dic 20 2011

Dai colonnelli ai banchieri. Quando al capitalismo la democrazia liberale sta stretta… (di Michele Fabiani)

DAI COLONNELLI AI BANCHIERI

Cosa succede quando al capitalismo la democrazia liberale sta stretta

 

 

 

IL PREGIUDIZIO SUL CAPITALISMO DEMOCRATICO

Una delle favole moderne vuole che il capitalismo vada sempre d’accordo con la cosiddetta democrazia liberale. La democrazia liberale è quella forma di governo in cui gli scontri di parte presenti in ogni società vengono dominati e incanalati in una forma rappresentativa istituzionale intermedia. La democrazia liberale è in ultima istanza una democrazia rappresentativa, con il parlamento, l’esecutivo e la magistratura. La democrazia liberale non è affatto una bella cosa, anzi come ogni forma di governo anche essa presenta delle contraddizioni. Filosoficamente, prima che politicamente, la neutralità nella realtà concreta non esiste, la delega che viene data alle istituzioni è utilizzata da queste per garantire sempre gli interessi dei potenti. Questi vengono garantiti con delle istituzioni coercitive la cui punta di diamante sono le carceri e i tribunali. Insomma la favola del capitalismo democratico e liberale non è mai una storia a lieto fine.   

Ma non è questo ora che ci interessa. Quello che invece in questa sede occorre sottolineare è il pregiudizio secondo cui il capitalismo sia sempre liberale e democratico. Sappiamo che non è così. L’economia fascista era in ultima istanza un’economia capitalistica. La stessa ideologia del fascismo, se pur con una certa dose di statalismo, è collocabile all’interno del pensiero capitalista. Ma nessuno può certo sostenere che il fascismo era un regime democratico e liberale, nonostante fosse capitalista. Il fascismo non è un’eccezione: il capitalismo ha da sempre utilizzato forme di governo dittatoriali, ha da sempre ordito golpe, ha da sempre scatenato guerre insensate e immotivate per interessi imperiali o anche solo per mero profitto. Anche all’interno delle stesse società liberali, con il loro parlamento e le loro istituzioni, il capitalismo “in casa propria”, nelle aziende, nei consigli di amministrazione, nel sistema della finanza e nella Borsa non si può certo dire che segua norme di tipo democratico e liberale (non conta ad esempio il principio “una testa un voto”).

Il capitalismo è democratico come e quando gli interressa. Ci sono contingenze storiche in cui il capitalismo si esprime in forma democratica, altre invece in cui preferisce altri tipi di regime.

 

LA GRECIA, DAI COLONNELLI AI BANCHIERI

In Grecia, ad esempio, il regime democratico non era certo in grado di contenere le spinte rivoluzionarie di quel paese. Pertanto il capitalismo ha scelto di imporre per anni il cosiddetto “regime dei colonnelli”. Il regime dei colonnelli non è certo stato un affronto al capitalismo mondiale. Non era nemmeno un regime fascista e antiamericano. Il regime dei colonnelli era foraggiato, sponsorizzato e sostenuto dalla più grande potenza capitalista mondiale, gli Stati Uniti.

Quando le spinte rivoluzionare in quel paese erano state ormai sterilizzate, quel regime non è stato più sostenuto. La rivolta, assolutamente legittima e sacrosanta, del popolo greco e in particolare degli studenti, già allora con grande componente anarchica, ha portato al crollo del regime, ma non ha instaurato una società post-capitalista. Il capitalismo ha semplicemente cambiato veste politica. Ne erano consapevoli gli stessi partiti pseudo rivoluzionari, come il KKE, che tradirono presto la rivolta, una volta ottenuta la democrazia liberale. Sono gli stessi che oggi tradiscono la rivolta contro i sacrifici imposti dalla Banca Centrale Europea, schierandosi a difesa del parlamento con mazze e caschi, e che insieme alla polizia picchiano i manifestanti.

Il capitalismo però non è un mostro razionale e invincibile. Le sue contraddizioni hanno portato morte e miseria, hanno saccheggiato la Grecia riducendola alla bancarotta. Oggi la situazione è di nuovo ingestibile per la democrazia liberale. Si impone quindi un nuovo cambio di regime. Non credo che esista una stanza dei bottoni che dietrologicamente comandi il mondo. Credo anzi che “le capocce” del capitalismo mondiale siano in gravi difficoltà. Stanno procedendo a tentoni, stanno sperimentando sulla nostra pelle nuove forme di dominio. Tentativi autoritari si affacciano, ma ancora si cerca di respingerli, come quando sono stati decapitati i vertici delle forze armate per paura di un nuovo colpo di stato. Ma sembra che la nuova forma politica del capitalismo debba essere differente rispetto alle precedenti dittature militari.

In Grecia il governo politico non era più in grado di gestire la protesta, che stava ormai assumendo veri e propri caratteri insurrezionali. E’ stato quindi sostituito dal governo dei banchieri, guidato dall’ex vicepresidente della Banca Centrale Europea. Il governo dei banchieri è un governo diverso dal governo di una democrazia liberale. In una democrazia liberale, almeno all’apparenza, le banche e in generale la grande borghesia sono solo una parte della torta. Ufficialmente la politica deve cercare di rappresentare tutte le componenti della società. Sappiamo ovviamente che non è cosi. Sappiamo che le banche da sempre dominano i governi politici. Fino ad oggi però il loro dominio era nascosto, la loro era una potente lobby che cercava di influenzare la politica. Oggi sono al vertice della politica.

Siamo di fronte ad una nuova frattura fra la democrazia liberale e il capitalismo. Come ai tempi dei colonnelli, oggi il capitalismo non si trova più “a suo agio” sotto la veste politica di una democrazia liberale. Pertanto cerca forme di regime diverse: non più il regime dei colonnelli, ma quello dei banchieri. Il regime dei banchieri è un regime qualitativamente differente da quello liberale. Lo dimostra la vicenda del referendum sui sacrifici imposti dalla BCE: quel referendum è stato cancellato, la democrazia liberale viene ufficialmente sospesa dal regime dei banchieri.

 

L’ITALIA, DA BERLUSCONI AI BANCHIERI

Anche in Italia stiamo assistendo ad un mutamento della veste politica del regime liberale. L’Italia in questo, purtroppo, si è dimostrata all’avanguardia rispetto ad altri paesi. Da quasi venti anni, con la discesa in campo di Berlusconi, abbiamo assistito alla fine del regime democratico inteso in senso classico. Generalmente, in una democrazia liberale, il governo è in mano apparentemente alla politica, mentre la borghesia, nell’ombra, cerca di influenzarlo. Con Berlusconi abbiamo avuto un “pezzo da novanta” della borghesia che in prima persona, con i propri soldi, le proprie televisioni, i propri interessi privati, si fa politica.

In questo senso, se pensiamo che Berlusconi minacciava di gestire l’Italia come se fosse una sua azienda, possiamo ben vedere che il nuovo governo del banchiere Mario Monti è in perfetta continuità. Non facciamoci prendere in giro dalle apparenze, dal bunga-bunga, dalla sobrietà di Monti di fronte alla sfacciataggine di Berlusconi, ecc. La sostanza è che Berlusconi rappresentava una sospensione della democrazia liberale e la discesa in campo di un grande capitalista, e Monti allo stesso modo è un grande cervello del capitalismo europeo che occupa il potere in maniera non democratica. Quindi Monti rappresenta la continuazione della sospensione della democrazia liberale già iniziata con Berlusconi. 

Il nuovo governo Monti supera tutte le fantasie e tutte le dietrologie dei complottisti. Quante volte abbiamo sentito fantasticherie su un governo dei banchieri che dietro ai governi politici da ordini, implementando la volontà di qualche misteriosa plutocrazia? Quelle fantasie oggi sono superate per eccesso dalla realtà stessa: non c’è più un covo di massoni e banchieri che comanda il governo, è il governo stesso che è in mano a banchieri, a massoni, a pezzi grossi del Vaticano.

In Italia, come in Grecia, il regime democratico non è più in grado di governare le contraddizioni sociali: la sua nuova veste politica è il regime dei banchieri.

 

CROLLO DELL’EUROPA LIBERALE E ASCESA DEL REGIME DEI BANCHIERI

Proviamo a generalizzare, ad operare un’induzione a partire dai casi particolari di cui abbiamo parlato. Noi assistiamo ad una profonda crisi del capitalismo europeo. Tale crisi si osserva sia sul piano esterno, come potenza o coordinamento di potenze di natura imperialistica, sia sul piano interno.

Sul piano estero. Le rivoluzioni che stanno infiammando numerose città del mediterraneo denunciano il fallimento totale delle strategie imperialistiche dell’Europa. In Egitto il governo filo-americano e filo-israeliano di Mubarak è stato spazzato via dalla rivoluzione e proprio in questi giorni il potere dei militari che hanno sostituito il vecchio dittatore è di nuovo scosso da durissime rivolte. La rivoluzione tunisina, la più sociale e “socialista” delle rivoluzioni arabe di questo infiammatissimo 2011, è avvenuta nell’impotenza totale della Francia, la vecchia potenza coloniale. Solo in Libia l’imperialismo franco-americano ha tentato di gestire la rivolta a proprio piacimento, riuscendo nel suo intento immediato (far fuori Gheddafi) con molto ritardo e comunque impantanandosi in una situazione di caos difficilmente gestibile.

Sul piano interno la situazione è, se possibile, ancora più complicata. Il tentativo delle lobby europeiste di fare la Nazione Europea è decisamente affondato nei rivoli della crisi. Di fatto assistiamo al governo tedesco di un’Europa ingovernabile. La rivolta in Val Susa è un esempio empirico emblematico del fallimento della Nazione Europea: l’Alta Velocità, un classico progetto imperiale come per i Romani la costruzione delle grandi strade che dovevano unire l’Impero, non riesce ad imporsi sulla testa dei montanari che giustamente non vogliono che la loro Valle venga distrutta dalle lobby dell’acciaio e dalla prepotenza imperiale europea.    

Ma è nella crisi che il capitalismo tenta l’ennesimo cambiamento della forma politica. In questo l’Europa è, nostro malgrado, all’avanguardia persino nei confronti degli Stati Uniti. In America, per lo meno, il capitalismo finanziario ha un “testa” centrale, la Fed, controllata dallo Stato. In Europa assistiamo alla prima banca centrale della storia del capitalismo che non solo non ha uno Stato che la controlla, ma che è essa stessa a dettare agli Stati propri vassalli le linee guida della propria azione economica.

 

LE INSURREZIONI POPOLARI E IL MUTAMENTO DI FORMA DEI MOVIMENTI DI PROTESTA

Ma non è solo il dominio a cambiare la propria forma politica. Anche i movimenti di protesta stanno subendo una speculare trasformazione. Se, da un lato, di fronte alla crisi il capitalismo cambia la propria forma politica da regime democratico e liberale a regime dei banchieri, sul fronte opposto i movimenti democratici si vanno trasformando in movimenti popolari di tipo insurrezionale. Per capire di cosa sto parlando si guardi alla manifestazioni in Grecia. Il 15 Ottobre romano in questo senso è solo un assaggio. Fanno un po’ ridere (e un po’ piangere) Vendola e Bernocchi nelle loro condanne. E’ come se cercassero di fermare il treno della storia a testate.

La mia non è un posizione etica, tanto meno estetica. La mia è un’analisi. Le stesse analisi, con gli stessi risultati, le stanno facendo anche gli organi di polizia. L’analisi prevede che, di fronte al dilagare della crisi, anche le proteste diventeranno ingestibili, in primo luogo dai loro stessi leader. La disperazione sociale a cui ha portato la gestione capitalistica della crisi non può più essere incanalata nel dibattito politico. Paradossalmente è il dominio stesso che sta provocando questa contraddizione: con la sospensione della democrazia liberale e l’avvento dei regime dei banchieri, il movimento di protesta non avrà più sponde politiche istituzionali e non potrà che diventare movimento di rivolta.

Il regime dei banchieri, appena nato, già denuncia le sue contraddizioni: l’incapacità di rappresentare, anche fosse solo in maniera fittizia come nelle democrazie liberali, l’antagonismo popolare.

 

DI FRONTE AD UN REGIME CHE CAMBIA FORMA OCCORRE TROVARE STRUMENTI DI LOTTA DIFFERENTI

Abbiamo detto che il cambio di regime politico (dalla democrazia liberale al regime dei banchieri) provoca un cambio di forma politica anche nei movimenti di protesta, non più democratici ma con tratti sempre più marcatamente insurrezionali. Questo per quanto riguarda l’analisi per così dire “imparziale” e oggettiva degli eventi.

In ogni caso non si capisce perché di fronte ad un regime che cambia veste politica (e in peggio) non dovremmo avere il diritto di cambiare anche noi gli strumenti di opposizione. Non si sono fatti tanti scrupoli etici i padroni del mondo quando hanno sospeso la democrazia liberale, non ce li faremo certo noi nel rispettare i residui di legalità borghese che sono sopravvissuti.

L’opposizione al fascismo era differente dall’opposizione ai regimi democratici. Oggi che i regimi democratici sono stati sostituiti dal regime dei banchieri, anche la nostra opposizione dovrà trovare forme e modalità diverse. Chi oggi, tardivamente, ci propone uscite elettoralistiche dalla crisi o è un infame o non ha capito nulla di cosa sta succedendo.

La legalità democratica è finita. Per tutti.

Michele Fabiani

Un commento a “Dai colonnelli ai banchieri. Quando al capitalismo la democrazia liberale sta stretta… (di Michele Fabiani)”

  1. (A) scrive:

    APPROFONDIMENTI:

    Un blocco sociale contro il regime dei banchieri (di Lucio Garofalo)
    http://www.anarchaos.org/2012/01/un-blocco-sociale-contro-il-regime-dei-banchieri-di-lucio-garofalo/

    La crisi odierna è inequivocabilmente dovuta a fenomeni di sovrapproduzione e sottoconsumo, in sostanza deriva da una restrizione dei mercati che è un effetto della variazione della morfologia sociale. L’enorme rigonfiamento della massa proletarizzata, con la riduzione di gran parte dei ceti medi alla condizione salariata, significa che non ci sono abbastanza compratori per le merci: il proletariato non può ricomprare tutte le merci che esso stesso ha prodotto. Ma ciò rappresenta un’antinomia del capitalismo, dato che non può esistere una società composta esclusivamente da borghesi e proletari.

    La razione di miseria obbligatoria imposta a paesi come Portogallo, Grecia, Italia, Spagna e progressivamente a tutti i popoli europei, non basterà a fermare la caduta di rendimento del capitale finanziario, per cui serviranno altre manovre finanziarie che spingeranno sempre di più verso una condizione di insopportabilità dei sacrifici imposti ai proletari. Ormai il capitalismo non ha più nulla con cui tacitare la protesta sociale, anzi, per sopravvivere è costretto ad estorcere sempre di più e in dosi sempre maggiori.

    Se Obama è costretto a raddoppiare i fondi sociali di assistenza con cui vengono finanziati sottobanco i grandi supermercati dei distretti popolari al fine di non fare esplodere rivolte, se in Europa si procede all’abolizione di ogni copertura di welfare (pensioni, sanità, scuola, ecc.), se neppure uno solo dei grandi economisti borghesi è stato in grado di prospettare un modo per uscire dalla crisi e stabilizzare l’economia, tutto questo procedere verso il disfacimento totale del capitalismo ha una sua ragione d’essere ed è l’irrazionalità del capitalismo rispetto alle ragioni dell’intera umanità.

    Oggi la miseria obbligatoria imposta dal proconsole della BCE per l’Italia, Mario Monti, al solo fine di garantire il pagamento degli interessi del debito pubblico italiano al capitale finanziario internazionale può valere qualche settimana di ripresa dei titoli italiani. Più del 97% di questi titoli sono incettati dalle banche che esigono i pagamenti, pena il default: sono le grandi banche mondiali, a cui la BCE e le banche italiane sono consociate. Di ripresa nemmeno l’ombra, anzi prosegue la liquidazione sistematica dell’industria e del piccolo commercio. La crisi abbatte chi non è abbastanza forte da resisterle: si contano già 60-70 mila piccoli esercizi commerciali chiusi con relativo numero di disoccupati, per lo più clandestini, dato che erano clandestini anche come lavoratori. Questa ecatombe forza il mercato in direzione dei grandi gruppi commerciali, cioè dei grandi supermercati nei quali i prezzi sono stabiliti nell’ambito dei commerci internazionali. Ci avviamo verso un commercio con forti connotazioni autocratiche, verso cui i consumatori non dispongono di alcun mezzo di influenza e di contrattazione.

    Al momento i grandi centri commerciali mantengono i prezzi al di sotto di quelli del piccolo commercio, fa parte della strategia per liquidare quest’ultimo e la quantità di merci vendute assicura ai grandi gruppi margini soddisfacenti di profitto, dato anche che possono servirsi di lavoro precario a basso costo. Quando essi avranno imposto condizioni di monopolio, allora potranno esercitare tutta la loro forza per spremere i consumatori.

    Il piccolo commercio è stata una delle attività fondamentali della piccola borghesia urbana. Le sue attuali condizioni di reddito non sono dissimili da quelle dei proletari. Ma molta della sua sopravvivenza dipende dall’evasione fiscale sistematica, da essa concepita come lotta di sopravvivenza contro lo Stato e la concorrenza. Essa è oggi un rimasuglio di ciò che era quando il fascismo la mobilitò contro il movimento operaio.

    Crollata l’illusione berlusconiana in cui essa si riconosceva completamente, oggi la piccola borghesia urbana si trova sul baratro della sua scomparsa come ceto sociale. Il capitale finanziario la sacrifica per acquisire il potere enorme di monopolizzare i commerci e utilizzarlo come forma di controllo e pressione sociale. E’ noto che i capitali dei grandi gruppi commerciali sono consociazioni internazionali gestite dalle banche.

    E’ evidente che per gli ultimi residui della piccola borghesia urbana e commerciale le prospettive future sono uno status di proletarizzazione, disoccupazione e precarietà. Ma bisogna stare attenti poiché è proprio da questi ambienti sociali che stanno riemergendo le tesi complottiste, l’antisemitismo di ritorno, il razzismo contro gli extra-comunitari.

    Di fronte alla proletarizzazione forzata della piccola borghesia urbana, il proletariato non può più combattere con gli strumenti, ormai anacronistici, della democrazia parlamentare borghese, un nemico di classe che ha finalmente gettato la maschera, uscendo allo scoperto e ponendosi direttamente al vertice di Stati come Italia e Grecia.

    Un’analisi della situazione che sia attendibile, onesta e coerente, non può non generare una presa di posizione ferma ed intransigente di fronte all’inasprimento della crisi e alle soluzioni “lacrime e sangue” adottate dai governi in un quadro capitalistico. Governi che non sono più condizionati in modo occulto e latente, come succedeva all’interno dei precedenti scenari parlamentari, da lobby che fanno capo alle grandi banche d’affari e all’alta finanza, ma sono un’emanazione diretta e palese del potere capitalistico, poiché al vertice degli Stati, in Grecia e in Italia, si sono insediati ufficialmente dei regimi guidati da tecnocrati e alti funzionari del sistema bancario e finanziario internazionale.

    Su questo punto non si può non concordare, a meno che non si voglia negare l’evidenza.

    In un quadro di crescenti ingiustizie e diseguaglianze sociali, è inevitabile che le proteste, frutto della disperazione dilagante, non saranno più facilmente gestibili con gli strumenti tipici della legalità costituzionale e della democrazia liberale borghese, e da semplici movimenti di indignazione e contestazione pacifica e non violenta, potranno assumere la forma delle rivolte o dei tumulti di massa, ovvero una veste insurrezionale.

    Pertanto, serve la formazione di un blocco sociale e popolare, di impronta classista, che sia in grado di esercitare un ruolo antagonista, intransigente e deciso, contro il regime dei banchieri, che è (per l’appunto) un’emanazione diretta e palese, persino dichiarata, di un blocco economico molto agguerrito che fa capo agli affari (di classe) del sistema bancario e dell’alta finanza internazionale, che sono evidentemente contrapposti in maniera irriducibile agli interessi del mondo del lavoro produttivo e salariato, precisamente a quelli delle classi operaie e, più in generale, delle masse proletarizzate.

    Ma come e con quale durata temporale si potrebbe conseguire un simile obiettivo? E con quali metodi di lotta è possibile, oltre che necessario, agire per concretizzare tale progetto? Ed è un traguardo di breve termine, o di medio e lungo periodo? Sempre che sia realizzabile. Inoltre, ammesso che lo sia, il processo dovrà e potrà svilupparsi dal basso, quindi compiersi in modo spontaneo ed auto-organizzato, o dovrà essere diretto dall’alto, cioè da un soggetto politico che si configuri come avanguardia rivoluzionaria?

    A tutti questi interrogativi, che non sono affatto accademici, astrusi o peregrini, bensì estremamente pratici, occorrerebbe dare una risposta. Una risposta che eventualmente può giungere solo dal basso, ovvero dal magma ribollente delle lotte sociali e materiali.

    Lucio Garofalo

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