Anno IV - Numero 83-
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Andrea Zanzotto
Zanzotto: un parlar fondo come un basar
La poetica di Andrea Zanzotto intrecciata al dialetto, non solo come lingua arcaica, lingua-madre, ma come balbettio originario, prima istanza di quel “vocativo” che il poeta ha percorso in tutta la sua opera.
di Daniela Basso

Il dialetto in Andrea Zanzotto, l’uso del dialetto nella sua poesia, non è mai segno di una lingua “altra”, lingua privata, ma di una lingua originaria, originaria nel suo ritmo interno, che divine il suono della percezione della realtà, del pensiero e dell’immagine che si fa scrittura. A questa ricerca si riconduce il linguaggio definito petèl: linguaggio dell’infanzia, trasmesso dalla madre al figlio, borbottio dalla sonorità liquida, fatto di sillabe che si sciolgono in bocca, del cantilenare dolce e rotto dei bambini in un miscuglio di latte e materia disciolta, dello sciabordìo addormentante, del “latte di Eva”.

Se l’italiano, o meglio, se la “Lingua” sia idonea o meno a esprimere sempre e tutti i sentimenti, o gli aspetti della realtà, è un problema che negli anni Sessanta è stato particolarmente dibattuto, tra l’intarsio plurilinguistico di origine poundina e un ritorno al dialetto. «Il “babelismo” non è tale se non ponendosi dalla prospettiva di una lingua»: secondo Zanzotto l’italiano ha dovuto lottare a lungo con il «super io» costituito dal latino e «l’inconscio» arlecchinesco dei dialetti, ma appunto il problema non era né l’italiano né il dialetto, ma la lingua intesa nel suo senso espressivo, nella sua capacità di essere penetrante, incisiva sulla realtà.

È quindi inesatto nell’opera di Andrea Zanzotto parlare di poesia dialettale, quasi fosse un operazione nostalgica; ma si parla di Lingua nelle sue oscure quanto limpide espressività: “se inpizharà i nostri mili paralar e pensar nóvi/ inte n’parlar che sarà un parlar e pensar nóvi/ inte ‘n parlar che sarà un par tutti/ fondo come un basar,/ vèrt sul ciaro, sul scur,/ davanti la mandra, impiantada inte ‘l scur/ col só taj ciaro, ‘pena guà da sempre (si accenderanno i nostri mille parlare e pensieri novi/ in un parlare che sarà uno per tutti,/ fondo come un baciare/ aperto sulla luce, sul buio/ davanti la mannaia piantata nel buio/ col suo taglio chiaro, appena affilato da sempre”).

A questo proposito è particolarmente significativo l’uso del dialetto in Andrea Zanzotto in opere come Filò e nel lavoro effettuato per il film Casanova di Fellini. Nel 1976, Federico Fellini chiese ad Andrea Zanzotto di scrivere delle cantilene per il suo film Casanova: “vorrei tentare di rompere l’opacità, la convenzione del dialetto veneto che, come tutti i dialetti, si è raggelato in una cifra disemozionata e stucchevole, e cercare di restituirgli freschezza, renderlo più vivo, penetrante, mercuriale, accanito … inventando combinazioni fonetiche e linguistiche in modo che l’assunto verbale rifletta il riverbero della visionarietà stralunata”.

Nella richiesta di Fellini si ripropone tutta la ricerca sul dialetto di Andrea Zanzotto, appunto come lingua non solo originaria, eppure nuova, ma capace di offrire nuova emozione al linguaggio, attraverso suoni più penetranti, accaniti. Alla richiesta di Fellini seguono le cantilene per il Casanova, in un misto di lingua goldoniana e ruzantiana che riesce a farsi forma espressiva per le scene del film e diventa per Zanzotto anche un momento per interrogarsi sulla lingua-dialetto. Il poema Filò quindi si amplia e diviene un vero omaggio alla lingua, al parlare, al “vocare”.

La poesia di Andrea Zanzotto nella sua vera funzione è quella di chiedere, a un occasionale interlocutore, un filo d’erba, il crinale di una collina, chiedere anche alla lingua stessa, attraverso fonemi che nel dialetto si fanno più accaniti, il senso di un rapporto con il mondo, con le cose, con un “Io” sempre più disperso e frammentario: “io ho perduto la traccia,/ sono andato troppo lontano pur rimanendo qui/ avvitato, imbullonato, diventato quasi un ceppo di piombo/ e la poesia non è in nessuna lingua, in nessun luogo”.

L’ultimo libro pubblicato da Andrea Zanzotto – Colloqui con Nino (Tipografia Bernardi) – ripercorre attraverso i dialoghi in dialetto tra lui e l’amico Nino le vicende e le esperienze più disparate, in cui realtà e fantasia tendono a mischiarsi: anche in questo caso non è solo il dialetto a dare forma a una comunicazione passata che appare quasi bizzarra eppure più autentica, ma nel dialetto e nella sua espressività rimbalza l’eco di un rapporto più nitido con la realtà, con il paesaggio, con la terra.

Vecio parlar che tu à inte’l tó saór
Un s’cip del lat de la Eva,
vecio parlar che no so pi,
che me se á descunì
dì par dì ‘inte la boca ( e no tu me basta);
che tu sé cambià co la me fazha
co la me pèl ano par an
(…)
Girar me fa fastidi, in médo a ‘ste masiére
De ti, de mi. Dal dent cagnin del tenp
Inte ‘l piat sivanzhi no ghén resta, e manco
De tut i zhimiteri: òe da dirte zhimithero?
Elo vero che pi no pól esserghe ‘romai
Gnessun parlar de néne-none-mame? Che fa mal
Ai fiói ‘l petel e i gran maestri lo sconsiglia?
(…)
Ma ti vecio parlar, resisti. E si anca i òmi
te desmentegarà senzha inacòrderse,
ghén sarà osèi -
do tre osèi sói magari
dai sbari e dal mazhelo zoladi via -:
doman su l’ultima rama là in cao
in cao se zhiése e pra,
osèi che te à in parà da tant
te parlarà inte’l sol, inte l’onbria.

Traduzione:

Vecchio dialetto che hai nel tuo sapore
un gocciolo del latte di Eva,
vecchio dialetto che non so più,
che mi ti sei estenuato
giorno per giorno nella bocca (e non mi basti);
che sei cambiato come la mia faccia
con la mia pelle anno per anno
(…)
Girare mi dà fastidio, in mezzo a queste macerie
di te, di me. Dal dente accanito del tempo
avanzi non restano nel piatto, e meno
di tutto i cimiteri: devo dirti cimitero?
E’ vero che non può più esserci oramai
nessun parlare di néne nonne-mamme? Che fa male
ai bambini il pètel e gran maestri lo sconsigliano?
(…)
Ma tu vecchio parlare, persisti. E seppur gli uomini
ti dimenticheranno senza accorgersene,
ci saranno uccelli -
due tre uccelli soltanto magari
dagli spari e dal massacro volati via -:
domani sull’ultimo ramo là in fondo
in fondo a siepi e prati,
uccelli che ti hanno appreso da tanto tempo,
ti parleranno dentro il sole, nell’ombra.


Tratto da:

Zanzotto, Andrea
Filò. Per il Casanova di Fellini
Mondadori