Un saggio rilancia il pensiero della santa sull'empatiaLa "notte oscura" di Edith
Stein Bisogna "rendersi conto" di ciò che accade all'altro |
| L'empatia fu il tema della tesi di laurea di Edith Stein, presentata il
3 agosto 1916. Il relatore della tesi non era un nome qualunque
dell'Università di Friburgo: era il padre della fenomenologia,
Edmund Husserl, del quale furono in vario modo discepoli nomi
come Heidegger, Scheler, Ingarden. È anche noto, lei stessa ne era
consapevole, che Husserl pur stimandone l'intelligenza e la mente
speculativa, non ebbe per Edith una particolare predilezione. E lei,
a sua volta, si tenne a distanza, fino a quando, con la svolta
trascendentale di Husserl che lo portò ad abbracciare una via di
nuovo idealistica, il disaccordo col maestro divenne esplicito
segnando il distacco definitivo tra loro.
Il libro di Laura Boella e Annarosa Buttarelli, Per amore di altro,
sviluppa un pensiero critico che ha come ultimo riferimento la
mistica della notte oscura che Edith, assunto dopo la conversione
il nome di Teresa Benedetta della Croce, sperimenta a partire da
un itinerarium vitae condotto sotto la guida spirituale di Teresa
d'Avila e del suo discepolo Giovanni della Croce. La Scientia
crucis, titolo dell'incompiuto saggio che la Stein stava scrivendo
sul mistico spagnolo poco prima di essere portata ad Auschwitz
dove ben presto morirà (1942), è il grado ultimo della
spogliazione di sé davanti a Dio, che la spinge infine verso quella
visione di Dio che, per lo Pseudo Dionigi (e poi anche per
Cusano, ma si potrebbe, arrivando a noi, aggiungere il nome di
Wittgenstein come espressione estrema della linea apofatica),
avviene come attraverso una caligine, poiché Egli è l'assoluto
ineffabile. La fede, per Edith, è immersione in questa condizione
notturna, che non va intesa in senso fenomenico come tenebra che
ci spaesa e ci copre di angoscia o terrore, bensì come quel luogo
dove si accede alla vera visione di Dio senza chiuderlo nelle
nostre misure. Si sfiora insomma l'eternità dell'essere e la sua
presenza reale.
Anche il rapporto con l'altro, con quello che mi sta di fronte (fil
rouge di tutta la speculazione levinassiana, per esempio, che parla
del volto come di qualcosa o qualcuno che mi sta davanti e non va
violato), anche la condivisione del suo dolore o del suo gioire,
estensivamente: del suo vivere, si spiega per Edith Stein nella
logica di un legame che non identifica mai né può rendere
sostituibili tra loro l'"io" e il "tu". L'empatia è esperienza di
come questa importantissima "differenza" non venga abolita, ma
trovi una singolare profondità ontologica proprio portando alla
luce la dimensione dell'alterità comune a me e all'altro. La precoce
presa di distanza della Stein da Husserl era contenuta in nuce già
nella tesi di laurea, poi pubblicata col titolo Il problema
dell'empatia (in italiano edita da Studium), soprattutto quando la
Stein critica la teoria dell'Einfühlung di Theodor Lipps, ovvero di
uno degli esponenti più tipici dell'idealismo tedesco, che pensa
l'empatia come immedesimazione e identificazione di due
soggetti. Ma questo universalismo è lontano dalla visione
personalistica della Stein: l'identificazione nega, implicitamente,
la libertà del soggetto e la sostanziale differenza tra il dolore
dell'altro e ciò che io provo davanti a esso. Solo a partire
dall'alterità che ci lega, possiamo condividere la gioia o il dolore
l'uno dell'altro. La Stein riassume questa intuizione quando
afferma che l'empatia è "rendersi conto" di ciò che accade all'altro,
e conclude: quel che interessa non è perché o come accada questo,
ma proprio che cosa è, alla radice, cioè ontologicamente, questo
"rendersi conto". Secondo le autrici di questo saggio, l'itinerario
della Stein resta comunque e suo malgrado incompiuto. Molte
domande sul suo pensiero restano aperte. Si potrebbe concludere,
per ora, che quel "rendersi conto" è appunto l'esperienza
dell'alterità dentro noi stessi che ci dispone ad accogliere l'altro, è
"amore per l'altro". Che rende possibile l'incontro "da persona a
persona". |