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Giovanni Lilliu, archeologo

di Lello Caravano - Fonte: L’Unione sarda - marzo 2004

martedì 10 aprile 2007 di exeo

In uno splendido pomeriggio del giugno 2000, l’Unesco consacrò le pietre nere di basalto della reggia dei re-pastori tra le meraviglie del pianeta, accanto alle Piramidi d’Egitto, all’Acropoli di Atene, al Macchu Picchu in Perù, a Pompei, alla reggia di Caserta, al Louvre di Parigi.

«L’Unesco ha voluto premiare la cultura nuragica. Una cultura circolare, anticlassica, lontana dalla perfezione formale, dalla simmetria.

Una cultura che rifiutava la linearità, l’angolo retto, al contrario impulsiva, piena di dubbi, che ubbidisce alle improvvisazioni barbariche. Tutto è circolare, come la torre del nuraghe, la capanna, il recinto degli animali, su pinnetu, tundu anche il ballo, tundu puru su pensamentu».

Professor Lilliu, tra pochi giorni sono 90. Emozionato?

«Per carità, non fate clamore. Non ho mai dato troppa importanza ai compleanni, in genere ricevo più auguri per l’onomastico. Santu Giuanni è un santo importante. Il poeta bonorvese Peppi Soddu, novantenne come me, mi telefona sempre per l’onomastico. Farò festa in famiglia, con Miriam, mulleri mia, e le mie figlie Caterina e Cecilia».

Al papa nuragico brillano gli occhi. Giovanni Lilliu, archeologo, scopritore di Su Nuraxi di Barumini, accademico dei Lincei dal 1990, forse il sardo più conosciuto al mondo, taglierà il traguardo dei 90 anni sabato prossimo, 13 marzo.

Una lunga e intensa vita dedicata a un popolo di grandi costruttori che fondò una civiltà unica nel Mediterraneo, nella Sardegna di 3500 anni fa, dove affondano le radici dei sardi di oggi.

Novanta primavere consacrate alla loro lingua, al loro modo di vivere e di pensare, alla loro cultura che nasce dalle pietre tirate su da architetti-pastori-guerrieri: un universo raccontato con rigore scientifico e un’affascinante scrittura. Novant’anni di un appassionato studioso, laureato in perdas e teulacciu, come bonariamente gli rimproverava il padre Giuseppe, che avrebbe voluto un figlio medico o avvocato più che uno esperto in pietre e cocci di terracotta. Un uomo umile, capace di rivedere e sconfessare alcune sue teorie («In qualche caso le ho ripudiate»).

Un Sardus Pater nato e cresciuto tra le colline e i campi di grano della Marmilla, che ha portato l’Isola nell’Olimpo dei tesori dell’umanità. «Una giornata emozionante, indimenticabile», ricorda Lilliu. In uno splendido pomeriggio del giugno 2000, l’Unesco consacrò le pietre nere di basalto della reggia dei re-pastori tra le meraviglie del pianeta, accanto alle Piramidi d’Egitto, all’Acropoli di Atene, al Macchu Picchu in Perù, a Pompei, alla reggia di Caserta, al Louvre di Parigi. «L’Unesco ha voluto premiare la cultura nuragica. Una cultura circolare, anticlassica, lontana dalla perfezione formale, dalla simmetria.

Una cultura che rifiutava la linearità, l’angolo retto, al contrario impulsiva, piena di dubbi, che ubbidisce alle improvvisazioni barbariche. Tutto è circolare, come la torre del nuraghe, la capanna, il recinto degli animali, su pinnetu, tundu anche il ballo, tundu puru su pensamentu».

Professore, ogni tanto viene pubblicato un libro che annuncia: svelato il mistero dei nuraghi. Ma ci sono ancora misteri da rivelare? Aspettiamo risposte?

«Pur tra differenti valutazioni, si può dire che i nuraghi, nella forma piu semplice, erano torri di avvistamento, per esempio per ragioni di pascolo: i furti c’erano anche allora. Nelle forme più complesse, come Barumini, Losa, Sant’Antine, anche un profano puo riconoscere che erano veri e propri castelli.

Ma non ci sono solo nuraghi. Ci sono le tombe dei giganti, i templi a pozzo, a megaron, le domus de janas, che le più importanti del Mediterraneo. Un fatto é certo: i nuraghi sono l’emblema internazionale dell’isola, il doc della Sardegna. Quei volumi rotondi sono lo charme della nostra terra».

Se domani gli archeologi dovessero svelare un altro mistero del popolo nuragico, lei che cosa auspicherebbe?

«Ancora oggi non conosciamo il sistema di costruzione dei nuraghi. Come facevano per esempio a portare sulla sommità, anche a venti metri d’altezza, quei mensoloni che pesavano quintali e tonnellate? Non lo sappiamo. Forse un giorno ce lo spiegheranno gli architetti e gli ingegneri».

E la scrittura? Lei disse che quel grande popolo di costruttori ci ha fatto il dispetto di non lasciare alcun segno. Resterà un popolo muto per sempre?

«Al momento niente è stato trovato. Probabilmente se avessero lasciato qualche segno, da qualche parte l’avremmo trovato. Il mondo occidentale prima del sesto secolo avanti Cristo era barbaro, nel senso che non conosceva la scrittura: la parola scritta arrivò a Roma proprio nel sesto secolo, quando la civiltà nuragica si stava spegnendo. In compenso, scrivono, e parlano, i nuraghi e in particolare le statuette di bronzo».

Che cosa le ha dato più emozione: la scoperta di Su Nuraxi o il riconoscimento dell’Unesco?

«Indubbiamente la consacrazione dell’Unesco è stato un momento straordinario. Eppure, non sono il tipo che si emoziona facilmente. Ma c’è un episodio che mi mette ancora i brividi.

Fu quando con Enrico Atzeni scoprimmo a Monte Prama le grandiose statue nuragiche in arenaria ai bordi dello stagno di Cabras. C’era un sole bellissimo, poi il cielo improvvisamente si oscurò, venne la tempesta mentre le statue tornavano alla luce. Dio mio, gli dei nuragici si stanno risvegliando, pensai. Non lo dimenticherò mai».

Fin dagli anni ’60 e ’70, lei - cattolico, democristiano, consigliere regionale, preside della Facoltà di Lettere - condusse le battaglie, parte vinte, per la lingua sarda.

«Oggi non è più vietato usare il sardo nelle scuole e negli uffici. Quella battaglia è vinta ma non c’è ancora la sufficiente consapevolezza. Ricordo le polemiche col Pci, con l’amico Umberto Cardia, pure lui convinto autonomista: in quegli anni i comunisti non ne volevano sentire parlare di lingua sarda».

Che cosa non le piace della Sardegna di oggi?

«Mi dispiace la disunione. Il sardo ha una profonda dignità ma non un orgoglio forte, gli manca la coscienza di essere protagonista. Tende alla dipendenza culturale. Beninteso, quando parlo di orgoglio, penso a un orgoglio democratico, attento agli altri, senza chiusure».

Lei è convinto che i sardi, nonostante tante dominazioni, siano riuscuiti a conservare se stessi: una tesi che molti storici contestano, trovandola troppo ottimistica.

«Il sardo resiste anche perché è sospettoso, per i troppi domini sopportati. Anche oggi chiedere autogoverno e autonomia significa resistere».

Auguri, professor Lilliu. Tutta la Sardegna glieli farebbe volontieri, con riconoscenza e affetto.

«Grazie a tutti. Ora che sono vecchio ho acquisito nuove consapevolezze. Sento i limiti di me stesso, ammetto di aver fatto tanti errori ma molti li lo riconosciuti. Mi sono chiesto tante volte: che servizio ho reso all’archeologia? a che cosa serve l’archeologo alla società? La risposta mi è arrivata alcuni anni fa da un tema scritto da un bambino di una scuola elementare di Sassari.

Ecco le sue parole: I protosardi hanno combattuto contro il vento e lo hanno vinto perché hanno fatto delle costruzioni resistenti al vento. I sardi di oggi non piantano molti alberi perché dicono che il vento non lo permette. Ma se i sardi antichi ce l’hanno fatta, perché noi no?.Belle parole, vero?».

Lello Caravano


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