Prima di rivedere La Cortigiana per la prima stampa nel 1534 (il testo
pubblicato è più regolare e meno virulento della prima redazione, testimoniata da un
manoscritto della Biblioteca Nazionale di Firenze), Aretino aveva dato alle stampe Il Marescalco (Venezia 1533),
commedia scritta forse nel 1526-27, e ispirata anch'essa dalla sua diretta esperienza di
una Corte: questa volta, la piccola Corte
di Mantova. La favola ruota attorno a una burla che lo stesso duca Federico II Gonzaga, amico e protettore dell'Aretino, ordisce pur senza
mai comparire in scena al suo marescalco, nemicissimo delle donne, facendogli credere che
dovrà per suo ordine prender moglie. Alla fine, dopo una finta cerimonia nuziale cui il
malcapitato misogino si rassegna desolato, si scopre che la supposta sposa è un paggio di
Corte.
L'ambiente è ovviamente più ristretto che nella Cortigiana, e
l'azione più lineare. Al partecipe vituperio della Roma papale nella prima commedia da
parte di un Aretino-Pasquino, subentra qui il divertito e superiore distacco
dell'Istrione-novelliere («
non era error niuno a far che, trasformato in ogni
persona, io solo vi appresentassi tutto quello che i miei sozii tutti insieme vi
reciteranno; e che sia il vero, che io vaglia più di loro, udite me e udite poi essi.
giudicate de i nostri meriti»: Prologo) davanti alla sproporzione tra il
capriccioso arbitrio del Signore che finge di voler dar moglie al suo dipendente
omosessuale, e l'impotente disperazione di questo. E ancora, fra la compunzione con cui
alcuni zelanti cortigiani, il Conte e
il Cavalliere, convinti che il Duca faccia sul serio, si prodigano per forzare il
marescalco alle aborrite nozze, e la gratuità dello scherzo che si scopre solo alla fine.
Nella risibile vacuità della Corte mobilitata dalla burla spiccano alcuni personaggi di
contorno, la balia del Marescalco, «un'Alvigia più casalinga e meno corrotta, più
bigotta e superstiziosa» (Baratto, 1964: 110) e l'impertinente e ambiguo ragazzo Giannico, effimera "sposa"
del protagonista. E non è un caso che in questo mondo che vive di parole assuma un
particolare rilievo il Pedante latinista e sputasentenze, che assieme a quello di
Francesco Belo nella commedia omonima di quest'ultimo (Il
Pedante, 1529?) è tra gli archetipi di tale personaggio comico. Giustamente
spetterà a lui, già autore dell'orazione nuziale in lode del matrimonio, il progetto
annunciato alla fine della favola, di comporre «una comedia del successo del Marescalco
con quattro dispute» a esaltazione del celibato (V, 12).
Le commedie successive di Pietro, meno geniali delle prime due, furono
composte assai più tardi, quando ormai la sua posizione di ospite gradito, e talvolta
speciale agente diplomatico della Repubblica Veneta, e di letterato famoso era pienamente
consolidata: fin dal 1532 era venuta la consacrazione dell'Ariosto nell'ultimo canto dell'Orlando Furioso: «ecco
il flagello / De' principi, il divin Pietro Aretino» (XLVI, 14). La
Talanta fu scritta nel 1542 a istanza della Compagnia della Calza I Sempiterni, e
rappresentata (Vasari, 1906, VIII:
283-87) con uno splendido apparato che riproduceva Roma, luogo dell'azione come già nella
Cortigiana, alla quale fa pensare anche l'alto numero dei personaggi. Ma
rispetto alla dirompente novità di quella, la nuova commedia appare assai meno originale,
con una trama intricata che contamina svariati ingredienti del teatro latino, come i
gemelli (qui addirittura trigemini, due fanciulle e un ragazzo), i travestimenti e le
agnizioni che sventano all'ultimo momento possibili incesti, rendendo possibili altri
matrimoni. I due vecchi innamorati della cortigiana romana Talanta, il veneziano messer
Vergolo e il capitano napoletano Tinca, possono ricordare alla lontana Maco e Parabolano;
e non mancano - vero e proprio sigillo aretinesco - numerose allusioni a luoghi,
macchiette, personaggi proverbiali della Roma contemporanea: mentre alcuni residui di una
coloritura dialettale veneta, rilevati da Padoan (1996: 141), si possono far risalire all'occasione della prima recita, e
alla presenza a Venezia di attori e, diremmo oggi, caratteristi di professione.
Chiaramente, ora Aretino vede anche nella commedia un'occasione per
riasserire la propria reputazione e rispettabilità di scrittore. E appunto l'insieme
delle situazioni tradizionali e delle convenzioni del teatro, latino e rinascimentale,
più che lo scandaloso spettacolo dei vizi contemporanei, sembra costituire ora il fuoco
del suo interesse, e al limite eccitare la sua ironia: come dirà Pizio, il nemico delle
cortigiane, nell'ultima scena, «Poi che il travaglio di questa novella ha tranquillo
fine, si può chiamar materia comica».
Ugualmente tributaria di svariate fonti
letterarie (tra le altre, i soliti Menaechmi, il Decameron e la
novella di Tisbina, Iroldo e Presildo nell'Orlando Innamorato), ma più
originale è l'altra commedia del 1542, L'ipocrito . Aretino vi sfoggia la sua abilità di inventore di trame,
immaginando ancora due gemelli, attempati questa volta, uno dei quali, Liseo, ha ben
cinque figlie: e i patemi e i colpi di scena attraverso i quali queste fanciulle si
destreggiano fra mariti, fughe con l'amante, spasimanti che ricompaiono bruscamente a
reclamare l'adempimento di vecchie promesse, suicidi sventati dalla prudenza di un medico
che somministra sonnifero invece che veleno, spostano felicemente l'interesse dell'azione
dal personaggio eponimo, uno degli svariati ipocriti cinquecenteschi precursori di
Tartufo, alle turbinose avventure che sboccheranno, alla fine, in cinque felici matrimoni.
Il rilievo sempre maggiore che assume nel teatro
dell'Aretino lo sfrenamento manieristico del linguaggio è evidente nel Filosofo del
1544 (pubblicato nel 1546). Le due trame restano giustapposte: da una parte lo
sproloquiante filosofo Plataristotele, ingannato dalla moglie Tessa da lui trascurata per
le speculazioni filosofiche, chiude in casa l'amante di lei Polidoro, ma poi trova un
asino al suo posto; dall'altra uno sciocco mercante perugino imitato dall'Andreuccio del Decameron
passa per la stessa serie di guai e spaventi del suo modello (e perché non ci siano dubbi
sulla derivazione Aretino lo chiama Boccaccio). Ma come si diceva il vero protagonista è
il linguaggio, che va dalla parodia del gergo delle scuole a quella della poesia petrarchesca, e specialmente in bocca ai
servi tocca punte espressionistiche che fanno pensare a certe tirate della Nanna e
della Comare nelle Sei giornate: «[Salvalaglio] [vantandosi d'essere stato al
sabba delle streghe a Benevento] Al dispetto de la noce, dove anch'io insieme
con alcuni stregoni credetti andare sotto l'acqua e sopra il vento e poi sul più bello de
la massa mi viddi prigion con due soldi per la taglia, e libero con una scarpa per il
viaggio. [Garbuglio]: Che? tu pur vi andasti? [Salvalaglio]: Anch'io fui de la girandola,
che bene in punto di scoppi, di soffioni e di raggi, ne lo impaurire con le sue fiaccole,
col suo tuffe taffe e col suo rimore il nappamondo, si risolvette in fetor di solfo e in
putimento di carta abbrusciata» (II, 12).
Del resto, è lo stesso autore a sottolineare, con un caratteristico
riflesso metaletterario, la dipendenza del Filosofo dalle proprie grandi
sperimentazioni in prosa degli anni trenta (il Ragionamento della Nanna e
della Antonia è del 1534, e il Dialogo della Nanna e della Pippa, poi della Comare
e della Balia, è del 1536). Così la furba cortigiana Tullia osserva «in mal per me ci
avrei studiato la Nanna, se non sapessi imitarla» (II, 3, corsivo nostro);
e più avanti la sua segretaria Lisa commenta ammirata gli inganni della padrona: «ella
leggendo la Pippa e l'Antonia, stima le astuzie di lei goffezze da ingannare babbioni»
(II, 7).
Non solo cronologicamente, dunque, le ultime commedie di Aretino si
situano fra le Sei giornate e il primo libro delle Lettere
di Andrea Calmo (1547), e confermano la lucida consapevolezza da parte dell'autore di
quel processo per cui, andando verso la metà del secolo, la crisi del Rinascimento si
manifesta nella crescente importanza delle parole rispetto alle cose, o se si vuole nella
ricerca di un rifugio e di un compenso nell'eccesso verbale, nel turgore manieristico
della forma.
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