Quando fa il suo esordio in
Nazionale, il vecchio Vittorio Pozzo
esclama: "Finalmente rivedo una vera
ala". E in effetti, Menico, come
viene affettuosamente ribattezzato
dalla tifoseria, ha tutto dell'ala
vecchio stampo: guizzante, veloce
nella progressione, i suoi arresti
improvvisi mandano fuori equilibrio
il diretto avversario e, a quel
punto, ne approfitta per cambiare
direzione, puntare a rete o crossare
per il compagno meglio piazzato.
Tecnica sopraffina, ma soprattutto
una tendenza a non giocare per sé stesso, ma a mettersi a disposizione della
squadra che ne fanno un giocatore vero. Viene scoperto da Enzo Petrucci al
campo Roma di Via Sannio e immesso
nelle minori giallorosse, che in quegli anni sfornano campioncini uno dietro
l'altro. Lui è tra quelli che si fanno subito notare, anche se per trovare
posto in squadra, vista la concorrenza dei vari Ghiggia, Selmosson e
Lojodice deve fare i salti mortali. Dopo
l'esordio nella massima serie, la
società lo manda per un paio di
stagioni a farsi le ossa in serie B,
con la Sambenedettese prima e il
Parma poi. Tornato alla base viene
lanciato in pianta stabile in prima
squadra da Foni e confermato da
Carniglia, che ha bisogno di ali per
il suo gioco arioso. Menichelli
dimostra di saperci fare e di non
temere il confronto con le vecchie
volpi della massima serie, tanto da
esplodere letteralmente nel 1961-62.
Proprio quella è la stagione della sua consacrazione e alla fine di quella
annata, arriva alla maglia
azzurra, che merita ampiamente. Nell'estate del 1963, anche
lui, come succede del resto ai
migliori prodotti romanisti di
quegli anni, è costretto ad
emigrare a causa del dissesto delle
casse sociali provocato da Marini Dettina con l'acquisto di Sormani. Se lo assicura la Juventus,
ove diventa un punto fermo e
continua a sciorinare i suoi pezzi
di bravura al servizio dei compagni. Sette stagioni in
bianconero, durante i quali diventa
un beniamino della tifoseria juventina e poi gli ultimi lampi
con le maglie di Brescia e Cagliari,
prima del ritiro. |