corde, falsi presupposti, alienazion di mente,
poetici furori, offuscamento di sensi, turbazion di fantasia, smarrito peregrinaggio
d'intelletto, fede sfrenate, cure insensate, studi incerti, somenze intempestive e
gloriosi frutti di pazzia»;
e finalmente da un Bidello che con l'aria di scusarsene sottolinea compiaciuto
l'eccezionale dovizia di testi preliminari alla commedia (quella che Genette chiamerà
l'istanza prefaziale), e annuncia l'arrivo in scena di Bonifacio, il Candelaio (soprannome
che allude probabilmente ai trascorsi pederastici del personaggio, e si riferisce anche a
un altro Bonifacio di carne ed ossa, un domenicano detrattore del Bruno): «un
eteroclito babbuino, un natural coglione, un moral menchione, una bestia tropologica, un
asino anagogico
».
Come dice l'Argumento, nella
commedia sono intessute insieme tre materie principali: l'insipido amore di Bonifacio (che
ha una moglie bella, giovane, e fin qui fedele, Carubina) per la cortigiana Vittoria;
l'alchimia del sordido avaro Bartolomeo, che per la folle speranza di poter trasformare in
oro i metalli vili si fa truffare seicento scudi dal preteso alchimista Cencio; e la goffa
pedanteria di Manfurio, che pur non essendo il personaggio eponimo concentra sul suo capo
i sarcasmi forse più feroci e riceve le più dure nerbate. Bonifacio, la cui storia
occupa più spazio delle altre, è beffato dalla ruffiana Lucia e dal finto mago
Scaramuré. Convinto, come Calandro (nella Calandria)
e come Parabolano (nella Cortigiana), di recarsi a un
convegno con l'amata, travestito coi panni del pittore Gioan Bernardo, vi trova invece la
moglie, e finisce arrestato da finti sbirri nel diverbio che segue: mentre la sdegnata
Carubina si lascia convincere dal vero, prestante e facondo Gioan Bernardo, che la
desiderava da tempo, a vendicarsi con lui del marito.
L'originalità e - agli occhi dei lettori
più recenti - genialità della commedia sta in un impasto che non mancava invece di
scandalizzare critici pur competenti e acuti come De Sanctis e Carducci. Da un lato
abbiamo la caustica, spietata denuncia del vacuo formalismo della cultura del tardo
Cinquecento in tutte le sue forme: lo svenevole, degenerato petrarchismo di Bonifacio, la scienza
della natura degradata a superstizione e avidità di ricchezze in Bartolomeo, la mania
grammaticale di Manfurio, che come gli dice il mariuolo Sanguino fin dalle prime scene
ammorba il cielo «con questo diavolo di parlare grammuffo o catacumbaro o
delegante e latrinesco» [oscuro come una tomba, o elegante e latinesco] (I, 5). E fin qui
è vivo e operante il ricordo dei Dialoghi e delle commedie dell'Aretino, e anche di quelle del Belo e
del Della Porta.
Dall'altro lato tale sacrosanta polemica è
calata in un contesto che per la crudezza del linguaggio e la precisione dei particolari
topografici (la zona «intorno al convento domenicano dov'egli era cresciuto e qualche
altro quartiere della città, colle chiese, i vicoli e le osterie, tutto il labirinto
urbano in cui da millenni si svolge chiassosa e pittoresca la vita del popolo napoletano»)
è potuto sembrare brutalmente realistico, per esempio, all'Olschki appena citato (1927:
30): tanto più che la pratica dell'oscenità, riservata in tante commedie ai doppi sensi
e ammiccamenti del Prologo, e (come nell'altro napoletano Della Porta) alla
caratterizzazione dei servi, è qui sistematicamente estesa non solo a tutti i personaggi,
per esempio quello relativamente "positivo" di Marta, la moglie trascurata e
sessualmente insoddisfatta di Bartolomeo, ma, sacrilegamente, alle cose della religione,
reliquie credenze e dogmi.
Anche più scandaloso, se possibile, il
fatto che la punizione dei tre protagonisti, affidata collettivamente all'ambiente
canagliesco di falsi sbirri, truffatori, ladri, bari, prostitute e ruffiane che popolano
la commedia: - Sanguino e Scaramuré, Cencio e Barra, Corcovizzo e Marca, Vittoria e Lucia
- implica in qualche modo un trionfo della malavita sulla società dei benestanti e dei
dotti: tra gli spregevoli "vincitori", ai nostri occhi si salva solo il
simpatico pittore Gioan Bernardo, che potrebbe essere personaggio storico. D'altra parte,
questo "inferno" cui Bruno condanna il presente è solo il momento di un
processo: «si la mutazione è vera, io che son ne la notte, aspetto il giorno, e quei che
son nel giorno, aspettano la notte: tutto quel ch'è, o è cqua o llà, o vicino o lungi,
o adesso o poi, o presto o tardi» (Alla signora Morgana B.): e contro questo
sfondo filosofico possiamo misurare la distanza della polemica del Bruno da quella tanto
più divertita, e nelle ultime commedie, distaccata, dell'Aretino, o anche dal possibile
coinvolgimento esistenziale di Machiavelli
e dalla sua condanna politica del mondo fiorentino nella Mandragola.
Alla tradizione comica del Cinquecento il Candelaio
si ricollega dunque pienamente, come ha osservato Bàrberi Squarotti (1964:
5), per l'uso dei personaggi non come individui psicologicamente caratterizzati e
plausibili, ma come portatori di un intrigo e di un linguaggio, che qui diventano parodia
di una cultura in crisi e strumento per distruggerla. Se ne discosta invece non solo per
l'assoluta assenza di modelli classici e la rinuncia a servirsi degli espedienti del
teatro latino (famiglie disperse, agnizioni e così via: Padoan, 1996: 172-77), ma
soprattutto, come si diceva, per la missione sapienziale che Bruno apocalitticamente gli
affida.
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