Un
anno vissuto pericolosamente
di
Cosimo Scarinzi
Tentare
un bilancio del periodo che inizia con la vittoria elettorale della destra e con
i fatti di Genova non è, con ogni evidenza, facile.
Lo
scontro sociale si è svolto su diversi piani, le mutazioni nazionali dello
scenario politico e sociale si sono intrecciate con quelle internazionali, la
stessa interpretazione delle vicende delle quali si ragiona rimanda a una
valutazione sia della natura dei soggetti istituzionali e sociali in campo che
alla loro relazione con il movimento sociale.
Detto
ciò, è, a mio avviso, necessario ricostruire un quadro, per quanto schematico,
degli accadimenti recenti anche per affrontare le situazioni che si
determineranno sulla base di una conoscenza realistica della situazione sociale.
Il
quadro politico-sindacale
La
prevedibile vittoria elettorale della destra aveva, già nella primavera del
2001, determinato una crisi delle tradizionali modalità di funzionamento del
sistema dei partiti e del mondo sindacale.
La
sinistra, che aveva condotto la campagna elettorale concentrandosi sulla
denuncia del conflitto di interessi che affligge Berlusconi, si caratterizzava
per un programma e, soprattutto, per una pratica di governo sostanzialmente
omogenei a quelli della destra e, per di più, per l’evidente presenza di
tensioni interne ai suoi gruppi dirigenti che, sovente, avevano preso forme
autodistruttive.
Già
a primavera, comunque, erano emerse tensioni fra CGIL, da una parte, e
maggioranza dei DS, dall’altra, e queste tensioni hanno costituito uno degli
elementi caratterizzanti del passato anno.
Il
contratto dei metalmeccanici aveva visto la prima rottura fra CISL e UIL, da una
parte, e CGIL dall’altra con la scelta delle prime di firmare l’ennesimo
contratto a perdere e l’irrigidirsi della seconda su di una posizione
“dura” anche se, per certi versi, singolare (1).
La
FIOM, infatti, aveva chiamato i lavoratori a mobilitarsi per una cifra irrisoria
ed aveva mantenuta ferma la richiesta di una corretta applicazione della
concertazione che padronato e sindacati concorrenti reinterpretavano
all’ulteriore ribasso.
Comunque
la “vivacità” della CGIL anticipava lo scenario che avremmo vissuto dopo
l’estate e, in particolare, l’intreccio fra una mobilitazione simbolica (2),
dal punto di vista dei contenuti e la capacità di intercettare uno scontento
reale di ampi settori di lavoratori.
L’entrata
in campo della FIOM permetteva, fra l’altro, una sorta di ricostruzione
dell’immagine della CGIL (3) con il principale sindacato industriale nel ruolo
di rappresentante sociale di una working class che, di comune accordo, destra e
sinistra parlamentari ed istituzionali avevano cercato di consegnare
all’archeologia industriale.
Basta,
a questo proposito, notare come un quotidiano come “La Repubblica” che ha
accompagnato per decenni la deriva “modernizzatrice” e liberale abbia
riscoperto la questione sociale e, in particolare, gli effetti devastanti della
flessibilità, di quella stessa flessibilità alla quale aveva dedicato sino a
poco prima interessate apologie, sulla condizione proletaria (4).
Eppure,
a giugno e nonostante alcune prove tecniche di opposizione, nel periodo
immediatamente precedente le elezioni la sinistra parlamentare e sindacale
pareva un pugile suonato incapace d’iniziativa e dilacerata al suo interno.
Anni
di governo sembravano aver dato la mazzata finale alla sinistra statalista e
accelerato l’atomizzazione della sua base sociale. L’apparato della sinistra
si trovava disarmato sia dal punto di vista programmatico, visto che si
pretendeva liberale quanto se non più della destra, che da quello, per molti
versi più rilevante, del radicamento sociale.
Genova
e la rottura degli equilibri
Non
è questa la sede per riprendere una riflessione approfondita sulle ragioni
contingenti della bestiale violenza della polizia a Genova.
Certo
hanno pesato pressioni internazionali da parte di chi non tollerava più che
ogni vertice delle grandi potenze fosse l’occasione di mobilitazioni di
opposizione e l’arrivo al governo di una destra fascista e leghista disposta a
porsi come sponda politica dei corpi di polizia..
Il
fatto è che la mattanza c’è stata, che è stata ampiamente documentata, che
ha colpito seccamente l’opinione pubblica.
Se
una considerazione positiva, dal punto di vista dei limiti del potere del
“grande fratello” mediatico, si può fare è quella che, nella società
della comunicazione, diventa difficile far sparire foto, filmati, comunicazioni
in internet. La colonizzazione mercantile della vita quotidiana comporta anche,
e necessariamente, uno sviluppo straordinario degli strumenti di comunicazione,
uno sviluppo che si rivela politicamente ingovernabile almeno quando il
conflitto sociale favorisce pratiche di autorganizzazione capaci di appropriarsi
delle nuove reti comunicative.
È
interessante notare che, nel corso dell’estate la grande stampa liberale ha
attaccato il governo con una durezza inusitata. Con ogni evidenza, la classe
media colta e semicolta non è attratta dall’ipotesi dell’introduzione di
modalità turche di governo del conflitto sociale.
Sono,
inoltre, apparsi i primi sintomi dei cattivi rapporti (5) fra borghesia liberale
e la cleptocrazia berlusconiana con il suo codazzo di populisti addomesticati e
dimentichi della loro tradizionale polemica anticleptocratica, per un verso, e
più carogne di prima sulle questioni dell’ordine pubblico, per l’altro.
Non
a caso, nel corso dell’anno, fascisti e leghisti hanno lavorato di conserva
sui temi dell’ordine pubblico e dell’immigrazione riuscendo a entrare in
collisione con i settori del padronato che hanno un evidente bisogno di forza
lavoro immigrata (6).
Fronte
esterno - Fronte interno
L’11
settembre la vicenda delle due torri è giunta a ricordare a tutti la natura
profonda del dominio, il fatto che la politica non è che la guerra condotta con
altri mezzi.
La
sinistra, naturalmente, ha provveduto a garantire al governo il suo sostegno
nella guerra dell’Afghanistan e, sorpresa!, siamo stato informati per
l’ennesima volta del fatto che tutte le forze politiche e sociali devono
unirsi nella difesa degli interessi nazionali.
Nonostante
i venti di guerra lo scontro sociale e sindacale ha ripreso vigore.
I
due piani della lotta politica, la guerra interna e la guerra esterna, si sono
sviluppati in relativa autonomia, il che è stato, per un verso, una condizione
favorevole allo sviluppo delle lotte e, per l’altro, un segnale politico sul
quale sarebbe opportuno riflettere (7).
La
mobilitazione contro la guerra, contro quella guerra che prosegue sia in
Afghanistan che in altre aree, non riesce ad assumere dimensioni ed impatto
adeguati perché non colpisce con la forza necessaria l’ordinato svolgersi
della produzione e dei meccanismi di dominio.
D’altro
canto, su questo terreno si è mantenuta viva una mobilitazione che sarebbe
sbagliato sottovalutare. Le manifestazioni contro la guerra, infatti, hanno
visto la partecipazione di settori importanti della popolazione e sono state uno
degli elementi costitutivi di una significativa opposizione sociale.
Il
movimento contro la globalizzazione, nei fatti, ha funzionato come movimento
contro la guerra.
La
rottura della concertazione
L’elezione
di Antonio D’Amato ai vertici della Confindustria è stata, per molti versi,
decisamente più rilevante della vittoria elettorale della Casa delle Libertà,
vittoria che, fra l’altro, non è affatto il prodotto di uno spostamento a
destra del corpo elettorale ma dell’integrazione della Lega Nord nella destra
nazionale e, nei fatti, della fine della Lega stessa come soggetto politico e
sociale autonomo e della sua riduzione a segmento padano del blocco di destra.
L’ascesa
di D’Amato rappresenta, infatti, il primo caso di pubblica rottura
dell’oligarchia che ha retto il capitalismo nazionale per decenni e della
traduzione sul piano istituzionale di un doppio processo di mutazione degli
equilibri del potere sociale su scala nazionale:
-
il ridimensionarsi della centralità della Fiat e la sua nuova
collocazione internazionale intrecciato con la fine del ruolo storico di Medio
Banca;
-
la crescita del peso della media e piccola industria decisa a
ridimensionare il ruolo del vecchio blocco corporativo dominante (grande impresa
industriale e finanziaria - sistema dei partiti - apparato sindacale).
Le
nuove caratteristiche del gruppo dirigente della Confindustria sono rese
visibili anche dallo stile di conduzione dell’organizzazione basato sul culto
del capo, l’allineamento della stampa confindustriale, la marginalizzazione
dei dissidenti. Un classico caso di bolscevizzazione che corrisponde
all’assunzione da parte della Confindustria di una logica di partito, in
qualche modo analoga a quella assunta dalla CGIL.
Il
governo appena insediato aveva da occuparsi di diversi problemi:
-
sistemare gli affari del presidente dei consiglio e dei suoi soci di
volo, e lo ha fatto egregiamente;
-
pagare le cambiali firmate a santa romana chiesa, e lo ha fatto senza
troppe difficoltà visto che i dirigenti della sinistra sembrano spesso e
volentieri delle guardie svizzere (8);
-
ricambiare i favori ottenuti dalle organizzazioni criminali e ci sta
riuscendo solo sino ad un certo punto grazie alle grandi opere pubbliche mentre
stenta a liberare dalla necessità del carcere i capi mafiosi che hanno, con
forza, mostrato di essere decisamente infastiditi da questa mancanza di
correttezza da parte della destra;
-
garantire alla Confindustria una modificazione del sistema delle
relazioni industriali che definisse in maniera chiara il pieno dispotismo
padronale nelle aziende.
Questo
particolare obiettivo implicava una rideterminazione dei tradizionali rapporti
fra governo e sindacati di stato, la fine della concertazione, almeno come sino
ad oggi è stata intesa, e la sua sostituzione con il cosiddetto “dialogo
sociale” (9).
È
interessante notare che la politica sociale del governo è tutt’altro che
riducibile alla modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e che
prevede una radicale “liberalizzazione” delle relazioni fra lavoratori ed
imprese mediante l’estensione della possibilità di usare lavoro interinale,
contratti “anomali”, la privatizzazione del collocamento, la facilitazione
nelle operazioni di esternalizzazione, ecc..
Il
concentrarsi della mobilitazione contro la riforma dell’articolo 18 ha
risposto, probabilmente, alla necessità di individuare un obiettivo di facile
comprensione ma ha lasciato sullo sfondo questioni di rilievo ancora maggiore e
che richiedevano un’adeguata mobilitazione.
Il
nuovo scenario ha visto un rapido deteriorarsi dei rapporti fra CISL e UIL , da
una parte, e CGIL dall’altra.
Si
è trattato di un processo contraddittorio e con accelerazioni e ricuciture, ma
la logica di fondo è abbastanza chiara:
-
CISL e UIL danno per scontato che il governo reggerà visto che ha una
solida base parlamentare e sociale e si attrezzano per conviverci garantendosi
il massimo possibile di quote di potere e di gestione di risorse pubbliche;
-
la CGIL non è disposta ad
accettare un ruolo di partner subalterno del governo di centro destra e cerca di
garantirsi il solido spazio conquistato in anni di prassi corporativa. Può
contare, a differenza dei concorrenti, su di un tessuto militante non troppo
sfilacciato, su di un’immagine prestigiosa anche se un po’ appannata, su di
un reale insediamento sociale e sull’identificazione nelle sue sorti di gran
parte del popolo di sinistra.
È
mia convinzione che le accuse che si scambiano CISL e CGIL (la UIL conta come il
due di coppe a briscola quando briscola è bastoni) siano, per l’essenziale,
tutte esatte. La CISL ha una sponda interna a settori del governo e punta ad
essere il sindacato di riferimento della destra senza tagliare, anzi, i rapporti
a sinistra, la CGIL si scopre combattiva con il governo Berlusconi dopo aver
accettato di peggio da quelli della sinistra e mentre continua ad fare accordi a
perdere in cambio del riconoscimento del suo ruolo.
Questa
è, comunque, la scoperta dell’acqua calda, conosciamo bene le logiche che
governano la pratica degli apparati burocratici e non sta, da questo punto di
vista, succedendo nulla di strabiliante.
L’istituzionale
ed il sociale
Ritengo
sarebbe un errore sia il leggere le mobilitazioni di autunno e di primavera come
il prodotto puro e semplice della discesa in campo della CGIL che come
l’effetto di una mobilitazione dal basso che avrebbe costretto la CGIL a
radicalizzarsi.
La
prima lettura peccherebbe di politicismo.
Nessuna
persona seria può affermare in buona fede che la volontà del segretario
generale (10) della CGIL può determinare una crescita superiore al 1700% delle
ore di sciopero che si è data questa primavera rispetto alla prima metà
dell’anno scorso.
Gli
scioperi sono stati massicci e partecipati perché raccoglievano uno scontento
reale accumulatosi negli anni passati e centrato sui diritti, il salario, le
condizioni di lavoro.
La
seconda lettura sarebbe, d’altro canto, ingenua. La mobilitazione dal basso,
infatti, vi è stata e si sono determinati interessanti intrecci fra iniziative
di lotta dei lavoratori, mobilitazioni delle classi medie, movimento contro la
guerra. Non si può, però, sottovalutare la capacità delle CGIL di tenere
sotto controllo la situazione, di utilizzare gli stessi settori più radicali
come rompighiaccio.
Basta,
a questo proposito, pensare al carattere doppio dello sciopero del 15 febbraio,
ritirato da CGIL-CISL-UIL e mantenuto con buoni risultati dai sindacati
alternativi.
Quando
CGIL-CISL-UIL hanno chiuso la vertenza del pubblico impiego e della scuola con
un accordo concertativo, i sindacati di base sono riusciti a tenere
l’iniziativa ed a dare vita ad una manifestazione imponente a Roma dimostrando
che il controllo dei sindacati di stato regge solo sino ad un certo punto.
Nello
stesso tempo, la buona riuscita dello sciopero ha dato una conferma alla CGIL
dell’esistenza di un’area sindacale e sociale forte e combattiva e della
possibilità di dar vita a iniziative senza e contro CISL e UIL.
Mi
sembra ragionevole, insomma, porre l’accento sul fatto che la rottura del
blocco del sindacato di stato ha dato spazio all’iniziativa di settori
combattivi di lavoratori ma ha anche fornito alla CGIL la credibilità per
tenere sotto controllo la propria base.
In
guisa di conclusione
Il
Patto per l’Italia ed il DPEF sono l’esito “formale” dello scontro. Il
governo punta su di un rapporto privilegiato con CISL e UIL e sullo scambio fra
ridimensionamento, sia pur limitato, dell’articolo 18 e altrettanto limitate
concessioni per quel che riguarda fisco e sussidi di disoccupazione.
Si
parla, a questo proposito, di modello spagnolo e cioè di un modello basato
sulla distruzione dei diritti a livello aziendale e categoriale in cambio di,
limitate, concessioni per quel che riguarda il salario sociale (11).
Si
tratta di un modello che non prevede affatto la fine del corporativismo
democratico ma una sua diversa strutturazione e non esclude contraddizioni anche
forti fra i partners che concorrono al patto sociale stesso (12).
La
CGIL si trova in una situazione delicata sia perché i suoi rapporti con la
sinistra parlamentare sono, diciamo così, complicati che perché le sue
contraddizioni iniziano ad emergere. Basta pensare agli accordi a perdere che
continua serenamente a firmare.
In
questi mesi, d‘altra parte, il sindacalismo alternativo ha dimostrato di
tenere bene sul piano dell’iniziativa e dell’identità.
Soprattutto
non sono mancate lotte dure e, parzialmente, vincenti come quella dei lavoratori
delle imprese di pulizia delle ferrovie (13).
Ad
autunno, insomma, si apre una partita interessante. Non è mio costume lanciarmi
in previsioni che rischiano di rispondere più ai desideri di chi le formula,
nel caso il sottoscritto, che ad un’effettiva possibilità di valutare scenari
complessi.
I
punti di crisi mi paiono, però evidenti:
1.
il governo ha già annunciato tagli secchi alla spesa sociale mentre sono
in scadenza, da quasi un anno, i contratti del pubblico impiego e della scuola;
2.
nel settore privato sarà inevitabile che al rifiuto della “riforma”
dell’articolo 18 segua una chiara rivendicazione salariale;
3.
i lavoratori precarizzati, gli immigrati, le giovani generazioni
proletarie hanno mostrato una disponibilità alla mobilitazione che non si
verificavano da diversi anni.
L’intreccio
fra conflitti particolare su questi tre terreni è una possibilità reale per lo
sviluppo di un’opposizione sociale di dimensioni e di radicalità più che
rispettabili.
Come
sempre, la dialettica fra movimento e istituzioni è un problema aperto e che si
determinerà non tanto sulla base di una, necessaria, critica teorica al ruolo
degli apparati burocratici quanto sulla base della radicalità effettiva del
conflitto sociale.
Come
sempre, si potrebbe rilevare. D’altronde non si tratta di cercare “novità”
ma di cogliere quanto di radicale si svilupperà sul campo.
Note:
(1) La vivacizzazione della CGIL nel corso dell’anno passato ha determinato una discussione, per molti versi, confusa. Si sono, infatti, intrecciati:
1. problemi di leadership, interni alla sinistra politica e sindacale, fra maggioranza e minoranza DS e, soprattutto, fra ipotesi di sinistra liberale e speranze di ricostruzione di una sinistra socialdemocratica e laburista;
2. problemi di egemonia fra i diversi segmenti dell’apparato sindacale;
3. esigenza di settori di movimento, per un verso, e di strati di lavoratori, per l’altro, di avere un riferimento sindacale forte;
4. capacità della CGIL di essere interlocutore di settori sociali diversi dal tradizionale movimento operaio sia sulla “sinistra” come i social forum che sulla “destra” come i girotondisti.
(2) Ritengo opportuno chiarire che, a mio avviso, il conflitto simbolico è, dal punto di vista sociale, assolutamente rilevante. La percezione del risultato di una lotta non è la mera registrazione dei suoi risultati dal punto di vista salariale o normativo ma deriva dalla valutazione, e dall’autovalutazione, per sua natura complessa, del peso sociale e della rilevanza dei soggetti coinvolti e della loro capacità di incidere. La pertinacia con la quale il governo ha insistito nella scelta di “ritoccare” l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori non sarebbe comprensibile, a fronte delle tensioni e dei costi sociali che questa pertinacia ha comportato, se si prescindesse dall’esigenza del governo di non “perdere la faccia”.
(3) Questa ridefinizione dell’immagine della CGIL si è giovata della rispolveratura del mito dei blue collar da parte della sinistra intellettuale che ha, come massima espressione, “Il Manifesto”. La FIOM appariva come il soggetto istituzionale che rappresenta la rude razza pagana proletaria a fronte della burocrazia confederale della CGIL.
Il fatto che la FIOM sia un soggetto sociale decisamente più robusto della lievemente patetica sinistra tradizionale della CGIL non va sottovalutato.
(4)
Che l’intellettualità di sinistra abbia iniziato, non sta a noi dire quanto
per convinzione e quanto per necessità, una sorta di autocritica lo dimostra la
pubblicazione e, soprattutto, il successo di libri come quello di Luciano
Gallino, "Il costo umano della flessibilità", Ed.Laterza.
Si
tratta di un testo interessante e certo non radicale che merita di essere
ricordato per il suo carattere di segnale di una crisi di precedenti
convincimenti.
(5) Il fenomeno dei girotondi, che qualcuno ha interpretato come il primo movimento di massa borghese della storia repubblicana, vede intrecciarsi la polemica anticleptocratica ed antitirannica tipica della polemica contro Berlusconi con suggestioni “movimentiste” e denunce della miseria politica e morale dei gruppi dirigenti della sinistra.
Nei fatti, movimento dei lavoratori salariati, mobilitazioni giovanili e rivolta borghese hanno teso ad intrecciarsi sia a livello mediatico e simbolico che nel concreto farsi dello sviluppo dei movimenti. Basta, a questo proposito, pensare all’influenza degli insegnanti che possono leggersi ed essere letti, contemporaneamente, come lavoratori dipendenti sottoposti ad un secco processo di proletarizzazione e come soggetti semicolti e portatori di una visione generale della società con evidenti valenze politiche.
(6) Non va, inoltre, dimenticato che la scorsa primavera ha visto i primi scioperi dei lavoratori immigrati in quanto tali sul tema dei diritti.
(7) Il fatto che i sindacati alternativi non abbiano lanciato uno sciopero politico contro la guerra ed abbiano preferito attendere lo sciopero contro la legge finanziaria del 15 febbraio 2002 per porre, anche, il problema della guerra è indicativo della difficoltà di tenere assieme fronte interno e fronte esterno anche da parte di un settore sindacale molto attento a quest’ordine di questioni.
(8) La destra ha immediatamente provveduto ad immettere in ruolo gli insegnanti di religione garantendo alla chiesa un canale di reclutamento privilegiato, a rendere il servizio prestato nelle scuole private equivalente a quello prestato nelle scuole pubbliche ai fini dell’immissione in ruolo degli insegnanti, a riformare gli esami di maturità affidandone completamente la conduzione alle singole scuole comprese quelle private con l’effetto di eliminare per le scuole private stesse la necessità di corrompere i commissari esterni e di svuotare di ogni valore i titoli di studio.
(9) Una riflessione generale sul corporativismo democratico non è oggetto di questo articolo.
Dal punto di vista del medio periodo sono pensabili sue scenari per quel che riguarda l’azione del governo:
1. un attacco secco al sindacato di stato che, inevitabilmente, colpirebbe CISL e UIL ancora più della CGIL
2. il proseguire della pratica di incunearsi fra CGIL, da una parte, e CISL e UIL, dall’altra, pagando un certo prezzo in termini di concessioni ma garantendosi la divisione del fonte sindacale istituzionale.
Personalmente, ritengo evidente che il governo intende proseguire sulla seconda strada a meno di una crisi sociale di tale rilevanza da renderla impraticabile.
(10) La stessa divinizzazione di Sergio Cofferati dimostra la natura profonda della crisi della sinistra. Il trasformare un sindacalista moderato e concertativo nell’eroe della working class, dei new global e dei girotondisti in un colpo solo è un’operazione eguale e contraria alla divinizzazione di Silvio Berlusconi sulla destra, un sintomo della fine della politica come progetto e della sua riduzione a spettacolo.
(11) Cfr. l'articolo di Carlos Velasco, "Spagna: la pace sociale sovvenzionata", apparso sul n.8-9 di Collegamenti Wobbly, 1999-2000.
(12) La CISL ha, in particolare, gran parte degli iscritti concentrati nel settore pubblico ed ogni politica di tagli degli organici in questo comparto non può che vederla conflittuale. Vi è, di conseguenza, lo spazio per una surreale sinistra della CISL a livello di categoria e di territorio.
(13) Cfr. l'articolo "Lotta sporca: la lotta dei lavoratori delle ferrovie" che compare su questo stesso numero della rivista.