Elena
Cortesi
Poteri centrali e periferici di fronte
allo sfollamento di massa: il caso
della provincia di Forlì, 1940-1944
|
Come reagì la struttura accentratrice
e totalitaria del regime fascista italiano
di fronte all’emergenza bellica?
Già nel 1995 Luca Baldissara concludeva,
analizzando il caso di bolognese, che
tra il ’40 e il ’45 le necessità
e le urgenze che drammaticamente condizionavano
la vita nella penisola ampliarono e rafforzarono,
velocemente e da subito, non
normativamente ma di fatto, gli ambiti di
intervento e le funzioni di coordinamento
delle amministrazioni locali, riassegnando
a esse, nell’attività quotidiana,
una centralità che la costruzione
dello Stato fascista aveva via via compromesso
[1].
Anche i miei studi su una
delle più diffuse e importanti emergenze
provocate
dalla guerra nell’intera penisola,
quella dello sfollamento, mettono in
luce numerose e crescenti (nel numero e
nella gravità) contraddizioni, smagliature
e mancanze nei tentativi del regime di organizzare,
coordinare e controllare dall’alto,
totalmente, la vita del paese, in ogni suo
aspetto, lungo tutti gli anni di guerra,
e ritengo rivelino che, di fronte a un potere
centrale in grave difficoltà, gli
amministratori periferici (in particolare
quelli statali e municipali) dovettero agire
di propria iniziativa e non di rado in piena
autonomia [2].
Con l’idea che analizzare
da vicino il rapporto tra poteri centrali
e poteri periferici negli anni della seconda
guerra mondiale possa dare un contributo
significativo alla storia del regime fascista
(e dei totalitarismi) e anche a quella degli
italiani in guerra, in quanto le modalità
di interazione di questi poteri influì
inevitabilmente e profondamente sulla loro
quotidianità, in questo mio contributo
punterò l’attenzione sugli
organi che al centro e localmente si occuparono
di gestire gli aspetti organizzativi, politici
e assistenziali dello sfollamento e interagirono
tra loro, quasi mai linearmente e di rado
serenamente, determinando così le
coordinate di fondo di quel fenomeno e di
quella esperienza nell’ambito della
provincia di Forlì.
Un caso di studio, quello
del Forlivese (con questo temine farò
riferimento sempre a quello che era allora
l’intero territorio provinciale, comprendendo
quindi anche l’attuale provincia di
Rimini), particolarmente interessante, poiché
questa parte di Romagna, per le sue infrastrutture
turistiche, già allora in pieno sviluppo,
e per la marginalità economica e
militare, divenne involontariamente uno
dei principali luoghi di destinazione degli
italiani che fuggivano dalle zone distrutte
e/o minacciate dagli attacchi aerei. Tanto
che tra il novembre ‘42 e l’agosto
’43, 20.848
persone provenienti da tutta la penisola
vi si riversarono, concentrandosi soprattutto
nei principali comuni costieri (quello di
Rimini in particolare). Nei mesi successivi,
poi, l’evacuazione forzata (ordinata
dai tedeschi) o volontaria dalle zone poste
in prossimità del fronte militare
accrebbe il numero degli “stranieri”
presenti di altre 10.000 unità circa.
Nel frattempo (siamo nell’autunno
del ’43) l’intera provincia
diveniva una zona di primaria importanza
strategica sia per i tedeschi (che vi costruirono
l’estremità adriatica della
linea Gotica nonché una linea di
fortificazione lungo la costa per coprirsi
le spalle da eventuali attacchi dal mare)
sia per gli angloamericani (ai quali offriva
un corridoio pianeggiante per entrare nella
pianura padana).
Volendo analizzare i rapporti
tra organi centrali del regime e poteri
locali di fronte allo sfollamento in questa
fetta di Romagna diviene inevitabile articolare
l’analisi sovrapponendo sei piani
cronologici: “i fatti” nazionali
(primo fra tutti l’8 settembre ’43
che portò in tutta la penisola, e
anche nel Forlivese, profondi e successivi
cambi di protagonisti e ruoli); quelli locali
(per esempio l’inizio dei bombardamenti
sulle tre maggiori città della provincia);
le fasi della gestione centrale dello sfollamento;
quelle della gestione locale; il modificarsi
spontaneo del “fenomeno sfollamento”
nell’intera penisola; la sua evoluzione
nel Forlivese. Semplificando molto si delineano
quattro fasi contemporaneamente cronologiche
e tipologiche, non però nettamente
separate tra loro.
Il “primo sfollamento”,
giugno ’40 - autunno ’42
Nel giugno ’40 e nei
primi mesi successivi all’entrata
in guerra, il fenomeno di
fuga dai grandi centri urbani immediatamente
e spontaneamente iniziato coi primi
bombardamenti [3],
non venne considerato dal regime come un
“problema”, ma come una utile
precauzione da sollecitare. Di sfollamento
delle città con più di 100.000
abitanti si era infatti parlato in Italia
fin dall’inizio degli anni Trenta
quando il Comitato centrale interministeriale
per la protezione antiaerea (CCIPAA) –
organo dipendente in un primo momento dal
ministero dell’Interno (MI) poi da
quello della Guerra e ramificato localmente
in Comitati provinciali presieduti dai prefetti
– aveva iniziato a studiare le basi
organizzative di un sistema di protezione
della popolazione civile dai bombardamenti
aerei e si era immediatamente reso conto
dell’impossibilità, dovuta
a motivi logistici, economici e psicologici,
di
garantirne uno realmente efficace, soprattutto
nelle città più grandi. Già
nel ’31 l’allora responsabile
del CCIPAA, il generale Giannuzzi Savelli,
aveva così affermato che il provvedimento
più sicuro sarebbe stato quello di
diminuire la
popolazione da proteggere [4].
Su questa linea tra il ’34
e il ’39 erano state approntate una
serie di norme generali – che dovevano
essere contestualizzate dai prefetti con
apposite direttive locali –, poi definite
Piano di diradamento della popolazione
civile, che alla base, però,
non avevano alcun vero “piano”,
ma solo l’idea che per “diradare”
la popolazione cittadina sarebbe bastato
stimolare e riuscire a gestire lo sfollamento
di solo una parte di essa e internamente
ai territori provinciali, anzi per lo più
limitatamente ai contadi, possibilmente
solo serale e con predominanti caratteristiche
di spontaneità e autosostentamento.
Costruito su questa ipotesi, il Piano
di diradamento lasciava tutta l’organizzazione
e la gestione dello sfollamento nelle mani
delle autorità locali: gli aspetti
politico-organizzativi (cioè, in
pratica, la funzione di coordinamento e
controllo superiore) erano affidati alle
prefetture, quelli logistici e assistenziali
(cioè la vera gestione quotidiana,
anche economica) ai municipi.
Ciò che più
sorprende e qui più ci interessa
è che tale impostazione e l’idea
su cui si reggeva – nate da una grave
sottovalutazione del problema del tutto
affine e strettamente collegata alla superficialità
con cui il regime affrontò ogni aspetto
della protezione dei civili dagli attacchi
aerei – sembrano essere rimaste alla
base della gestione centrale dello sfollamento
anche negli anni successivi, continuando
a scaricare gran parte delle decisioni e
delle responsabilità in materia di
sfollamento “sulle spalle” di
prefetti e podestà. La mancata elaborazione
al centro, lungo tutti gli anni del conflitto,
di un vero piano che, sia a livello nazionale
sia locale, fornisse norme chiare, prevedesse
il coinvolgimento di più protagonisti
(enti, istituti, organi del partito), delineando
precisi ruoli e magari offrendo i mezzi
necessari, stupisce ancora di più
se si considera che fin dall’estate
del ’40 le norme che componevano il
Piano di diradamento si dimostrarono insufficienti
e troppo vaghe, tanto che in quel luglio
il MI era costretto a ordinare ai prefetti
di bloccare ogni spostamento di popolazione
e anche di favorire il ritorno alle loro
case di coloro che erano già sfollati.
Insomma, le autorità, centrali e
locali, si erano subito trovate in difficoltà
nel gestire quella che era stata davvero
una fuga geograficamente circoscritta, ma
quotidiana e più ampia e disordinata
del previsto, nonché attuata soprattutto
da sfollandi bisognosi di tutto [5].
Nei due anni successivi (estate
’40-autunno ’42), comunque,
poco altro venne detto e fatto, sia al centro
sia in periferia, in tema di sfollamento.
Non perché l’ordine ministeriale
del luglio ’40 fosse riuscito a fermare
del tutto la fuga dalle città bombardate,
ma perché questa interessava, alternativamente
e a singhiozzo, solo alcuni centri urbani
della penisola e tendeva a rimanere localizzata
[6].
Seconda e terza fase
dello sfollamento: autunno ’42-settembre/novembre
’43
Quando, tuttavia, nell’ottobre
’42, l’offensiva aerea nemica
si scatenò con una violenza e intensità
nuove, in particolare sulle città
del nord, il Piano di diradamento
fu nuovamente tirato fuori dal cassetto.
Ma nell’autunno-inverno ’42
la situazione che si venne velocissimamente
a creare era assai diversa da quella
ipotizzata dal regime negli anni ’30
e anche da quella che si era tentato di
affrontare nel ’40: a spostarsi, a
volte (dove era ancora possibile trovare
accoglienza) nel corto raggio comunale e/o
provinciale, ma anche e sempre più
spesso per grandi distanze, era una crescente
massa di italiani in fuga, per lo
più senza altro che gli abiti indossati,
spinti dalla paura, o dal non avere più
una casa, o dalla difficoltà di vivere
in città i cui servizi stavano saltando
per aria, e soprattutto dalle riattivate
e continue sollecitazioni a sfollare
provenienti dai vertici del regime, ancora
inermi di fronte alla necessità di
difendere la popolazione dagli attacchi
aerei. Il duce stesso il 2 dicembre ’42,
alla Camera dei fasci e delle Corporazioni,
recuperava e ricordava una propria
frase di cinque anni prima: «Bisogna
sfollare le città. Soprattutto dalle
donne
e dai bambini». E il giorno successivo
scriveva ai prefetti chiaramente
incaricandoli di assumere la gestione dello
sfollamento:
Avete udito il mio appello
mettetevi all’opera perché
gli sfollandi abbiano la prova, col minimo
di burocrazia, che nel tempo fascista la
solidarietà nazionale si attua in
forme concrete, sollecite, generose, sono
sicuro che lo farete e informatemi. Mussolini
[7].
Il 4 dicembre l’Ispettorato
per i servizi di guerra del MI (ISG) inviava
a tutti i prefetti un Riassunto delle
disposizioni impartite in tema di sfollamento
e di assistenza alle popolazioni sfollate
che iniziava con queste parole:
Nel recente suo discorso
il duce ha ancora una volta ammonito perché
si provveda in modo rapido allo sfollamento
dei maggiori centri urbani e delle città
industriali fatte bersaglio dalle offese
nemiche. Tale esortazione, che per noi
è un ordine, non ha bisogno di
commento. […] confido che i prefetti
vorranno intervenire con la più
ampia opera di persuasione per stimolare,
agevolare ed accelerare lo sfollamento
volontario di quella parte della popolazione,
la cui presenza nei grandi agglomerati
urbani o nei centri industriali, soggetti
alle offesa nemica non sia giustificata
da alcuna particolare ragione inerente
all'attuale stato di guerra [8].
Il Riassunto univa
le vecchie norme del Piano di diradamento
(coi pochi aggiustamenti apportati a esso
tra il ’40 e il ’42) a una serie
di nuove indicazioni che l’ISG aveva
elaborato e diramato in tutta fretta tra
l’ottobre e la fine di novembre ’42
e che riguardavano in particolare l’accoglienza,
la sistemazione e il sostentamento degli
sfollati – quest’ultimo affidato
agli Enti comunali di assistenza –,
oltre a un tortuoso iter burocratico che
doveva accompagnare chi sfollava in modo
da offrire al regime la possibilità
di seguire ogni minimo spostamento di popolazione
e così ridistribuire adeguatamente
le risorse (prodotti tesserati, tessere,
appositi finanziamenti), come se quest’ultima
ulteriore complicazione fosse tranquillamente
risolvibile nell’ormai totale crisi
del sistema di approvvigionamento [9].
Appare comunque invariata,
in queste nuove indicazioni, l’idea
che spettasse principalmente alle autorità
locali occuparsi di sfollandi e sfollati.
In un riepilogo delle principali «norme
sulla disciplina dello sfollamento ed assistenza
alle popolazioni sfollate», per esempio,
inviato sempre il 4 dicembre ’42 dall’Ufficio
assistenza dell’ISG ai prefetti, si
legge: «i Podestà in ogni Comune
sono i soli responsabili di tutta l’organizzazione
di ricezione e sistemazione e assistenza
degli sfollati» [10].
Ai prefetti venne inoltre riconosciuta la
facoltà di intervenire coattivamente,
se necessario, senza approvazione superiore,
per recuperare alloggi, vestiti, coperte
e ogni altra cosa indispensabile alla sopravvivenza
degli sfollati [11].
Facoltà che dal marzo ’43,
per quanto riguardava gli alloggi, i prefetti
poterono anche delegare direttamente ai
podestà [12].
Sempre osservando la situazione dal Forlivese,
dal novembre-dicembre ’42 all’estate
’43 le disposizioni centrali riguardanti
lo sfollamento si susseguirono senza sosta
ma, almeno così sembra, ancora senza
una vera logica organizzativa. L’idea
che si ricava dalla documentazione è
quella di una “corsa” a risolvere
in modo disordinato e affannoso i problemi
che i prefetti italiani, alternativamente
e sempre più drammaticamente, segnalavano.
E in questa corsa gli uffici romani giungevano
molto spesso in ritardo rispetto ai provvedimenti
che il prefetto forlivese e/o i suoi podestà
avevano già dovuto adottare per fronteggiare
il veloce evolversi dell’emergenza.
Tanto che non di rado le direttive ministeriali
finivano per costituire un problema ulteriore,
poiché costringevano gli enti locali
a riorganizzare in base ai criteri centrali
ciò che seguendo criteri locali era
già stato in tutto o in parte approntato.
Una tale intempestività scatenava
l’insofferenza dei podestà
sui quali, come sappiamo, ricadeva tutta
la gestione logistica ed economica quotidiana
del “problema sfollamento”.
Le loro proteste giungevano sul tavolo del
prefetto che, dai documenti conservati negli
archivi della prefettura forlivese, appare
sì un ligio rappresentante dello
Stato, e quindi pronto a ribadire le disposizioni
centrali, ma con un’indole pragmatica
assai forte che lo portava anche a perorare
le cause dei propri podestà presso
gli uffici ministeriali (questa considerazione
vale indubbiamente per Marcello Bofondi,
che guidò la provincia di Forlì
in questo periodo, fino all’agosto
‘43, ma ritengo si possa estendere
anche al prefetto successivo Florindo Giammichele).
Dal canto loro, però,
gli organi statali erano del tutto sordi
ai problemi particolari ed esclusivamente
intenti a cercare di affrontare la “questione
sfollamento” esclusivamente tenendo
conto dei problemi finanziari dello Stato,
di quelli politici interni e internazionali
e soprattutto delle esigenze di mobilitazione
e di produzione bellica. Cosicché,
come sottolinea anche Mauro Maggiorani [13],
l’incongruenza tra l’astrattezza
delle disposizioni centrali e il dramma
quotidiano divenne velocemente assoluta.
Ricadeva pertanto sulle spalle
del prefetto e soprattutto dei podestà
l’urgenza di trovare e organizzare
soluzioni realistiche alle emergenze che
il continuo arrivo di sfollati innescava
localmente. Soluzioni realistiche, ma che
al tempo stesso non dovevano essere in contrasto
con le direttive nazionali, e questo era
un compromesso non sempre facile da raggiungere.
In questo “quadro”
non vi era quasi traccia del partito. A
esso, ai suoi organi femminili e giovanili
in particolare, le norme del novembre-dicembre
’42 affidavano la gestione dello sfollamento
volontario dei bambini dalle
città bombardate (oltre a compiti
di prima assistenza verso gli sfollandi
che giungevano nelle stazioni ferroviarie),
concedendo in questo settore totale autonomia
gestionale pur all’interno di un rapporto
di collaborazione con i poteri locali. Nel
Forlivese, in quell’autunno-inverno
’42 come nel successivo evolversi
drammatico e veloce dell’emergenza,
in realtà il Pnf non sembra avere
alcuna voce in capitolo e ben poca capacità
d’iniziativa. Ciò sembra confermare,
almeno per la provincia di Forlì,
l’ipotesi avanzata da Baldissara di
un progressivo sostituirsi, nel corso del
conflitto, degli enti locali (in particolare
dei comuni) al partito [14].
Cosa che invece non avvenne, o non avvenne
del tutto, a quanto pare, ad esempio nel
vicino Pesarese dove il Pnf cercò
fino all’ultimo di avere un ruolo
di rilievo nella gestione dei problemi locali,
ponendosi anche, a volte, in contrasto col
prefetto nel tentativo di ricompattare attorno
al fascismo e al regime la fiducia della
popolazione “indigena” e pure
degli sfollati “stranieri” [15].
L’autonomia che gli enti locali,
soprattutto i comuni, si trovarono ad avere
nella gestione dello sfollamento fece sì
che all’interno della provincia forlivese
realtà contraddistinte da maggiori
capacità d’iniziativa, prontezza
ed efficacia organizzativa si alternassero
ad altre in parte o del tutto in passiva
attesa dell’intervento prefettizio.
E Bofondi (ma anche, successivamente, Giammichele),
dovendo intervenire a colmare e a coordinare,
tendeva a far proprie e a diffondere le
soluzioni elaborate dalle municipalità
più efficienti. Tanto che la maggior
parte della corrispondenza prefettizia di
quel periodo attorno al problema dello sfollamento
che ho trovato e analizzato nel fondo del
gabinetto di prefettura lega il capo della
provincia al commissario di Rimini, Eugenio
Bianchini. Fu soprattutto quest’ultimo,
infatti, che, sia perché si trovò
ad affrontare la fetta quantitativamente
più ampia del problema, sia per le
sue evidenti capacità “manageriali”,
sia perché probabilmente aveva a
disposizione risorse economiche e umane
più efficaci, diede progressivamente
la propria impronta alla gestione dello
sfollamento in tutta la provincia.
Fin dal novembre ’42, a partire dalle
frettolose e insufficienti norme centrali
[16],
Bianchini era riuscito a creare un’organizzazione
dell’ accoglienza degli sfollati
davvero minuziosa , coinvolgendo gran parte
degli uffici ed enti che aveva a disposizione
e dando a essi autonomia e potere. Alla
Direzione servizi turistici dell'Azienda
di soggiorno, per esempio, aveva affidato
il compito particolarmente importante e
difficile del reperimento degli alloggi
e per tale ruolo aveva dato a essa la piena
facoltà di disporre d’ufficio,
autonomamente, la riapertura degli alberghi
e delle pensioni esistenti nel comune man
mano che se ne fosse presentata la necessità
[17].
A emanare ordini di requisizione di appartamenti
e case private, e anche di coperte e stufe
giacenti presso commercianti all’ingrosso
e al minuto, provvedeva invece Bianchini
stesso, prima del marzo ’43 chiedendo
di volta in volta l’intervento prefettizio,
poi autonomamente [18].
Nell’intera provincia la situazione
e i meccanismi tra poteri sin qui descritti
rimasero sostanzialmente immutati fino al
settembre ’43 nonostante il cambio
al vertice della prefettura, alcuni avvicendamenti
a capo dei comuni [19]
e anche l’improvviso tentativo del
regime di attuare una completa inversione
di rotta.
Se nel novembre ’42, infatti, era
in qualche modo parso possibile gestire
il crescente sfollamento spontaneo e addirittura,
come abbiamo visto, sollecitarlo, solo tre
mesi più tardi la vastità
raggiunta dal fenomeno e i gravi problemi
che esso stava creando sia nelle città
abbandonate sia nei luoghi di arrivo, costrinsero
il regime a tentare di bloccarlo. Non solo:
tutti coloro che erano già sfollati
dovevano essere risospinti verso i luoghi
d’origine. Il nuovo sottosegretario
all’Interno, Umberto Albini, così
scriveva a tutti i prefetti il 19 febbraio
’43, pochi giorni dopo la propria
nomina:
Situazione creatasi in questi
ultimi tempi at causa accentuate azioni
aeree nemiche at centri urbani ha dimostrato
che non est assolutamente possibile trasferire
et sistemare convenientemente in altre
zone larghe masse popolazioni che sfollano
da località colpite date scarse
capacità ricettive deficienza mezzi
trasporto et difficoltà inerenti
at servizi alimentari et provvista materiali
vari occorrenti per sistemazione sfollati
stessi punto [...] Conseguentemente presi
gli ordini superiori si dispone due punti
Popolazioni debbono continuare at rimanere
nei centri urbani sottoposti at offese
nemiche punto Prefetti dovranno limitare
sfollamento at famiglie bisognose che
at seguito bombardamenti siano rimaste
senza tetto [...] et poiché sfollamento
sarà così ridotto at poche
migliaia incursionati est necessario sistemarli
ambito rispettiva provincia punto Uomini
validi at lavoro dovranno rimanere zone
colpite et a cura Prefetti sarà
provveduto at loro sistemazione punto
Assistenza sarà praticata solo
at persone bisognose sfollate per ordine
Prefettura punto [...] Popolazioni precedentemente
sfollate da località colpite dovranno
essere opportunamente sollecitate at rientrare
loro residenze sempre che loro abitazioni
non siano distrutte avvertendole che a
datare dal trentuno marzo ogni forma assistenza
at loro favore verrà a cessare
punto [20].
In un altro comunicato del 20 marzo ’43
[21]
il ministero chiariva che un
ulteriore esodo di popolazioni non poteva
essere attuato a causa dell'esaurita capacità
ricettiva delle province, dell'insufficienza
dei mezzi di trasporto ferroviari e automobilistici,
delle difficoltà inerenti all'organizzazione
dei servizi alimentari nelle zone di afflusso
degli sfollati, dei problemi di tipo igienico-sanitario
provocati dall'eccessiva densità
di popolazione in alcune zone e della stasi
quasi completa della vita industriale, commerciale
e amministrativa che si determinava nelle
città bombardate. Per questi motivi,
ribadiva il comunicato, lo sfollamento doveva
essere limitato ai senza-tetto che non potessero
essere sistemati in locali disponibili nella
stessa zona bombardata. Poteva però
essere ancora consentita la partenza delle
persone che disponevano di mezzi propri
per il viaggio e la sistemazione. Ovviamente
questi provvedimenti non vennero accolti
con favore da coloro che, spinti dalla paura,
dalle distruzioni, dal desiderio di una
vita più tranquilla, lontana non
solo dal pericolo, ma anche dalla costante
visione della morte, si apprestavano ad
abbandonare i centri urbani, e ancor meno
dai tanti sfollati che avevano ormai trovato
rifugio in luoghi più sicuri. Nella
relazione settimanale del 21 maggio ’43,
per esempio, la Commissione forlivese di
censura postale scriveva:
Fra gli sfollati si è diffusa la
notizia che dovranno ritornare nelle provincie
di origine ove saranno sistemati nelle campagne.
Tale voce ha dato luogo a viva
preoccupazione [22].
Nella consapevolezza dell'impopolarità
di quelli che apparivano ora al ministero
provvedimenti necessari e improrogabili,
i capi delle province venivano sollecitati
a far leva, con l’aiuto del partito,
sui sentimenti di orgoglio e di patriottismo
delle popolazioni. Nella campagna propagandistica
appositamente coniata, a partire specialmente
dal ’43, le città dovevano
essere assimilate alla prima linea del fronte
I Prefetti, avvalendosi anche della collaborazione
del Partito, procureranno di
suscitare nell'animo del popolo l'orgoglio
di sentirsi custode e difensore delle
proprie case, delle proprie aziende, delle
proprie città, avvicinandolo sempre
più, in un comune, alto sentimento
di civismo e di sacrificio, ai combattenti
che tutto offrono e tutto sopportano per
i supremi ideali della Patria in armi
[23]
Questo era ora il messaggio che doveva sostituire
quello del ’39-’42: “le
città
si difendono dalle offese aeree vuotandosi”.
Ma da una relazione inviata da Bianchini
al prefetto il 23 settembre ’43 si
deduce che ancora dopo sei mesi nel territorio
forlivese il tentativo di frenare
l’arrivo di nuovi sfollandi e di allontanare
quelli già ospitati aveva dato
assai scarsi risultati:
Continuano tuttora a giungere nel territorio
di questo Comune numerosi sfollati,
provenienti non solo dalle provincie dell'Italia
centrale ma anche da località
dell'Italia settentrionale, i quali domandano
alloggio ed assistenza, esaurendo
da un lato, ormai completamente ogni residua
capacità ricettizia locale ed
aggravando, dall'altro, sempre più
gli ingenti oneri di spesa a carico
dell'esausto bilancio dello Stato. Allo
scopo di ovviare quanto è più
possibile
ai suddetti inconvenienti, da parte dei
competenti Uffici viene posta ogni cura
nel cercare di risospingere verso le rispettive
città tali fiotti di gente, sia
facendo opera ragionata e intelligente di
persuasione sia, nei dovuti casi,
rifiutando o frapponendo difficoltà
e limitazioni sia nei riguardi della
concessione che della durata dell'assistenza
[...] [24].
Nel frattempo, come è
noto, l’Italia aveva vissuto alcuni
dei momenti più significativi della
propria storia – lo sbarco angloamericano
sulla penisola, il 25 luglio, l’8
settembre e, proprio nei giorni in cui Bianchini
scriveva, la nascita della Rsi – ma
tra essi solo l’avanzare del fronte
da sud (e i bombardamenti che lo accompagnarono)
e l’occupazione tedesca sembrano avere
un qualche effetto sul problema e la gestione
dello sfollamento. Quasi per nulla significativi
risultano i passaggi dal governo di Mussolini
a quello di Badoglio e poi al “nuovo”
regime fascista. D’altro canto, nei
45 giorni badogliani furono davvero poche
nel Forlivese le sostituzioni di podestà
(e anche di altri amministratori locali)
«che, per l’attività
politica svolta durante il periodo fascista,
si rendevano incompatibili con il nuovo
ordine nazionale» (solo 9 podestà
su 50: Forlì, Predappio, Mercato
Saraceno, Castrocaro, Dovadola, Rocca S.
Casciano, Santarcangelo, S. Sofia) [25].
Benché quantitativamente maggiori,
gli avvicendamenti verificatisi con l’insediamento
del governo repubblichino non sembrano comunque
rilevanti per la mia analisi, a parte la
sostituzione (non so se per motivi politici
o altro), il 24 novembre ’43, dell’efficientissimo
Bianchini con il Commissario straordinario
Ugo Ughi, uomo quest’ultimo dotato
di assai minore personalità e capacità
d’iniziativa.
Si ebbero, tra agosto e novembre,
anche due successivi cambi al vertice della
provincia: il 16 agosto ’43 Florindo
Giammichele sostituì Marcello Bofondi
(quest’ultimo aderì poi alla
Rsi e venne messo a disposizione del ministero
delle Forze armate) e il 25 ottobre fu a
sua volta sostituito da Alberto Zaccherini
(ravennate, insediato alla prefettura di
Bologna dalle autorità tedesche occupanti,
confermato prefetto dalla Rsi e inviato
prima a Forlì, poi a Ravenna e Novara),
ma, come ho già sottolineato, il
cambio tra i primi due non sembra incidere
sulla politica e l’atteggiamento della
prefettura, almeno per ciò che riguarda
lo sfollamento, mentre l’operato di
Zaccherini, che, come vedremo, si svolse
in un contesto profondamente diverso e mutevole,
non può essere messo a confronto
con le gestioni precedenti. Dopo l’8
settembre i poteri che nel Forlivese si
confrontarono e scontrarono attorno al sempre
più ingestibile problema dello sfollamento
furono quelli dei podestà, del prefetto
(ora chiamato “capo della provincia”)
e dell’amministrazione tedesca. Le
autorità centrali della Rsi intervenivano
per lo più come “corrieri”
degli ordini tedeschi presso le autorità
locali e, più raramente, come deboli
(e in genere inefficaci) intermediari delle
richieste di queste ultime presso gli occupanti.
Era il comando militare tedesco a dettare
le linee generali e lo faceva esclusivamente
in base alle proprie esigenze. Al prefetto
spettava il compito di diffondere gli ordini
tedeschi e ai podestà quello di applicarli
continuando nel contempo a gestire autonomamente
la situazione in tutti quegli aspetti che
non interessavano all’occupante; il
tutto in un contesto in continua e veloce
evoluzione. Con l’avanzata degli angloamericani
dal Sud, infatti, alla popolazione in arrivo
dalle città bombardate, soprattutto
dell'Italia settentrionale, erano andati
aggiungendosi coloro che, per scelta oppure
obbligati da ordini tedeschi, lasciavano
i territori in prossimità del fronte
(circa 8.000 ne contò in provincia
il prefetto di Forlì nel maggio ’44)
[26].
Ma le già costipate ed esauste zone
di sfollamento della pianura e della costa
forlivesi non erano in grado di affrontare
logisticamente ed economicamente questo
nuovo esodo, nemmeno l’efficiente
Rimini. Non restava che cercare di sospingere
gli sfollati fuori dai confini provinciali.
Molti di essi però, stanchi e impauriti
da quella che sempre più appariva
un’odissea senza fine, preferivano
risalire le valli forlivesi in cerca di
altre zone non troppo lontane in cui rifugiarsi.
Negli ultimi mesi del ’43, quindi,
nella provincia di Forlì, mentre
continuavano quotidianamente a giungere
nuovi gruppi di sfollati sia dal nord sia
dal centro-sud – nonostante le direttive
emanate nel febbraio precedente e reiterate
dagli organi centrali nei mesi successivi,
anche durante i quarantacinque giorni badogliani
–, una gran parte di quelli che le
autorità locali cercavano di risospingere
verso le province d’origine o di far
fluire verso zone più settentrionali,
tendeva a distribuirsi invece nelle campagne,
colline e montagne circostanti.
Ma proprio mentre si era ancora
nel pieno di questa che ho scelto di indicare
come la terza fase dello sfollamento
nella provincia di Forlì –
caratterizzata dal tentativo
(fallito) di frenare l’afflusso
di nuovi sfollandi dalle città bombardate
e di risospingere verso i luoghi di origine
coloro che erano già sfollati, dall’arrivo
di migliaia di profughi dalle terre invase
e dal distribuirsi di molti sfollati nell’entroterra
appenninico –, le prime bombe lanciate
sul territorio forlivese (novembre ’43)
e gli ordini tedeschi di evacuazione del
litorale adriatico in prossimità
della linea Gotica (marzo ’44) innescavano
la quarta fase, l’ultima,
la più drammatica e caotica, contraddistinta
dal fatto che la popolazione residente da
ospitante si trovò in fuga, sfollanda,
e dette vita, unendosi ai tanti “stranieri”
anch’essi costretti nuovamente a spostarsi,
a un massiccio e continuato movimento di
popolazione interno alla provincia che le
autorità, sia centrali (tedesche
e italiane) sia locali, non furono in grado
di gestire.
Quarta fase dello sfollamento: novembre
1943 - novembre 1944
Le prime bombe colpirono
i maggiori centri urbani della provincia
di Forlì – Forlì,
Cesena
e Rimini
– tra il novembre ‘43 e il maggio
’44. La prima a essere bombardata
(1 novembre ’43) e la più colpita
fu proprio quella Rimini
– collocata in una strettoia tra il
mare e l’Appennino in cui si incrociano
le principali vie di comunicazione, canale
strategico dal punto di vista militare sia
per i tedeschi sia per gli angloamericani
– che, come sappiamo, ospitava il
numero più alto di sfollati.
Rimini si svuotò: tra
il novembre ’43 e il maggio successivo
quasi tutti i 35.000 abitanti riminesi e
i circa 20.000 sfollati lì accolti
lasciarono la città e si sparpagliarono
nei territori più interni della provincia
[27].
Residenti e “stranieri” si trovarono
così a condividere la ricerca di
un nuovo rifugio nelle campagne
e sulle montagne dell'Appennino, nelle case
di contadini e mezzadri, nelle scuole e
nelle canoniche dei piccoli paesi. Si era
di fronte a una autentica rivoluzione migratoria
che dal maggio ’44 coinvolse anche
gli abitanti di Forlì e Cesena, benché
in misura quantitativamente minore rispetto
ai riminesi [28],
e che venne subita in tutta la sua ampiezza
e drammaticità da un contesto rurale
del tutto impreparato ad affrontarla. I
paesi e le campagne delle colline e montagne
forlivesi, che ancora in prevalenza vivevano
di una economia di autosussistenza (ora
ridotta al minimo anche dai “prelievi”
fascisti e tedeschi) e che per la mancanza
dei mezzi di trasporto non riuscivano a
commerciare i loro prodotti in pianura,
non potevano infatti contare né su
cibo né su risorse economiche sufficienti
per fronteggiare quel nuovo ed enorme spostamento
di popolazione. Non possedendo nemmeno le
strutture igieniche necessarie a tutelare
la salute di abitanti e sfollati, soprattutto
in una situazione di sovraffollamento e
di convivenza forzata, alcuni di essi si
trovarono ben presto sulla soglia del collasso
economico, alimentare e sanitario. Per avere
un'idea di quello che stava accadendo fin
dai primi giorni del novembre ’43
leggiamo l’amaro comunicato inviato
al prefetto da Bianchini:
Come Vi è noto la popolazione della
Città è in pieno esodo. Migliaia
di persone sfollano: parte ha saturato le
campagne di Rimini e i Comuni di Verucchio
[sic] e Santarcangelo; la valle del Marecchia
è pure satura; gli altri Comuni della
Provincia fanno conoscere di non poter ricevere
sfollati; Forlì li rifiuta, mentre
i Comuni litoranei sono sotto la preoccupazione
di una eventuale evacuazione almeno parziale.
Tutte queste persone affollano il Comune
per essere munite della dichiarazione di
sfollamento e per essere indirizzate a luoghi
di assorbimento, che questa Amministrazione
non conosce, perché, come ho detto,
la quasi totalità dei Comuni della
Provincia o non aderisce o non ha istruzioni
[29].
Ad aggravare ulteriormente
l’esodo verso l’entroterra,
e le sue conseguenze, intervennero le esigenze
militari tedesche: alla fine del marzo ’44
il «Comando Germanico», dopo
aver allertato già a dicembre il
prefetto e, attraverso lui, le amministrazioni
comunali interessate, ordinava alla popolazione
abitante la fascia
costiera della provincia di tenersi
pronta a sfollare in brevissimo tempo. La
zona litoranea colpita da questo provvedimento
era lunga circa 50 chilometri, si addentrava
nel territorio provinciale di 10 e comprendeva,
del tutto o in parte, diciotto comuni. In
totale un’area di circa 480 kmq. con
una popolazione di 146.579 abitanti [30].
A motivare questa evacuazione era la necessità
di predisporre militarmente e sgombrare
da ogni interferenza, umana e architettonica,
una linea di difesa costiera in grado di
impedire agli angloamericani di sbarcare
alle spalle del sistema di fortificazioni
che i tedeschi stavano predisponendo sull’Appennino.
Secondo i piani di Kesselring, comandante
in capo delle truppe germaniche in Italia,
tutte e due le coste, tirrenica e adriatica,
dovevano essere disseminate di filo spinato,
mine, fossati anti-carro e bunker in cemento
armato, da Livorno al confine francese e
da Ancona alla Croazia [31].
La minacciata evacuazione si fece realtà
nel maggio ’44. Dal 12 marzo a capo
della provincia era Pietro Bologna, forse
l’uomo con più polso, verso
i municipi ma anche e soprattutto verso
le autorità centrali della Rsi e
i comandi tedeschi, che la provincia di
Forlì conobbe durante la guerra.
Prevedendo le enormi difficoltà che
l’evacuazione avrebbe scatenato, Bologna
tentò da un lato di provvedere con
maggiore severità all’allontanamento
degli sfollati giunti dalle province del
nord e del centro-sud durante il secondo
e il terzo
sfollamento e ancora presenti nel suo territorio,
dall’altro di frenare almeno
in parte lo sgombero della fascia costiera
cercando di convincere il comando
tedesco a limitarne l’estensione.
Così infatti relazionava i propri
movimenti
alla Dgsg il 6 maggio ’44:
Il Comando Germanico ha ordinato lo sgombero,
pel 15 corrente, di alcune zone
costiere da Bellaria a Miramare e di alcune
altre del Comune di Riccione, per
una massa complessiva di oltre 7.000 mila
[sic] abitanti, in prevalenza coloni,
marinai ed ortolani, che molto faticosamente
si potrebbero sistemare in questa
Provincia [...] Per fronteggiare tali sgomberi
e gli altri possibili successivi, nonché
le esigenze dei 50.000 sinistrati riminesi
disseminati nel territorio […] si
sono fatte proposte al Comando Germanico
per la riduzione delle zone di sgombero,
per l'esonero di alcune categorie (ortolani
e pescatori), o quantomeno per l'autorizzazione
alle stesse di recarsi al lavoro sul posto
dall'alba al tramonto [32].
Contemporaneamente Bologna
cercò anche di impedire l’arrivo
di nuovi profughi dal Sud. Il
15 marzo gli era infatti giunto un telegramma
dal MI [33]:
Autorità militare germanica
rappresentano [sic] ancora la necessità
di far sfollare at nord popolazione civile
evacuata da zone meridionali alt Tenuto
conto gravi difficoltà altre zone sature
et minori difficoltà cotesta pregasi esaminare
con precisa esatezza [sic] quale sia capacità
recettiva codesta provincia et numero sfollati
che necessariamente potrebbero accogliersi.
Habet carattere assoluta urgenza
Che fosse l’autorità tedesca
a muovere quella italiana, e con urgenza,
non aveva
intimidito Bologna che così aveva
risposto, con brevità e fermezza,
tre giorni
più tardi:
Questa Provincia già
completamente satura popolazioni sfollate
altre zone et con fascia costiera in fase
di sfollamento non habet alcuna possibilità
ricettiva alt [34]
Richieste del tutto analoghe
continuarono a giungere al prefetto forlivese
nei mesi successivi e Bologna non si stancò,
saldo, di ribadire la propria risposta [35].
Poiché anche i prefetti di altre
province, similmente interpellati, avevano
negato ogni possibilità di accogliere
nuovi sfollati e profughi nelle loro terre
[36],
in maggio la Dgsg fu costretta a inviare
un accorato appello all’ambasciata
germanica nella speranza di convincere le
autorità tedesche a interrompere
l’evacuazione dei civili dalle zone
di operazione dell’Italia centro-meridionale:
[…] La popolazione sfollata
dovrebbe essere trasferita nelle provincie
dell’Italia Settentrionale molte delle
quali debbono già provvedere ad eseguire
ordini di sfollamento delle Autorità
Militari Germaniche (fasce costiere Pesaro
- Venezia = Viareggio e costa Ligure = Civitavecchia
- Castiglione Pescaia) e che sono continuamente
sottoposte a intensi bombardamenti, i quali
causano gravissimi danni con conseguente
necessità di sistemare i sinistrati
che assommano ormai a cifre notevoli. Sicché
le provincie del Nord non hanno più
possibilità di accogliere i profughi
del Sud [...] appare necessario soprassedere
al trasferimento di altre popolazioni civili
dalla zona da esse abitata, anche se si
trovano in zona di operazione [...] [37].
Nessuno dei tentativi intrapresi sia al
centro sia localmente per frenare ulteriori
spostamenti di popolazione ottenne però
alcun risultato presso i comandi tedeschi.
Così almeno sembra dato che nel Forlivese
continuarono a giungere profughi dall’Italia
centrale e l’evacuazione della fascia
costiera proseguì, pur con lentezze
e successivi ridimensionamenti rispetto
ai progetti iniziali, fino all’agosto
’44 interessando le intere città
di Rimini e Cattolica e alcune zone dei
comuni di Cesenatico, Bellaria e Riccione
[38].
In quell’agosto l’avvicinarsi
dell’esercito angloamericano alla
zona appenninica della provincia (il 25
agosto gli Alleati sferravano il primo attacco
alla linea Gotica) costrinse i tedeschi
a spostare tutta la loro attenzione verso
questo settore. Le popolazioni che abitavano
l’Appennino romagnolo furono a loro
volta rapidamente coinvolte dal comando
germanico in appositi piani di evacuazione:
lungo i fondovalle vennero individuati punti
di sosta e ristoro; in pianura le tre località
di Villanova di Forlì, Diegaro di
Cesena e Gatteo, furono scelte come punti
di raccolta dai quali, con mezzi tedeschi
o di fortuna, gli evacuati dovevano poi
essere sospinti verso nord. Alla fine di
agosto risultavano forzatamente sfollate
alcune migliaia di persone provenienti dai
comuni di Montegridolfo, Pieve S. Stefano,
S. Godenzo, Vicchio, S. Sofia, Premilcuore
e S. Benedetto. Questi primi spostamenti,
però, oltre a intasare immediatamente
i punti di raccolta, resero evidente la
totale impossibilità di incanalare,
controllare e assistere nuove masse di donne,
vecchi e bambini, costrette a lasciare le
loro case con, in genere, un preavviso di
appena una o due ore, prive di tutto e riottose,
appena giunte ai posti di raccolta, a proseguire
verso nord [39].
Furono questi, nel Forlivese,
gli l’ultimi tentativi fatti dai poteri
coinvolti di pianificare un qualche spostamento
di popolazione. Nel caos prodotto dall’essere
ormai sulla “linea del fuoco”,
infatti, anche le autorità locali,
per ultime, dopo l’abdicazione di
fatto da ogni decisione in questo campo
da parte delle autorità centrali
della Rsi e mentre i comandi tedeschi si
ritiravano pensando solo alle proprie necessità,
abbandonarono ogni tentativo di gestire
il problema dello sfollamento nelle forme
che esso aveva assunto. E il problema, vivo
ma sommerso, riaffiorò nei documenti
ufficiali solo dopo la liberazione della
provincia (9 novembre ’44) –
e ancor più dopo la fine della guerra
– quando divenne necessario sia organizzare
una qualche forma di coordinamento e di
assistenza per gli sfollati che ancora non
potevano tornare alle loro terre, perché
al di là del fronte, sia rimandare
coloro che invece potevano ai loro luoghi
di provenienza, sfamandoli fino alla loro
partenza e aiutandoli economicamente per
il viaggio e la ricostruzione delle loro
abitazioni.
Questo articolo si
cita: E. Cortesi, Poteri centrali
e periferici di fronte allo sfollamento
di massa: il caso della provincia di Forlì,
1940-1944, , «Storicamente»,
2 (2006), http://www.storicamente.org/02cortesi.htm |