Giulio Emanuele Rizzo
di Maria Galizia
Se gli amministratori di Siracusa del tempo intitolarono a Giulio
Emanuele Rizzo la strada panoramica che circonda il Teatro Greco e dalla
quale si gode un superbo paesaggio che unisce all'incomparabile bellezza
dei luoghi, l'inestimabile valore storico, un motivo ci sarà stato
senz'altro. Del resto, lo stesso Rizzo, ammirandolo più volte dalla
sommità del colle, scrisse: "Serena, quasi languida, è la linea del
paesaggio; ed ogni luogo ha un suo nome, evoca un ricordo antico, un
monumento o una gloria della città scomparsa. Ma correndo sul declivio
che in curve di nude rocce cineree rapidamente si stendono alla pianura
verde e pingue, l'occhio si ferma in Ortigia sacra, nocciolo e gemma dei
discendenti di Archia, e sull'opposto Plemmirio, sede anch'esso di
antichissime genti". E alla ricerca di queste "antichissime genti",
fonte prima delle nostre radici, questo grande archeologo siracusano,
consacrato immortale dalle più prestigiose accademie di Francia, dedicò
il meglio delle sue forze e della sua vita, convinto com'era che ad un
popolo ignorante del proprio passato niente possa appartenere.
L'illustre archeologo, filologo, storico dell'arte, critico, maestro di
una notissima scuola archeologica, numismatico, esteta ed artista,
ritenuto dalla critica contemporanea uno dei più importanti e preparati
studiosi dell'arte e della cultura classica del nostro tempo, era figlio
di Melilli, che gli ha intitolato la sua Scuola Media Statale e un busto
marmoreo, nella villetta comunale, opera del siracusano Biagio Poidimani.
Rizzo nacque nell'antico palazzo dei Matera, nel maggio 1865, in via
Iblea (dove oggi si trova una lapide marmorea, il cui testo fu a suo
tempo dettato dall'Accademia dei Lincei), figlio dell'avvocato Gaetano e
da donna Maria Abramo. I genitori erano lontani cugini tra loro, poiché
la madre della mamma era una Rizzo. Gli Abramo, di origine israelita,
appartenevano a quella borghesia di proprietari terrieri che, qualsiasi
siano i sentimenti personali, non vogliono difficoltà con il regime
politico del tempo.
Da questa felice unione erano nati ben otto figli, cinque maschi e tre
femmine. Uno dei maschi, Vincenzo, morì giovane, mentre studiava a
Catania. Il figlio maggiore, Giambattista, divenne poi un grande
giurista ed un eccellente avvocato, tanto che lo stesso Giulio lo definì
"la testa migliore della famiglia".
All'anagrafe, il nostro archeologo fu registrato come Emanuele Giulio,
ma egli riuscì a ribaltare i due nomi, facendosi chiamare, anche negli
atti ufficiali Giulio Emanuele. Frequentò le scuole elementari a Melilli,
dove si impose subito per la sua precoce e vivace intelligenza, tanto
che già allora uno dei suoi zii gli insegnò i primi elementi di greco e
di latino. Frequentò poi il ginnasio e il liceo di Catania, ed infine si
iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza, più per imposizione paterna che
per sentita vocazione. Infatti, appena laureato, essendosi già delineato
chiaramente in lui l'amore profondo per il greco e una naturale -
vocazione per la ricerca, si iscrisse alla facoltà di Lettere di Palermo
e si laureò discutendo una brillante tesi su Imerio il Sofista,
dimostrandosi , degno figlio di questa nostra terra greca, che egli
tanto amava e di cui diceva con fierezza: "Io sono sikelios e non
sikanos", alludendo così non tanto ad un fattore etnico, quanto ad una
tradizione di cultura della Sicilia Orientale e del siracusano in
particolare. Su questo, basta leggere cosa scrisse di lui il suo
discepolo, Domenico Mustilli, titolare della cattedra di archeologia di
Napoli: "un uomo è sempre il prodotto della sua terra , e la cultura
classica di Rizzo si formò in primis in Sicilia. Alla sua terra restò
sempre spiritualmente legato; nei tardi anni, suo desiderio profondo fu
quello di trovare pace nella sua terra nativa di Melilli, in cospetto di
quel mare luminoso nel quale si rispetta il perenne azzurro del cielo".
Appena laureato, per non essere di peso alla famiglia, decise di
dedicarsi all'insegnamento nei licei di Trapani, Messina, Agrigento e
Catania, non trascurando mai la strada della ricerca. Nel tempo libero,
esplorava le cave che circondano Melilli, scoprendo numerose necropoli e
interessanti reperti. Percorse più volte la Sicilia, che descrisse nella
sua Siciliae antiquae tabula con un lirismo che solo un grande e
profondo amore per la storia delle proprie origini può ispirare.
Intanto, gli studi della filologia greca lo indussero a pubblicare nel
1895 un articolo sulla Rivista di Storia antica e Scienze affini sul
grande poeta della Sicilia greca Stesicoro. A ventiquattro anni, conobbe
Paolo Orsi, che nel 1889, appena trentenne era arrivato a Siracusa, alla
Reale Soprintendenza, diretta allora dal Cavallari. Il giovane Giulio,
ebbe la fortuna di assistere alla prima grande campagna di scavi,
effettuati dall'Orsi a Megera, campagna che durò cinque mesi. Questa
esperienza, entusiasmò tanto il giovane melillese, che da quel momento
sentì nascere dentro di sé una vera e profonda amicizia, totalmente
ricambiata, per l'Orsi, amicizia durata più di mezzo secolo e di cui si
trova ampia traccia nei famosi "taccuini neri" di Paolo Orsi, conservati
alla Sovrintendenza di Belle Arti di Siracusa.
Assieme all'amicizia, nacque, nell'animo di Giulio, l'interesse e la
passione per l'archeologia, per la ricerca tangibile e reale del
passaggio di quelle "antichissime genti", a cui si sentiva fortemente
unito da atavici legami. Sono di questo periodo importanti sue
pubblicazioni come: "Vasi greci della Sicilia" e l'importante monografia
del 1916 dedicata al Teatro Greco di Siracusa, che resta ancora oggi
un'opera fondamentale per capire le trasformazioni che nel tempo, ha
subito questo grande e storico monumento.
Ma malgrado questo amore per la sua terra, per la sua Siracusa, per
l'interesse sulla storia e l'archeologia dell'isola, Giulio lasciò
definitivamente l'insegnamento nei licei siciliani per entrare
nell'amministrazione delle Belle Arti, prima come ispettore del Museo di
Napoli, senza dubbio su segnalazione di Paolo Orsi, e appena un anno
dopo come ispettore presso gli scavi del Foro Romano e come direttore
del Museo Nazionale delle Terme. Iniziò così il periodo romano nella
vita di Giulio Emanuele Rizzo, accolto all'Accademia dei Lincei, che ne
consacrò le capacità, ed invitato più volte a colazione dal re Vittorio
Emanuele III nella sua tenuta di Castel Porziano.
Nel 1907 vinse il concorso per la cattedra di archeologia
dell'Università di Torino. Cominciò così una nuova esperienza, quella di
professore universitario, conteso dalle tre più prestigiose università
del tempo: Torino, Roma, Napoli. Alle doti del maestro, alla sua
profonda conoscenza, associava una parola incisiva, precisa, che non
mancò di accusare, durante il periodo fascista un regime nemico di ogni
libera ricerca. Durante tutto quel periodo, la sua sola consolazione fu
la preparazione del volume "Le monete greche in Sicilia", che fu
pubblicato solo dopo la guerra, nel 1946, volume che non è soltanto
un'opera numismatica, ma un'originale opera d'arte, concepita e
realizzata per la prima volta da uno storico dell'arte che era pure
numismatico. Rizzo visse gli ultimi anni della sua vita a Roma, con la
difficoltà della guerra, tormentato dalla malattia e dalla solitudine in
cui lo aveva spinto la morte della sua adorata moglie, nel 1931.
Relativa a quegli anni è la foto che riportiamo in questa pagina. Si
spense a Roma il 30 febbraio del 1950 nella sua casa di via Palestra,
silenziosamente, lui che aveva avuto tutti gli onori accademici, ma che
era rimasto sempre un uomo semplice, un uomo per il quale la verità e il
rigore scientifico avevano contato più degli onori e di ogni gloria.
Sappiamo dai suoi scritti che negli ultimi anni pensò ad un ritorno a
Siracusa, probabilmente a Scala Greca, dove potesse vivere con il
sollievo degli studi e il conforto degli amici.
Per diversi motivi, il suo sogno non poté realizzarsi, ma egli rimase
sempre un siciliano a Roma. La sua sicilianità fu sempre per lui un
fattore essenziale, uno stato morale imprescindibile. Figlio della sua
terra, legato alla sua terra, venne definito "l'archeologo esteta della
Magna Grecia". |