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CODICE DELLA STRADA E CIRCOLAZIONE   PDF  Stampa  E-mail 

“DESTRA E SINISTRA PER ME PARI SON…”
Quando la legge ti prende la mano

 

Sei righe, su Auto Italiana del 15 marzo 1925,  informano che “a decorrere d al 1° marzo a Roma è stato attuato il cambiamento del senso di circolazione da sinistra a destra. Così ora solo entrando a Milano l’automobilista che avrà girato tutta l’Italia tenendo la destra dovrà passare a sinistra (errore: succedeva anche a Torino, n.d.a.). Per una volta tanto la capitale morale ha voluto mostrarsi retrograda di fronte alla capitale reale”. Dal che si deduce che, a distanza di quindici mesi dall’emanazione del nuovo codice della strada (R.D. 31 dicembre 1923 n. 3043, pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del 26 gennaio 1924) non si era ancora arrivati alla sua completa applicazione.

Non che il nuovo codice si inserisse in un vuoto legislativo. Fino a quel momento la circolazione delle automobili nel Regno era governata dal Testo Unico di legge approvato con R.D. 17 luglio 1910, n. 569 (tassa di velocipedi, motocicli ed automobili); dal successivo Regolamento del 31 agosto 1910, n. 642; dalla legge 30 giugno 1912, n. 739, sulla circolazione delle automobili; dal relativo Regolamento 2 luglio 1914, n. 811; dalla Convenzione Internazionale approvata con R.D. il 24 marzo 1910, n. 169. Non mancavano perciò i riferimenti legislativi. Però, come spesso succede, e più spesso in Italia, l’abbondanza di leggi e regolamenti aggrovigliava la materia più di quanto non la chiarificasse. Prendiamo il presupposto fondamentale della circolazione automobilistica: che le automobili circolino. Ma da che parte? Tenendo la destra o tenendo la sinistra? O stando al centro della carreggiata? E sorpassando dove?

Certo, sembrano quesiti di facile risoluzione. Basta stabilire la mano di circolazione, e via, che problema c’è? La legge del 30 giugno 1912 sembra chiara. All’articolo 4 si precisa: ”I veicoli di qualunque sorta circolanti sulle strade ordinarie senza guida di rotaie sia negli abitati che in campagna dovranno tenere costantemente la destra  e per oltrepassare altri veicoli dovranno portarsi sulla sinistra”. Al secondo comma però si aggiunge: “I comuni che abbiano nell’abitato una circolazione tranviaria possono prescrivere che nell’interno dell’abitato si tenga la sinistra apponendo all’ingresso della città una scritta ben visibile ed illuminata di notte”. Lo fecero tutte le città italiane, di grandi dimensioni e di medie, e anche le piccole (per non essere da meno). In questo modo fu sancita ufficialmente la nascita, unica al mondo, di una duplicità di mano, deprecata fin che si vuole ma profondamente connaturata all’animo italiano, insofferente di omologazioni ed unificazioni. Per anni si circolò a sinistra in città, a destra in campagna. E al  centro, pronti allo scarto laterale, in tutte quelle situazioni, ed erano tante, poco chiare: come nelle zone suburbane apparentemente campestri, che alcuni automobilisti interpretavano come cittadine ed altri come rurali; oppure a destra e sinistra in uno zigzag continuo, se si era forestieri, ignari del codice e poco inclini alla flessibilità italica.

Questa situazione non poteva durare all’infinito, e vi si pose mano con il codice emanato nel 1923. Che però, possiamo stupirci?, ingarbugliò la situazione. Non fu scritto, come ci si poteva augurare: “La mano di circolazione per le automobili è a destra”. Sarebbe stato troppo semplice. Fu scritto (articolo 7, Mano da tenere nella circolazione stradale): “Tutti i veicoli, gli animali da tiro, da soma o da sella, le mandrie e le greggi circolanti sulle strade ordinarie sia negli abitati sia in campagna, debbono portarsi a destra per incrociare ed alla sinistra per oltrepassare, avendo cura nelle svolte di mantenere la propria mano. Ogni veicolo che durante la marcia si mantenga nel centro della strada ha l’obbligo di portarsi alla sua destra ogni qualvolta un veicolo che lo segue lo abbia richiamato con segnalazioni”. Era dunque sancito che il veicolo, insieme alle mandrie, potesse stare dove voleva, al centro, a destra o a sinistra; a condizione che si portasse alla sua destra in caso di incrocio o se l’automobile che lo seguiva gli suonava da dietro (cosa che nella maggior parte dei casi avrà scatenato ben altri comportamenti che quello di portarsi disciplinatamente verso il lato destro della carreggiata). Non era più una duplicità di mano: era semplicemente l’anarchia circolatoria. Soltanto nelle grandi città, a causa dei continui incroci, veniva sancita definitivamente la circolazione a destra (cioè la mano contraria rispetto a quella in vigore sino a quel momento).

Cominciarono fin da subito a fioccare le multe; successe anche che un automobilista venisse multato perché si era permesso di fermarsi momentaneamente, senza spegnere il motore, sul lato sinistro della strada. Errore! Non soltanto ai sensi dell’articolo 3 (“i veicoli nelle loro eventuali fermate, devono essere collocati sulla destra in modo da lasciare libero al passaggio la maggior parte della larghezza stradale”) ma anche a quelli  dell’articolo 7 (“tutti i veicoli devono portarsi alla sinistra per oltrepassare”; se un veicolo si ferma sul lato sbagliato obbliga i sopraggiungenti a sorpassarlo alla sua destra), il malcapitato dovette pagare 100 lire di multa. La prossima volta, gli fu intimato, usufruisca della marcia indietro, in modo da fermarsi dove si vuole senza contravvenire al codice.

Passarono pochi giorni dall’emanazione del nuovo codice, e si scatenò una bagarre. Non soltanto perché in molti ambienti, come il Touring o l’Aci, si sarebbe preferito una norma più netta (che venne poi ratificata con il codice emanato nel 1933), ma perché tutte o quasi le automobili circolanti in Italia avevano il volante a destra, una complicazione in più. All’estero la situazione, apparentemente, non era più chiara. Le auto americane avevano quasi sempre il guidatore seduto a sinistra. In Inghilterra il conducente sedeva a destra. Così anche in Francia, almeno sino al primo dopoguerra quando Renault e Citroen iniziarono la costruzione di vetturette più economiche, con il loro bravo guidatore seduto a sinistra, come gli americani. L’Italia copiò dagli altri, ma copiò sbagliato. Si ispirò infatti a Londra, e poiché a Londra l’automobile aveva il volante a destra, così anche in Italia fu adottata universalmente l’automobile con il guidatore a destra. Del tutto incuranti che quella posizione di guida corrispondeva precisamente alla mano di circolazione: a sinistra, in Inghilterra. Così ci si ritrovò in Italia con un codice che imponeva, anche se debolmente, la mano destra,  e la maggioranza delle vetture con volante a destra, contravvenendo al principio (evidente oggi, all’epoca molto meno) per cui il guidatore deve stare seduto dalla parte opposta al senso della marcia. Infatti, tenendo la destra e col guidatore seduto a destra, questo si trova sul lato esterno della strada e nelle stesse condizioni si trova anche il conducente della vettura che incrocia: in tal modo i due guidatori sono separati dalla larghezza delle due carrozzerie e non vedono per niente il lato della rispettiva vettura che può essere sfiorato dall’altra vettura, specie quando hanno dei passeggeri seduti alla loro sinistra. Stessa situazione, naturalmente, anche per il sorpasso; senza contare altri svantaggi minori, come quello di dover manovrare le leve del cambio, ormai quasi sempre a centro vettura, con la mano sinistra anziché con la destra; o quello di non poter far scendere eventuali passeggeri dal lato del marciapiede, esponendoli al pericolo di essere investiti da un veicolo che sopraggiunge.

Proprio per questa incongruenza vi fu chi, all’indomani dell’imposizione della circolazione a destra anche a Torino (5 maggio 1926) riaccese la discussione. Perché aver imposto la mano destra, quando quasi tutte le macchine circolanti in Italia avevano il volante nella posizione “sbagliata”? Sarebbe stato più semplice, partendo dal dato di fabbricazione, imporre la mano contraria. Aldo Farinelli, giornalista e consulente legale di Auto Italiana,  scrisse: “Il solito, deprecabile snobismo degli anni d’anteguerra, la solita pedissequa ammirazione pei modelli stranieri ci fece assumere senz’altro la guida a destra come sulle macchine inglesi, senza che ci accorgessimo che era in diretta ed esclusiva relazione colla mano stradale. Disgraziatamente, il pubblico automobilista si abituò talmente alla guida a destra che anche dopo l’emanazione del nuovo codice si guardò bene dal cambiare opinione. Forse, se la Fiat avesse saputo e potuto applicare la guida a sinistra su tutti i nuovi modelli e le nuove macchine destinate al consumo interno…” Farinelli sosteneva anche che “l’innegabilmente alta percentuale di sinistri che affligge l’automobilista italiano nel confronto con le nazioni dalla circolazione razionale dipende non tanto dalle nostre fregole velocistiche…ma principalmente dal doversi portare a sinistra della strada per oltrepassare il veicolo più lento, avendo la visuale completamente ostruita”. E vi era anche un altro elemento a rendere la situazione più pericolosa ancora: la curvatura a schiena d’asino della sezione stradale, riscontrabile in quasi tutte le strade italiane. “Tale curvatura…già tiene in costante sovraccarico le balestre di destra. Il peso del guidatore, quando questi viaggia da solo, si aggiunge a caricare la parte destra della vettura. ..Se poi nei sedili posteriori viaggia un passeggero, questi, invitato dalla pendenza, andrà inevitabilmente a sdraiarsi anch’esso nell’angolo di destra. E questo fino a quando la stabilità della vettura è irrimediabilmente compromessa”. Insomma, o si rifacevano tutte le strade, e non sarebbe stato male, per eliminare questa perniciosa “schiena d’asino”, cioè l’infossamento della strada sui due lati; o si eliminavano tutte le vetture con il volante a destra, cioè si buttava a mare quasi l’intero parco-macchine italiano; o si emanava in fretta un altro codice, che invertisse il senso della marcia, dopo tanta fatica per unificarla in tutta Italia…le soluzioni erano tante, ma nessuna facile da applicare.

Sulla questione strade il governo aveva cercato di non farsi cogliere impreparato. Qualche settimana prima del nuovo codice era stato emanato il cosiddetto “decreto Carnazza” (21 novembre 1923). All’antica gerarchia delle strade nazionali, provinciali e comunali si sostituiva un nuovo ordinamento per classi di importanza decrescente: strade di prima, seconda, terza, quarta classe. Per le strade di prima classe la manutenzione sarebbe toccata per il 50% allo Stato e per il 50% alla Provincia; per quelle di seconda classe, per il 25% allo Stato e il 75% alla Provincia; per quelle di terza per il 50% alla Provincia e per il 50% ai Comuni; per quelle di quarta, per il 100% ai Comuni. Un piccolo particolare però inficiava la portata rivoluzionaria del decreto. L’articolo 21 recitava: “Nessun aumento di stanziamento potrà esser fatto a carico dello Stato per spese stradali in dipendenza delle precedenti disposizioni”. Et voilà, il gioco delle tre carte. Anche limitando il proprio impegno alla manutenzione delle strade di prima e di seconda classe, lo Stato avrebbe dovuto stanziare almeno 120 milioni di lire, anziché i 73 previsti per il bilancio 1924-1925. Con una clausola del genere, dunque, la riforma Carnazza diventava impossibile da attuare. Si rimediò arrangiandosi e limitando i danni: innanzitutto con un bel Regio Decreto dell’ottobre 1924 (intanto era passato un anno) che prorogava la data di applicazione della riforma. Quindi con un successivo decreto del giugno 1925 con cui si disponeva che il Ministro dei Lavori Pubblici era autorizzato a stipulare delle convenzioni “provvisorie” con le singole Provincie. Fu poi creata un’apposita Commissione per studiare il problema, e finalmente si ottennero dal ministero delle Finanze (dicembre 1925) 60 milioni in più. La questione però era risolta soltanto in parte, perché Comuni e Provincie dove avrebbero trovato i fondi necessari per la parte loro spettante? Il problema stavolta fu di facile risoluzione: nelle tasche degli automobilisti. La legge del 1923 infatti aveva stabilito una sorta di “tassa di maggiore utenza”: ossia che i Comuni potevano imporre una tassa di manutenzione-strade in proporzione dell’usura che l’utente arrecava. La norma parlava di prestazione d’opera, commutabile in denaro per chi non intendesse sobbarcarsi del lavoro materiali, cioè una pura finzione giuridica. Colpendo tutti gli utenti della strada, anche i pedoni, in proporzione all’uso da ognuno fatto, la disposizione sfuggiva all’esplicito divieto di emanare sovrimposte di qualsiasi genere sugli autoveicoli, contenuto nel nuovo codice della strada. In sostanza, nessuno avrebbe potuto istituire un nuovo balzello sulle automobili: allora lo si istituì per tutti coloro che facevano uso della strada, rendendolo però irrisorio per i pedoni, ed esoso per gli automobilisti (120 lire annue).

Gli automobilisti protestarono, scrissero ai giornali, sfidarono i tribunali…e pagarono, perché adeguarsi talvolta costa meno di ribellarsi. Si adeguò anche la Fiat, direttamente chiamata in ballo da Farinelli: nel 1927 mise sul mercato la bellissima 520 a sei cilindri, con la guida a sinistra di serie. Finalmente la più grande fabbrica europea di automobili proponeva un modello in grado di risolvere l’annosissima questione. O no?

No, proclamò Charles Faroux, grande giornalista francese. Perché è incontestabile, scrisse proprio al momento della presentazione della 520, che con la circolazione a destra, il volante a sinistra accresca enormemente il numero degli incidenti. “La sicurezza esige che un guidatore possa sempre in un incrocio tenere il più possibile la destra. Ora è solamente con la guida  a destra che si può tenere la destra al massimo, mentre che con la guida a sinistra si rischia sempre di non tenere bene la strada…Chiunque per esempio percorra una strada di montagna spesso rasenta il ciglio di un precipizio, e ha perciò potuto constatare quanto sia prezioso il potersi rendere conto, sporgendosi al di fuori della vettura, della distanza che separa quest’ultima dall’abisso e della consistenza del suolo su cui si è obbligati ad avventurarsi”. A questo punto della discussione, esausti,  gli automobilisti avrebbero volentieri mandato nell’abisso lo stesso Faroux, che infatti fu accusato di essere tornato sulle proprie posizioni (era stato fino a quel momento strenuo difensore della posizione opposta, accusatore dei costruttori europei di “passatismo” perché non si decidevano a mettere il volante a sinistra sull’esempio dei progrediti americani) soltanto per fare un dispetto alla Fiat.

Restò il volante a sinistra, restò la circolazione a destra. E non furono le sole novità per i proprietari di automobili, in quegli anni confusi. I 19.760 autoveicoli circolanti in Lombardia nel 1925 (117.124 in tutta Italia) poterono dal 1° aprile del 1925 sperimentare un nuovo magico dispositivo, installato in unico esemplare a Milano, in piazza Duomo, all’incrocio delle vie Orefici, Torino e Mazzini. Eccone la descrizione, in un articolo sinistramente intitolato “La tragicommedia della circolazione milanese”: “Lì, nel centro del fatal crocicchio, l’innocente sostegno di una lampada è divenuto il pilone del sistema circolatorio, l’albero maestro di una incredibile giostra, il fulcro dell’ordine nuovo. Il semaforo campeggia e risplende su quell’antenna, superbo e misterioso come un oracolo…A guardarlo da sotto in su si incontra dapprima una fascia di graziose frecce, le quali si inseguono una dietro l’altra. Sopra la fascia, un grosso anello in cui s’apre una fila di grand’occhi rotondi, sporgenti e vitrei. E, sopra l’anello, il prisma dominatore, cupo, alto, formidabile come un tabernacolo arcano. E’ un pentagono che volge le sue cinque facce sulle cinque strade, e ciascuna faccia vi guarda con tre pupille enormi, l’una all’altra sovrapposta”. Funzionava tutti i giorni dalle 15,15 e le 19,15 (non si sa bene per quale simpatia per i quarti d’ora, nota l’articolista). Poteva illuminarsi con un luce rossa  (stop per le automobili), bianca e rossa (via con i pedoni, stop ai veicoli); gialla (via ai tram); verde (via alle automobili e motocicli), oppure gialla e verde, per dare il via a tutti i veicoli indistintamente. Il pubblico vi assiste “come ad un cinematografo incomparabile, trovandovi uno spasso che uno più bello non si saprebbe immaginare”. I risultati giustificavano l’ironia dei milanesi. “Invece di circolare, i veicoli stavano fermi, inchiodati nelle vie di provenienza da lunghissime code su due o tre file, formate da trams, automobili, carrozze e carri, motociclette e biciclette in cordiale promiscuità frammisti, nel gioioso conforto della famosa sorte comune e nella strepitante cacofonia di clakson, trombe, campanelli d’ogni timbro e d’ogni forza, sonanti la feroce sinfonia della protesta”. Insomma, il primo semaforo della circolazione automobilistica italiana proprio non piacque.

Se a Milano si piangeva, a Roma non si rideva granché: anche per il nuovo regolamento del Governatore di Roma che con un’ordinanza del 22 dicembre 1925 obbligava le automobili a munirsi, se circolanti nel territorio della Capitale, di una tromba che avesse “il suono di 210 vibrazioni al secondo, d’intensità tale da poter essere percepita in campagna (ma non era una norma che riguardava la circolazione cittadina?) alla distanza di metri 300 e con una capacità d’aria esauribile in uno o due secondi per ciascun colpo di suono”. E come facciamo a sapere se la nostra tromba vibra a 210 o a 199 vibrazioni al secondo? si chiesero gli automobilisti romani. All’ultimo comma dell’ordinanza la risposta: “ad evitare che gli interessati siano sorpresi nella loro buona fede basterà che le trombe…siano state preventivamente sottoposte alla formalità della bollatura”. Ecco, anche il bollo sulla tromba. Non resistette ai fischi dei romani, e fu abrogato subito: si sostenne, a ragione, che il Codice della strada stabiliva nel suo primo articolo libertà di circolazione, non annoverando tra le eccezioni alcuna disposizione a riguardo del suono del clakson.

Ad ogni modo, dal codice della strada del 1923 era nata una nuova Italia. Quella del “Che fa, concilia?”, indimenticabile domanda del vigile in tante gags cinematografiche. L’articolo 85 consacrava infatti la nuova figura giuridica della conciliazione. “Non si procede contro chi, essendo stato colto in contravvenzione alle disposizione del presente Decreto, per le quali sia comminata l’ammenda in misura non superiore nel massimo a lire duecento, versi immediatamente la somma di lire venticinque quando sia conducente di autoveicoli, e di lire dieci negli altri casi, al funzionario od agente che accerta la contravvenzione. Questi ne rilascia ricevuta, staccandola da apposito bollettario”. Passarono pochi mesi dall’entrata in vigore del codice, e già se ne reclamava a gran voce un aggiornamento, chiedendo per esempio che venisse eliminata l’obbligatorietà della segnalazione a mano della svolta; che si svincolasse la responsabilità del conducente da quella del proprietario (all’articolo 79 definiti responsabili in solido), che si limitassero i casi in cui la patente poteva venire sospesa (bastava anche il preliminare rinvio a giudizio), che si eliminasse la partecipazione  degli Agenti alle contravvenzioni… Ma la conciliazione no, nessuno la volle toccare. Anzi: tra le proposte avanzate, quella di rendere conciliabili tutte le contravvenzioni punite con la sola pena pecuniaria, versando entro tre giorni il decimo del massimo della pena stabilita per l’ammenda. 

Ci si rassegna meglio a pagare, quando ci vien detto che stiamo pagando meno del dovuto…

 

 

Donatella Biffignandi

Per Auto d’Epoca, 30 aprile ’03


 
   
     

 
 
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