STORIA DEI REPORTER DI GUERRA

Dalle campagne di Bonaparte alle battaglie in Crimea fino alla guerra di

Secessione americana. E' su questi scenari che nasce un nuovo tipo di giornalista 

STORIA DEI REPORTER DI GUERRA:

 

IL PRIMO SEGUI' NAPOLEONE 

 

 

di ALESSANDRO FRIGERIO 

 

Se i recenti lutti tra le file dei giornalisti in Afghanistan o in
Medio Oriente non avessero riportato sotto i riflettori l'immagine del
reporter di guerra, che in prima linea, sfidando la sorte (e a volte
uscendone sconfitto), cerca di carpire briciole di verità nei teatri
più sanguinosi delle guerre del nostro tempo, qualcuno avrebbe potuto
pensare che questo mestiere fosse ormai al tramonto.

La carica di Balaclava venne descritta da Russell, del Times

Del resto i conflitti dell'ultimo decennio, dal Kuwait alla
Jugoslavia, all'Afghanistan, ci hanno insegnato che i margini di
manovra per i giornalisti di guerra sono sempre più risicati. Truppe di
reporter accreditati, tenuti a debita distanza dalla prima linea,
seguono i briefing dei militari e si limitano a diffondere,
rielaborandoli, i comunicati stampa ufficiali forniti dai comandanti
delle operazioni. I grandi reportages non si fanno più, come diceva
Egisto Corradi, con “con la suola delle scarpe“.

Ma è sempre stato così? Il mestiere del reporter di guerra è vecchio
di quasi due secoli. Ripercorrerne le origini appassionanti può forse
aiutare a capire meglio il presente e portarci a scoprire che con la
censura, le veline preconfezionate e la concorrenza di nuovi sistemi di
comunicazione i giornalisti hanno sempre dovuto confrontarsi. Ma
procediamo per ordine.

Forse il primo inviato di guerra (senza rimontare a Senofonte o a
Giulio Cesare) è stato Henry Crabb Robinson, spedito dal direttore del
Times, John Walter, a seguire la campagna Napoleonica contro la Prussia
all'inizio dell'800. Walter, senza badare troppo alle cerimonie e con
sufficienza tipicamente anglosassone, lo aveva inviato con queste
parole: “Ci racconti come vince le sue battaglie quel piccolo
imperatore francese. Le guerre dall'altra parte del Canale sono
piuttosto singolari“. Ma Robinson, forse perché non tagliato per la
rude vita militare, o forse perché poco tagliato per il giornalismo, si
rivelò un fallimento. La prima corrispondenza, dedicata alla battaglia
di Friedland in Lituania (14 giugno 1807), dove i Russi furono
sconfitti da Napoleone e costretti a chiedere l'armistizio che avrebbe
condotto alla pace di Tilsit, fu un fiasco clamoroso. Il pezzo inviato
al Times era monotono, noioso, privo di calore, poco più di un
bollettino dei fatti. Del resto l'inviato non si era nemmeno avvicinato
alla zona dello scontro. Rincantucciato comodamente nelle retrovie si
era limitato a raccogliere le descrizioni e i racconti di qualche
soldato che vi aveva preso parte, “cucinando“ maldestramente il tutto.
Nel 1808 Crabb Robinson fu inviato, sempre dal Times, a raccontare la
guerra napoleonica in Spagna, però al seguito della spedizione
britannica guidata dal duca di Wellington sbarcata sulle coste del
Portogallo. Ma ancora una volta si rivelò distratto, piuttosto
indolente (se non addirittura incapace) e poco felice nella capacità
descrittiva. Fu licenziato poco tempo dopo.

Se alcuni considerano Robinson il primo inviato di guerra - almeno
cronologicamente, perché sul piano dei risultati lasciò molto a
desiderare - altri individuano in Charles Lewis Guneison, l'inviato del
Morning Post che nel 1834 seguì la guerra civile spagnola scoppiata
alla morte di Ferdinando VII, un prototipo decisamente più completo. Se
non altro perché non esitò a esporsi e a indagare le ragioni dei
diversi fronti contrapposti. Finì anche in galera come spia e rischiò
la fucilazione da parte della fazione carlista (i seguaci del
pretendente al trono di Spagna, don Carlos, ostili alla nuova regina
Isabella II). Per trarlo dagli impicci dovette intervenire il governo
inglese, rassicurando i carcerieri che la curiosità di Guneison non
aveva nulla di politico, ma era solo l'ingrediente principale del suo
lavoro di giornalista.

Fin qui la protostoria degli inviati di guerra. Perché se sui due
nomi visti prima non c'è un accordo completo (Guneison però potrebbe
aversene a male, perché dimostrò di aver stoffa da vendere), su quello
di William Russell studiosi e giornalisti sono unanimi. Fu lui il primo
vero reporter di guerra, mandato dal direttore del Times, John Delane,
sui campi di battaglia di Crimea per fornire ai lettori i resoconti di
quel conflitto così lontano.

Un'azione delle truppe inglesi

nella guerra di Crimea

Il Times era ai tempi, ma lo è tuttora, autorevole espressione della
politica governativa inglese. Solo che fino ad allora le cronache di
guerra erano piuttosto raffazzonate, scritte da qualche ufficiale sul
posto oppure messe assieme da giornalisti o redattori sulla base di
notizie slegate, di testimonianze più o meno attendibili raccolte di
seconda o terza mano. Non erano articoli inviati in modo continuativo
bensì pezzi estemporanei. E soprattutto non facevano mai cenno alle
sconfitte. Essendo i principali autori gli ufficiali dell'esercito, mai
si sarebbero azzardati a riportare notizie di disfatte. Insomma, la
stampa faceva soprattutto da grancassa al governo.

Di origine irlandese, Russell era partito nella primavera del 1854
da Malta insieme al corpo di spedizione inglese, convinto di sbrigare
la faccenda in qualche mese. Ma non aveva fatto i conti con la
lunghezza di una guerra che, inaugurata nell'ottobre dell'anno
precedente da Russia e Impero Ottomano, aveva poi visto aggiungersi la
Gran Bretagna e la Francia, contrarie all'espansione russa verso i
Balcani, e anche il piccolo Regno di Sardegna. La fine delle ostilità
sarebbe stata sancita solo nel marzo 1856 con il congresso di Parigi.

Ma Russell non aveva fatto i conti nemmeno con il successo delle sue
corrispondenze. Il Times del 14 novembre 1854 pubblicò la sua
memorabile cronaca della disfatta dei 600, la brigata leggera
dell'esercito di sua Maestà che a Balaclava andò a infrangersi contro
le linee e le cannonate russe. “Alle undici e dieci, la nosra brigata
di cavalleria leggera avanzò trionfante nel sole del mattino, fiera in
tutto il suo bellico fulgore. Da una distanza che non era nemmeno di un
miglio, l'intero schieramento nemico vomitò da trenta bocche di fuoco
un inferno di fumo e fiamme. [...] A ranghi ormai ridotti, con una nube
d'acciaio sulla testa dei nostri uomini , e levando alto un grido che
per questi generosi era anche l'ultimo appello della morte, i
cavalleggeri si lanciarono dentro le nuvole di fumo; ma prima ancora
che si perdessero alla nostra vista, la pianura era punteggiata dei
loro corpi. [...] Alle undici e trentacinque , non un soldato inglese
restava davanti alla bocca dei sanguinari cannoni moscoviti“. Le
vendite del Times andarono subito alle stelle.

In breve tempo, con l'arrivo di Russell in Crimea le tirature
dell'austero foglio londinese raddoppiarono. Le condizioni di lavoro
non erano ideali, ma se non altro Russell non viveva l'ansia di finire
il pezzo entro la chiusura del giornale che oggi attanaglia anche
l'ultimo redattore. Il telegrafo si stava sviluppando proprio in quegli
anni, ma il metodo più sicuro per inviare un pezzo era la posta.
L'articolo era consegnato a un ufficiale di servizio, quindi a un
corriere, sempre dell'esercito, per lasciarlo alla più vicina stazione
di posta, da dove veniva inoltrato come si trattasse di una normale
lettera. La carica dei 600 avvenne il 25 ottobre, ma sul Times apparve
solo il 14 novembre.

La permanenza di Russell si allungò ben oltre i due mesi previsti,
raggiungendo alla fine i due anni. Il segreto del suo successo stava
semplicemente nella volontà di scrivere tutto ciò che vedeva, anche gli
aspetti meno nobili della guerra: il dolore, la sofferenza, i corpi
straziati dalle granate e le urla dei feriti prima di tutto; ma anche
gli errori dei generali, la presunzione e il pressapochismo di alcuni
comandanti del corpo di spedizione britannico. In breve, faceva il
cronista degli avvenimenti cui assisteva.

Per i vertici dell'esercito di Sua Maestà rappresentò una novità
poco piacevole la presenza di un borghese rompiscatole che andava a
ficcare il naso nella vita militare. Fino ad allora a parlar di cose
militari erano solo gli addetti ai lavori o gli uomini politici. Che
adesso arrivasse un giornalista, anche se di una testata prestigiosa
come il Times, a incrinare l'immagine monolitica, stereotipata e un po'
vanagloriosa dell'esercito pareva fuori da ogni regola. Nulla di
clamoroso, per carità. Riletti oggi i pezzi di Russell risultano di un
candore sorprendente. Tuttavia, anche lo sfoggio di una misurata
retorica (rispetto agli elevati standard dell'epoca) contribuirono a
mettere il giornalista in cattiva luce. Russell rischiava di
compromettere la secolare immagine dell'esercito britannico (osò
accennare all'ammutinamento di una brigata indiana). Alcuni ufficiali,
contrariati dalle sue cronache, vollero addirittura sfidarlo a duello.

Un'immagine della guerra di Crimea che Russell narrò sul suo giornale

Si trovò una soluzione cacciandolo dalla prima linea e imboscandolo
nelle retrovie. Ma anche questo sembrò non bastare. Durante la
permanenza di Russell entrò per la prima volta in funzione la censura.
Come ha scritto un inviato dei giorni nostri, Mimmo Candito, “le
istituzioni militari hanno sempre tentato di servirsi del potere dei
media per organizzare il consenso dell'opinione pubblica e per
influenzare le scelte dei governi. Il tentativo è stato praticato con
ogni spregiudicatezza, fino all'utilizzo strumentale dell'interesse
nazionale quando la possibilità di un giudizio critico mostrava di
metter fuori gioco gli obiettivi del potere militare. Russell fu il
primo protagonista di questo scontro“. Il febbraio del 1855 rimarrà una
data storica: per la prima volta un comandante dell'esercito, in questo
caso Sir Codrington, a capo della spedizione militare britannica,
impose il divieto di pubblicazione di notizie che potessero in qualche
modo tornare utili al nemico.

Non è un caso che la nascita della figura dell'inviato di guerra,
quindi di un giornalista slegato dalla scrivania e dai vincoli di
potere che si allacciano nelle redazioni, coincida con l'istituzione
della censura militare. Così come non è un caso che dalla guerra di
Crimea sia diventata prassi universale che i giornalisti che seguono un
esercito facciano legalmente parte di quell'entourage. Con tutti i
rischi connessi: se vengono catturati dalle forze nemiche devono essere
trattati alla stregua di prigionieri di guerra.

Ma il conflitto in Crimea segnò anche un'altra importante nascita:
quella del fotoreporter. Nel 1855 Roger Fenton, pittore e fotografo di
casa reale, fu inviato dal governo inglese per rimediare alle
avventatezze commesse di Russell. In pratica gli fu detto di fornire
una immagine “corretta“ della guerra, non troppo cruda e soprattutto
che si mostrasse benevola nei confronti dell'esercito di Sua Maestà. Il
risultato fu perfettamente in linea con le aspettative. Il reportage di
Fenton illustrò una guerra pulita, ordinata, con i soldati inglesi che
sfoggiavano divise sempre perfettamente inamidate. Il consenso
all'impresa guerresca in patria passò anche attraverso gli scatti
compiacenti di Fenton. Che certo non era un Robert Capa (del resto il
committente non era l'agenzia Magnum), ma che tuttavia fece un primo
passo, seppur timido e manierato, verso la fotografia di guerra.

A voler ben vedere, per trovare il primo vero fotoreporter in senso
moderno, (uno che come Russell, per intenderci, vuole trasmettere al
pubblico ciò che vede), bisogna aspettare qualche anno e spostarsi
dall'altra parte dell'Oceano Atlantico. La guerra di Secessione
americana, combattuta dal 1861 al 1866 tra gli Stati del Sud e quelli
del Nord, offrirà alla stampa l'opportunità di mettere in campo tutti i
suoi uomini migliori. Basti pensare che lungo i due fronti si
aggirarono più di 500 corrispondenti di guerra mandati da giornali di
tutto il mondo. Il New York Herald ne aveva, da solo, 63. Nel 1863
arrivò anche Russell, l'eroe della Crimea, il Peter Arnett del XIX
secolo. La sua fama era così universalmente riconosciuta che il
presidente Lincoln lo volle ricevere per chiedergli consigli di
strategia militare.

Dicevamo del primo vero fotoreporter moderno. Il suo nome è Mathew
Brady. A differenza di Fenton, Brady non aveva vincoli con le
istituzioni ufficiali, ma solo con i lettori del suo giornale.
Realizzerà straordinari reportages fotografici sulla guerra civile,
immortalando la realtà dura e cruda degli scontri, degli accampamenti
devastati dopo un attacco, delle morti scomposte e dei corpi amputati.

Sul piano della parola scritta, invece, la guerra di Secessione
evidenziò tutti i problemi e i vizi del rapporto tra il potere militare
e i media. Edward Crapsey del Philadelphia Inquirer, fece delle
corrispondenze molto pungenti. L'obiettivo delle sue critiche velenose
era il generale George Meade, che era convinto di essere uno stratega
di grande caratura. Dopo l'ennesimo articolo che smontava l'alta
immagine che aveva di sé, il generale espulse il giornalista
caricandolo su un mulo e piazzandogli al collo un cartello con la
scritta: “Giornalista calunniatore“. Come estremo supplizio, Crapsey fu
fatto sfilare davanti a tutte le truppe. La replica, tuttavia, non si
fece attendere. Tutta la categoria dei giornalisti americani si
coalizzò infatti contro il burbero militare, che da quel giorno
scomparve letteralmente dalle cronache militari. Poca cosa, si dirà. Ma
se si pensa che il generale sperava di fare delle sue gesta il
trampolino di lancio per la candidatura alla presidenza degli USA, il
danno alla sua immagine fu notevole.

La guerra di Secessione americana: la seguirono 500 giornalisti

Decisamente più astuto fu invece il generale Ulysses Grant.
Consapevole della necessità di godere di buona stampa, per tutta la
guerra di Secessione si portò dietro l'inviato del New York Herald,
Sylvanus Cadwallader, coccolandolo e cercando di lusingarlo come meglio
poté.

La guerra di Secessione americana introdusse numerose novità anche
per quanto riguarda gli strumenti del mestiere. Fu istituzionalizzato
l'uso del telegrafo per inviare gli articoli. A beneficiarne furono
soprattutto i giovani giornalisti che ne approfittarono per surclassare
i colleghi delle vecchia guardia. La stella di Russell tramontò proprio
con l'avvento del nuovo marchingegno. Lo stile dei reportage doveva
farsi scarno e immediato per adeguarsi a ritmi di lavorazione sempre
più frenetici. Russell era abituato invece a tempi e metodi di
scrittura molto lunghi, quasi letterari. Con il telegrafo si doveva
lavorare in tempo reale e un direttore non poteva permettersi di bucare
una notizia nell'attesa che il suo corrispondente di punta terminasse
di abbellire il suo pezzo.

Altra novità fu la nascita dell'Associated Press, la prima agenzia a
raccogliere e a fornire notizie (anche se non sempre ben documentate e
talvolta nemmeno veritiere) per le testate abbonate. Lo staff fu
allestito più che facendo affidamento su buoni giornalisti o
informatori, su personale che sapesse battere velocemente il tasto del
telegrafo.

Nello stesso periodo, cioè intorno alla metà del XIX secolo, il
giornalismo italiano era decisamente più “ingessato“. Nei quotidiani e
nei periodici le “firme“ erano soprattutto notai, avvocati, uomini
politici, insegnanti, medici e qualche scrittore. Il linguaggio
oscillava senza troppe alternative tra l'arringa in stile forense e lo
slancio patriottico altrettanto gonfio di retorica.

La confezione dei giornali italiani dell'epoca era molto semplice.
Si trattava di fogli di informazioni, più spesso di semplici bollettini
assemblati con le notizie locali e quel poco che arrivava dal resto del
Paese. Le notizie fresche erano pochissime e anche dopo l'unità
d'Italia i “dispacci particolari“ che arrivavano dal ministero
dell'Interno erano estremamente lenti, imprecisi e irregolari nella
frequenza. Le altre notizie provenienti dal resto d'Italia erano frutto
di corrispondenze riferite a fatti di almeno cinque o sei giorni prima,
che uscivano con il sottotitolo di “Ritardata“. Si dovrà aspettare il
1876 perché i quotidiani italiani incomincino a dotarsi di un servizio
telegrafico speciale. Le notizie dall'estero venivano pubblicate con
ritardi ancora superiori e in molti casi, più che di corrispondenze si
trattava della rimasticatura di qualche avvenimento scopiazzato dai
giornali stranieri.

Per individuare esempi italiani di inviati di guerra (campioni
tuttavia ancora imperfetti e decisamente grossolani) bisogna fare
riferimento alla spedizione dei Mille, nel maggio del 1860. Tra i
seguaci di Garibaldi che parteciparono all'avventura partita da Quarto,
molti inviarono corrispondenze sui fatti d'arme in cui erano coinvolti.
Ricordiamo qui Francesco Bartolomeo Savi, che inviava all'Unità
d'Italia, focoso foglio di ispirazione mazziniana, roboanti
ricostruzioni delle battaglie affrontate dall'esercito garibaldino.
Oppure si possono citare le corrispondenze di Osvaldo Viani, ex camicia
rossa garibaldina, che partecipò alla Comune di Parigi del 1870 e offrì
le sue corrispondenze a Il Dovere di Genova.

Forse il primo “inviato speciale“ di un giornale italiano - giunto
quindi sul posto con quella qualifica e non come parte in causa degli
avvenimenti - fu un giornalista della Gazzetta del Popolo che nel 1869
partì alla volta di Suez per assistere alla cerimonia inaugurale del
canale. Certo, non c'era nessuna guerra a rendere incandescente la sua
missione, tuttavia il suo esempio introdusse nei quotidiani italiani la
regola di mandare propri osservatori a seguire avvenimenti all'estero.

Alcuni anni dopo, nel 1877, fu Il Secolo, quotidiano milanese
portavoce dell'opposizione costituzionale alla destra storica, a
inviare all'estero il primo nutrito staff giornalistico. Era in corso
la guerra russo-turca, che si svolgeva nelle allora lontane lande
dell'attuale Bulgaria. Il Secolo inviò sul posto giornalisti esperti
nell'arte della guerra e disegnatori (non ancora fotografi) che
facessero schizzi e mappe delle più importanti battaglie.

Un combattimento fra sudisti e nordisti nella guerra civile americana

Anche il Corriere della sera fu uno dei primi a mandare in giro veri
corrispondenti. Assieme ai bersaglieri sbarcati a Massaua nel 1887 in
risposta all'eccidio di Dogali, giunsero anche i giornalisti Vico
Mantegazza e Adolfo Rossi, che faranno una dettagliata cronaca della
Guerra d'Africa e della prima vera avventura coloniale dell'Italia
unita. “L'Africa quale emergeva dai loro servizi - scrive Valerio
Castronovo - risentiva di molte suggestioni di colore e oleografiche.
Alle valutazioni politiche speso fecero velo deformazioni e sentimenti
personali di natura schiettamente colonialista o di sociologismo
pseudoscientifico. Ma atteggiamenti del genere costituirono, in ultima
analisi, la chiave del successo editoriale di numerosi giornali“.

E' a partire da questi anni che i “redattori viaggianti“ italiani (o
“articolisti viaggianti“, come venivano inizialmente definiti gli
inviati speciali) diventano una schiera sempre più numerosa e sempre
più profumatamente remunerata. E i costi per le trasferte aumentano di
conseguenza. Il viaggio di Mantegazza in Africa nel 1887, durato cinque
mesi, costò al Corriere 18.000 lire: più del 15% della spesa prevista
in bilancio per l'intera redazione.

Verrà poi l'epoca dei grandi inviati alla Luigi Barzini, ma ormai la
stagione pioneristica dei reporter di guerra si era conclusa. Il
mestiere era ormai ben definito, e con questo i trucchi e le abilità
per ben figurare davanti al direttore o bruciare sul tempo la
concorrenza. Si racconta che durante la guerra franco-prusiana del 1870
Archibald Forbes del London Daily News scrisse di una battaglia
decisiva alle porte di Parigi il giorno prima che lo scontro avesse
luogo, grazie alle anticipazioni di un informatore. Con lo stesso
stratagemma Fred Ferguson, corrispondente dell'United Press sul fronte
francese durante la prima guerra mondiale, descrisse minuziosamente con
24 ore di anticipo le fasi di un poderoso attacco alleato davanti
Nancy.

Se dai tempi eroici di Russell molte cose, soprattutto a livello
tecnologico, sono cambiate, una resta pressoché immutabile. La
complessità della figura dell'inviato di guerra. Come allora non
esistono scuole di formazione. Nella sua professionalità intervengono
la preparazione culturale, una buona dose di “agganci“ e tanta
intraprendenza. Scrive Mimmo Candito, grande inviato de La Stampa, che
“il corrispondente di guerra deve anche saper essere un reporter, il
migliore, il più attento, e sveglio, dei reporter. Deve cercare i
fatti, e raccontarli, anche quando nessuno parla, o quando le bombe ti
piovono addosso, o quando ti minacciano che se scrivi quella roba lì ti
espellono dal fronte“. Una professionalità, gli fa eco Ryszard
Kapuscinski, un altro “grande“ dei giorni nostri, che non può essere
esente da una giusta dose di passione: “Il corrispondente di guerra è
una professione, o una missione che presuppone una certa comprensione
per la miseria umana. Che esige simpatia per la gente“. 

 

BIBLIOGRAFIA

I reporter di guerra. Storia di un giornalismo difficile da
Hemingway a Internet, di Mimmo Candito - Baldini&Castoldi, Milano
2002

La stampa italiana dall'Unità al fascismo, di Valerio Castronovo - Laterza, Bari 1984

Vita vagabonda, di Luigi Barzini - Rizzoli, Milano 1959

Il dio della guerra, di Paul Knightley - Garzanti, Milano 1978

Storia e linguaggio dei corrispondenti di guerra, di Glauco Licata - Miano, Milano 1972