I.G. Farben: una collaborazione letale

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La nascita

La più grande finanziatrice del Partito nazionalsocialista di Hitler fu la “Interessen-Gemeinschaft Farbenindustrie” AG (abbreviato I.G. Farben), un conglomerato di industrie fondato nel 1926 affinché la Germania mantenesse il monopolio della produzione chimica mondiale. Si erano unite infatti, a causa di un indebolimento generale del settore dovuto alle nefaste conseguenze della Grande Guerra, la Bayer, la Basf, la Hoechst, l’Agfa, la Cassella, la Huels, la Kalle e molte altre compagnie di dimensioni inferiori. Il primo presidente del Consiglio di amministrazione fu Carl Bosch della Basf, mentre Carl Duisberg della Bayer fu il primo presidente del Consiglio sindacale. Subito dopo la fusione del 1926, il capitale sociale della I.G. Farben ammontava a 1,1 miliardi di Reichsmark, il totale dei dipendenti a 80.000 unità. Gli uffici principali, un enorme edificio, furono costruiti ex novo a Francoforte sul Meno e oggi, dopo una serie di vendite immobiliari, sono sede dell’Università cittadina.

La collaborazione con i nazisti

L’infausto patto che legò i nazisti (al potere dal ‘33) e l’azienda nacque perché il regime nazista necessitava, per poter sostenere l’impegno bellico, dell’immenso patrimonio tecnologico della I.G. Farben, mentre quest’ultima aveva bisogno del sostegno del potere politico per concretizzare i suoi piani di sviluppo mondiale. Inizialmente (almeno fino al 1932) tra il futuro dittatore e i suoi “collaborazionisti” correva una reciproca antipatia: Hitler aveva bollato l’industria come «Jüdischer Konzern»[1] (azienda ebrea), mentre questa disprezzava i nazisti. Ma poi ci si rese conto che c’era bisogno di un matrimonio di convenienza («Zweckehe»). 

Salito al potere il Führer, arrivarono, tra i finanziamenti di molti industriali e investitori tedeschi, anche quelli della I.G. Farben, e furono i più consistenti. L’interesse primario che legava Hitler al colosso chimico era rendere la Germania il più possibile indipendente dall’importazione di materie prime, cosa che stuzzicava i progetti della I.G. Farben, che stava studiando come ricavare la benzina dal carbone. Inoltre, quest’azienda produceva prodotti come gomma, magnesio, esplosivi, metanolo e numerosissimi altri che sarebbero risultati necessari per un’eventuale guerra. Nel 1937 tutti i direttori della I.G. Farben si iscrissero al Partito nazista. Dal 1938 i rapporti d’amicizia divennero sempre più stretti[2]. La I.G. Farben aveva la chiara intenzione di soffocare l’industria chimica europea concorrente: con minacce e ricatti antisemiti si impossessò di stabilimenti, in un primo momento in Austria. Intanto, il problema tedesco della penuria di scorte di carburante mise in luce l’unica alternativa possibile a questo limite strategico: la produzione di benzina sintetica. Tra le motivazioni del coinvolgimento della compagnia nel sistema concentrazionario di Auschwitz, non si riscontrano né un esplicito antisemitismo né l’intenzione di eliminare gli ebrei. Tuttavia, il campo di concentramento fu la soluzione scelta per lo sviluppo della produzione di gomma sintetica (in tedesco «Buna»), considerato un mero problema di gestione industriale. La scelta di avviare la costruzione di un impianto nei territori polacchi (in Germania erano già attivi altri stabilimenti Buna) fu dovuta al fatto che era priorità del Reich coinvolgere economicamente le regioni slave da poco inglobate nel Governatorato generale. È il 25 aprile 1941: il Vorstand (direzione dell’azienda) accetta le proposte del “TEA” (comitato tecnico) e nasce la “I.G. Farben Auschwitz”.

La costruzione della «I.G. Farben Auschwitz»

L’impianto, conosciuto anche come “Buna-Werke”, poteva operare grazie alla disponibilità di manodopera a basso costo che veniva tenuta prigioniera ad Auschwitz-Monowitz. La capacità produttiva a pieno regime dell’impianto avrebbe dovuto essere di 800.000 tonnellate di gomma al mese, tanto che questo campo divenne il più grande di quelli nell’orbita di Auschwitz. Per la fabbrica stessa era previsto un fabbisogno di energia pari a quello dell’intera Berlino[3]. L’azienda necessitava di una grande forza lavoro per portare avanti questo progetto: i detenuti che lavorarono alla costruzione dell’impianto di Buna furono circa 35.000; di loro circa 25.000 morirono. L’investimento finanziario nello stabilimento I.G. Farben Auschwitz superò le stime iniziali, raggiungendo i 700 milioni di Reichsmark[4]. Nonostante il grande sforzo finanziario, le industrie tedesche traevano grande profitto dalla deportazione, poiché pagavano solo tre marchi al giorno per lavoratore[5], soldi che però venivano dati alle SS. Sebbene alcuni studiosi come Hannah Arendt sostengano la disfunzionalità economica dei lager (secondo loro i campi di concentramento potevano essere al massimo autarchici ma non redditizi), certamente per le aziende che approfittarono del lavoro coatto non furono antieconomici, anche se non vi è dubbio che la loro gestione sarebbe potuta essere migliore[6]. Diventato operativo Monowitz a partire dal 31 ottobre 1942, nel novembre 1943 le SS dichiararono che i campi Auschwitz II-Birkenau e Auschwitz III-Monowitz sarebbero diventati campi indipendenti. Nel gennaio 1945, l'Armata Rossa entrò ad Auschwitz, Birkenau e Monowitz e liberò più di 7.000 prigionieri, molti del quali erano prossimi alla morte.

Le condizioni di vita e di lavoro

La speranza di vita di un lavoratore alla “I.G. Farben Auschwitz”  andava dai tre ai quattro mesi circa. Nelle miniere intorno ad Auschwitz scendeva a un mese. La I.G. Farben riteneva “inibitorio per la produzione” il pessimo trattamento dei prigionieri riservato dalle SS e dai kapò. Le punizioni continuative nei loro confronti avevano un’azione demoralizzante. Nonostante che un dirigente evidenziasse in una lettera: «Unsere Freundschaft mit der SS erweist sich als gewinnbringend»[7] (la nostra amicizia con le SS risulta redditizia), poco dopo nacquero le prime difficoltà nella collaborazione tra i due alleati: la I.G. Farben voleva che non venissero più comminate pene troppo severe. Ma, in seguito a continui ritardi nei ritmi di produzione che risultavano essere fortemente antieconomici, i direttori cominciarono a essere più tolleranti con quei metodi criminali, perché si comprese ben presto che solo con la punizione fisica si sarebbe potuto ottenere un aumento del lavoro. La posizione del capo delle SS, Heinrich Himmler, finì per prevalere su quella del ministro degli armamenti, Albert Speer, che mirava invece a mantenere più a lungo in vita gli operai, affinché le industrie li potessero sfruttare meglio. La I.G. Farben adottò quindi il sistema di gestione dei lavoratori elaborato dalle SS che, come tutti sanno, era un misto di spietata efficacia e terribile crudeltà. Sono documentati numerosi casi in cui venivano fatti trasportare di corsa carichi di cemento dai detenuti. A causa di un tale trattamento, erano comuni denutrizione e malattie. Curiosamente, il trasporto dei lavoratori dal lager al cantiere poteva essere eseguito solo di giorno e senza nebbia perché il personale di guardia era insufficiente per il controllo di tutti i prigionieri. 

Poiché la realizzazione del progetto originario procedeva a rilento, la direzione della I.G. Farben decise di costruire un proprio campo di concentramento, nel quale l’azienda stessa sarebbe stata responsabile per il vitto e l’alloggio, mentre la competenza in sorveglianza, punizioni e rifornimento sarebbe stata affidata alle SS. Nell’estate 1942 nacque pertanto “Monowitz”, che condivideva le medesime caratteristiche con gli altri campi di concentramento nazisti: torri vedetta con fari, filo spinato elettrificato, aggressivi cani da guardia… Una direttiva sul trattamento dei lavoratori recitava che quegli uomini sarebbero stati nutriti, alloggiati e trattati in modo tale da assicurare la maggiore produttività con la minore spesa. A causa di un vitto totalmente insufficiente, la parte di quei lavoratori che lavorava più sodo moriva di denutrizione, quando non era stroncata da malattie infettive. Le malattie non venivano quasi mai curate, perché non doveva risultare malato, cioè assistito dall’ospedale incaricato, più del 5% della popolazione dei lager[8]. Colui che risultava malato per più di due settimane veniva spedito «nach Birkenau»[9] (a Birkenau, cioè verso la morte).

Lo Zyklon-B

Tra la miriade di prodotti che uscivano dalle fabbriche della I.G. Farben, quello più tristemente noto è senza dubbio lo “Zyklon-B”, cioè acido cianidrico altamente tossico (la dose mortale per un uomo è 1 mg per ogni chilogrammo di peso). Veniva trasportato riposto in barili di metallo, che però non garantivano una lunga conservazione a una sostanza così facilmente deteriorabile: dopo tre mesi era da buttare. Ovviamente le SS si servivano di fornitori esterni per ogni necessità, e per questo prodotto si rivolgevano a industrie chimiche che producevano gas molto potenti per sterminare roditori e insetti. Il fatto che i nazisti definissero insetti nocivi gli ebrei è tristemente coerente con la scelta di ucciderli con questo veleno. Lo Zyklon-B veniva prodotto dalla “Deutsche Gesellschaft für Schädlingsbekämpfung mbH” (De.Ge.Sch., Società tedesca per la disinfestazione dei parassiti), una società di proprietà al 42.5% della I.G. Farben, al 42.5% della Deutsche Gold- und Silver-Scheideanstalt (DeGuSSA) e al 15% della Goldschmidt[10]. La produzione di questo gas nocivo fu un successo per queste tre aziende, che si divisero ricavi altissimi grazie alle crescenti richieste in tempo di guerra, alle spese gestionali estremamente basse (la “De.Ge.Sch.” contava solo 50 dipendenti) e alla situazione di assoluto monopolio.

Il processo per crimini di guerra e il pagamento dell’indennizzo

Per il suo innegabile coinvolgimento con il nazismo, si ritenne doveroso processare la I.G. Farben a Norimberga (la prima sessione ebbe luogo il 14 agosto 1947, la sentenza fu emessa il 30 luglio 1948). Ma le pene inflitte furono lievissime (i dirigenti condannati non ricevettero più di 8 anni di carcere ciascuno) e i capi d’imputazione non riguardarono lo sterminio degli ebrei. Negli anni a seguire, ci si rese conto che le aziende tedesche conniventi con il regime avrebbero dovuto pagare un indennizzo ai deportati per aver lucrato con il loro lavoro gratuito e per le estreme sofferenze da questi patite. Per evitare un vero e proprio prosciugamento dei conti delle fabbriche in questione, i legislatori fecero in modo di subordinare l’applicazione dei rimborsi a determinate “clausole”. La legge escludeva quindi certi tipi di perdite: non venivano considerati i traumi morali né quelli affettivi, non sarebbe stato rimborsato il lavoro coatto. Ma quando un privato cittadino sopravissuto ad Auschwitz vinse una causa presso un tribunale ordinario contro la I.G. Farben (sostenere un processo era l’unica modalità possibile per ottenere l’indennizzo) e ottenne da questa 10.000 Deutsche Mark oltre agli interessi, l’azienda decise di donare circa 27 milioni di marchi alle associazioni degli ebrei aventi diritto ai rimborsi[11]. Così fecero anche AEG, Krupp e Siemens.

Lo smembramento della società e la sua fine

Nonostante i primi pagamenti d’indennizzo degli anni Sessanta, le somme restituite ai lavoratori o alle loro famiglie non furono mai sostanziose. Questo fu dovuto alla riluttanza delle aziende responsabili a sborsare denaro. Per obbligarla a pagare ciò che spettava ai deportati, la I.G. Farben venne posta, con una legge del 1955[12], sotto il controllo degli Alleati (che ne approfittarono per trasferire parte delle tecnologie negli Stati Uniti). Intanto era stata data alle società componenti l’autorizzazione a staccarsi dal conglomerato: Agfa, Basf, Bayer, Hoechst e molte altre si resero indipendenti e le più grandi di queste inglobarono quelle più piccole. La I.G. Farben possedeva soltanto più alcuni fabbricati. Grazie all’incessante sviluppo economico seguìto alla ricostruzione europea, oggi ciascuna delle aziende sopraccitate fattura da sola più di quanto fatturasse la I.G. Farben nella sua totalità. Se raggruppassimo i fatturati di quelle aziende, nel 2004 la I.G. Farben avrebbe avuto un fatturato di circa 103 miliardi di Euro (la più grande compagnia chimica del mondo, la Basf, fatturava quell’anno 35 miliardi di Euro)[13]. Nel 2007, la Agfa, la Bayer e la Basf proseguono il loro cammino indipendenti, mentre la Hoechst (dopo una fusione con il gruppo francese Rhône Pulenc con il quale dal 1999 al 2004 prese il nome di Aventis) dal 2004 si chiama Sanofi-Aventis. Il 10 novembre 2003, infine, gli investitori della I.G. Farben dichiararono bancarotta dopo aver versato 500.000 marchi (circa 200.000 Euro) a una fondazione per gli ex-lavoratori forzati del regime nazista[14].

Pinerolo, aprile 2007                                   Giuliano Enrico Castagna

Bibliografia

Infozentrum für Rassismusforschung (Centro informativo per la ricerca sul razzismo). Pagina web dell’articolo:
http://www.dir-info.de/dokumente/woche_auschwitz/4chemiker.shtml

Danuta CZECH, Kalendarium. Gli avvenimenti nel campo di Auschwitz-Birkenau. 1941. Traduzione di Gianluca Piccinini, ed. online a cura di Dario Venegoni, ANED, 27 gennaio 2002 (www.associazioni.milano.it/aned/kalendarium/1941.pdf

Raul HILBERG, La distruzione degli Ebrei d’Europa, Torino, Einaudi, 1995.

Gianni MORIANI, Pianificazione e tecnica di un genocidio. La politica razziale del nazionalsocialismo. Introduzione di Massimo Cacciari, Padova, Franco Muzzio Editore, 1996.

Enzo NIZZA, voce Deportazione, campi di, in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, Milano, La Pietra, 1968.

Wikipedia tedesca (www.de.wikipedia.org) alle voci:

o        I.G. Farben

o        Buna-Werke

Wikipedia italiana (www.it.wikipedia.org) alle voci:

o        Auschwitz III – Monowitz

o        I.G. Farben

 

Nota: l’ultima consultazione delle pagine web risale ad aprile 2007.

 


[1] Martin REICHERT, Die Chemiker des Teufels, Info-Zentrum für Rassimusforschung, http://www.dir-info.de/dokumente/woche_auschwitz/4chemiker.shtml.

[2] Il responsabile per il settore chimico della I.G. Farben, Carl Krauch, ad esempio, era amico del numero due del Reich, Hermann Göring. In seguito sarebbe stato proprio Göring a fare pressione su Himmler, affinché le SS cedessero la propria manodopera a industrie private come la I.G. Farben. Cfr. Danuta CZECH, Kalendarium. Gli avvenimenti nel campo di Auschwitz-Birkenau. 1941. Traduzione di Gianluca Piccinini, ed. online a cura di Dario Venegoni, ANED, 27 gennaio 2002 (www.associazioni.milano.it/aned/kalendarium/1941.pdf).

[3] Martin REICHERT, Die Chemiker des Teufels, Info-Zentrum für Rassismusforschung, http://www.dir-info.de/dokumente/woche_auschwitz/4chemiker.shtml. In realtà, nota Gianni Moriani, a fronte di un grande investimento e di un’aspettativa di alti livelli di produzione, dagli stabilimenti della I.G. Farben Auschwitz uscirono solo «una modesta quantità di benzina e neanche un chilo di gomma sintetica» (cfr. G. MORIANI, Pianificazione e tecnica di un genocidio. La politica razziale del nazionalsocialismo, Padova, Franco Muzzio Editore, 1996, pp. 104-107). Secondo Moriani, comunque, la produttività prevista era di 30.000 tonnellate all’anno di gomma sintetica e di 700.000 tonnellate al mese di benzina sintetica; una quantità inferiore, dunque, a quella indicata da Reichert.

[4] Raul HILBERG, La distruzione degli Ebrei d’Europa, p. 998, Torino, Einaudi, 1995.

[5] Per i lavoratori specializzati venivano pagati 4 marchi al giorno.

[6] Lo sfruttamento del lavoro dei deportati fu un affare anche per le SS, dal momento che il mantenimento di ogni prigioniero costava complessivamente (comprendendo quindi alimentazione, vestiario, elettricità) 0,70 marchi al giorno. Cfr. Enzo NIZZA, voce Deportazione, campi di, in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, Milano, La Pietra, 1968.

[7] Martin REICHERT, Die Chemiker des Teufels, Info-Zentrum für Rassismusforschung, http://www.dir-info.de/dokumente/woche_auschwitz/4chemiker.shtml.

[8] Martin REICHERT, Die Chemiker des Teufels, Info-Zentrum für Rassismusforschung, http://www.dir-info.de/dokumente/woche_auschwitz/4chemiker.shtml.

[9] Ivi

[10] Raul HILBERG, La distruzione degli Ebrei d’Europa, p. 963, Torino, Einaudi, 1995.

[11] Ivi, p. 1248.

[12]Das Liquidationsschlussgesetz vom 21. Januar 1955” (Legge sulla liquidazione del 21 gennaio 1955).

[13] Wikipedia tedesca, alla voce “I.G. Farben”.

[14] Wikipedia italiana, alla voce “I.G. Farben”.