L'infanzia, i sogni, le vittorie, le paure. la bandiera della Juve tra presente e futuro
Tanta voglia di vincere e nessun turbamento dalle voci di mercato

Alex Del Piero si racconta
"Il mio erede? Può attendere"

di MAURIZIO CROSETTI

Alex Del Piero si racconta "Il mio erede? Può attendere"

Alessandro Del Piero

TORINO - La stanza è tutta bianca. Alessandro Del Piero vi entra sorridendo, con un giocattolo in mano: un taglia erba di plastica. Un bimbo piccolo, un altro in arrivo, un papà che ha solo voglia di giocare. Ed è da laggiù che si parte.

C'è questo bambino, avrà sette, otto anni e si chiama Alessandro. Te lo ricordi? Cosa sta facendo?
"Sta pensando al pallone. Lo sport mi è sempre piaciuto, giocavo un po' a basket, a tennis senza maestro, però lo sport era il calcio e basta. Una passione irrefrenabile. Ero a scuola e pensavo alla palla, mangiavo con la palla e poi via, fuori".

Chissà che contenti, mamma e papà.
"Sono stati fantastici perché non mi hanno mai forzato né gasato. È quello l'errore grande. Il comportamento dei genitori è decisivo, per i figli sportivi. Io avevo anche l'esempio di mio fratello Stefano, più grande: era alla Samp, nella Primavera, con Lippi. Lui l'ha visto prima di me".

Cosa succedeva, nel tuo cortile?
"Spesso giocavo da solo: serve tanta immaginazione. Ero un campione della Juve, passavo la palla a Cabrini, a Tardelli, a Scirea, duettavo con Platini".

Uno scoop: Del Piero e Platini insieme.
"E la mia Juve del cortile era anche piena di stranieri: oggi Maradona, domani Van Basten, dopodomani Zico o Gullit".

E tu, lì il mezzo?
"Io facevo gol".

Ce l'hai il primo ricordo col pallone?
"Il primo torneo con una vera divisa, gialla e blu: scuola Comunale di Saccon. Il gialloblù era anche il colore del Conegliano. Le magliette tutte identiche vogliono dire squadra. Quel torneo lo perdemmo in finale ai rigori, vabbè, succede, non sarebbe neanche stata l'unica volta".

Com'era la vita al paese, nella provincia veneta?
"Semplice, ordinata. I ritmi regolari. Le famiglie, tutte, consideravano la scuola come la cosa più importante. La gente si scambiava favori, ricordo tanta solidarietà. Oggi si pensa che una persona buona sia una persona fessa, invece la bontà è fondamentale. In città è più difficile, altri ritmi, tutti cercano sempre il "di più". C'è confusione".

Sei andato via di casa a tredici anni: lacrime?
"No, ero affascinato, stavo al Padova, era un'altra dimensione: necessaria, per provare ad essere davvero un calciatore. Però il primo anno è stato difficile, io sono un ragazzo timido, ancora adesso lo sono. Si viveva in quattordici dentro una stanza, il pranzo arrivava scotto dalla mensa, al ritorno dalla scuola era immangiabile: però, così cresci. Ero il più piccolo, di età e di corporatura: poi, oddio, non sono diventato Shaquille O'Neal però mi difendo. L'inizio, devo dire, fu un po' traumatico".

Mai pensato di tornare dalla mamma?
"Io no, ma il Padova aveva una mezza idea. Dopo quel primo anno, forse si aspettavano di più. Ora sono contento di essere rimasto".

Quando ti sei accorto di essere Del Piero?
"Giocando con la prima squadra del Padova dove affrontavo gente come Albertini, Di Livio, Benarrivo, Galderisi. Mi misuravo con loro, e c'ero. Una cosa del genere accadde durante il primo ritiro con la Juventus: se mi danno un po' di tempo, pensai, ne caverò qualcosa di decente".

Credi di essere stato un buon figlio?
"Un buon figlio, sì, direi di sì. Mia mamma ricorda di quando andavo a prendere il treno e si raccomandava, "stai vicino alle altre persone, fai attenzione". Dovevo cambiare a Mestre, aspettavo la coincidenza anche trenta, quaranta minuti. Poi, mamma e papà vennero a trovarmi a Padova, e io: "Occhio al cambio di binario a Mestre". Ecco, mia mamma dice che in quel momento capì che ero diventato grande. Succede quando sono i figli a preoccuparsi per i genitori, e non viceversa".

Invece come ti senti, da padre?
"Beh, non è un mondo facile, anche se i miei figli avranno dei vantaggi. Però cercherò di insegnargli che la pagnotta bisogna guadagnarla".

Un'esperienza personale?
"Sono fiero di mio padre che si spaccò la schiena come elettricista, e di mia madre che avrà lavato per terra in tutte le case di Conegliano. Sono strafelice di avere avuto quell'infanzia, dove i desideri erano in rapporto alle possibilità, mai di più. E quando cominciava a venire il bel tempo, come adesso, si usciva nei prati, si faceva la casetta sull'albero, si rubavano le ciliegie e le pannocchie, c'era sempre il benedetto pallone. Bellissimo".

A cosa pensi quando senti la parola crisi?
"Anche se sono diventato ricco, l'approccio alla vita credo sia il medesimo. I soldi risolvono un bel po' di problemi pratici, però conosco un sacco di ricchi tristi, anche nel calcio e non è retorica: è la verità. In questo mondo c'è solitudine, a volte depressione. Siamo persone con dei sentimenti, persone anche fragili. Vedo gente che ha doni e li spreca, e si butta via".

C'è mai l'esigenza di staccare?
"Spessissimo, lo esigo: non posso sempre essere Alex Del Piero, il numero 10 della Juve. Bisogna pensare alla vita quotidiana, al futuro, anche se davvero non riesco a vedermi tra dieci, vent'anni".

Tu sei una specie di reperto fossile, un giocatore-bandiera.
"Felice di esserlo stato, nessun rimpianto anche se resta il fascino del Real Madrid, del Manchester United, cioè dei campionati stranieri in cui non ho giocato e non giocherò mai".

E in nazionale giocherai ancora?
"Lippi è stato molto chiaro, adesso ha necessità di vedere altri, da me si aspetta che giochi e faccia bene. Ho assorbito la cosa, non la vivo come un problema e neanche come una perdita definitiva: almeno, Lippi non me l'ha trasmesso".

Pensi che la Juve abbia scelto il tuo erede? Che succede se veramente arriva Cassano?
"Senza offesa, la mia vita calcistica non teme l'arrivo di Cassano e di nessun altro. Comunque, non vedo concorrenza spietata: abbiamo ruoli diversi e potremmo benissimo coesistere. Finché arrivano i campioni, tutto a posto".

E le vittorie, quando arrivano?
"Ecco, ne ho proprio bisogno. In queste tre stagioni è successo tutto ed è ora di rivincere qualcosa. Io penso che quest'anno una vittoria ci scapperà. Se l'Inter rallenta, noi ci saremo".

Quale partita vorresti rigiocare?
"Una delle tre finali perse di Champions, una a caso. E magari la finale dell'Europeo 2000".

Tu sei appassionato di calcio inglese e basket americano: cos'hanno, più di noi?
"In Inghilterra è tremendamente bello andare allo stadio, persino i colori delle maglie brillano di più. E gli americani sono spettacolo puro, forse condito da troppo contorno e troppa tivù. Poi, è chiaro che la passione latina è qualcosa di fenomenale: servirebbe un mix, ma con più attenzione alla bellezza da parte nostra. Da noi, nessuna moviola ripete le dieci azioni migliori della domenica, solo i mancati rigori o i fuorigioco".

Cosa significa essere un modello per tanti bambini?
"Una responsabilità, però di quelle belle. Ne sono fiero, e so di maneggiare un materiale delicato. Perciò provo a mordermi la lingua, qualche volta, e mantenere il controllo: lo stress offusca la mente".

Chi è, oggi, Alessandro Del Piero?
"Un professionista del calcio che ama tutto lo sport, si prepara bene e cerca di impegnarsi. Spero di essere anche una persona seria che ha avuto un dono, una grande fortuna e lo sa: per questo, ogni giorno prova a meritarla".

È pesante essere una star?
"Quando arriva uno all'aeroporto e ti fa il ganascino, sì. O quando sei al ristorante e ti tirano una foto sul piatto per l'autografo dicendo "dài, firma che non è neanche per me". Poi, viene il giorno in cui capisci che c'è sempre qualcuno più Del Piero di te: a me è successo quando ho conosciuto Bono. Ero paralizzato dall'emozione, non riuscii neanche a parlargli. Poi siamo diventati amici. Dopo Chelsea-Juve è sceso negli spogliatoi insieme agli U2: Tiago e Molinaro erano impietriti. Se non intervengo io, non gli stringono neppure la mano".

27 marzo 2009

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Squadra P
Rebeldes 97.5
BvzmWilma 97
fantaemiliano791 92
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