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DEFINIZIONI
[definizioni base]
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Definizioni
che TUTTI gli Studenti (frequentanti e non [esami sostitutivi]) devono sapere
bene 0.
Definizione di Sociolinguistica (Berruto 1995, pp. 6-11). Che la SL abbia
molte anime non è una scoperta recente. Fin dai suoi inizi, ciò che è stato inteso
sotto l’etichetta di SL ha avuto interpretazioni e latitudini molto varie e differisce
spesso in maniera sensibile da studioso a studioso, al di là dell’apparente unitarietà
derivante dal fatto che gli elementi in gioco sono sempre, ovviamente, il linguaggio
da un lato e la società dall’altro. I confini dell’area chiamata SL sono pertanto
a tutt’oggi vasti e sfilacciati. […] Presso i sociolinguisti troviamo infatti
tutt’altro che un’augurabile univocità di definizioni: concezioni anche molto
restrittive e concezioni esageratamente ampie (e a volte anche esageratamente
ambiziose) della SL sono ugualmente ben rappresentate. La questione è complicata
dal fatto che le varie concezioni giocano su tre parametri principali tra loro
disomogenei, vale a dire: Il rapporto fra la SL e la linguistica (con accento
sui metodi e sul significato dello studio dei fatti sociolinguistici), la quantità
e il genere dei fenomeni pertinenti (con accento sull’oggetto di studio), la relativa
interdisciplinarità e pluridisciplinarità (con accento sull’impostazione e l’angolatura
di studio). […] L’interdisciplinarità è vista come un ingrediente rilevante della
SL anche da Mioni (1983a: 135): “sotto l’etichetta interdisciplinare di ‘sociolinguistica’
si sogliono raggruppare tutti quegli studi che abbiano come loro oggetto principale
il rapporto tra strutture e usi della lingua e strutture della società”. […] Pare
comunque assodato, volendo tirare le fila dal nostro punto di vista che: a) La
SL è un settore degli studi linguistici, appartiene alle scienze del linguaggio
e non a quelle della società; b) i sociolinguisti si considerano di solito, e
sono prima di tutto, linguisti; c) l’oggetto della SL è assai ampio e non ben
definito, ma comprende comunque fenomeni linguistici visti sotto l’angolatura
della dimensione sociale (assunta per lo più come variabile indipendente). Ci
potremmo dunque avviare a riassumere una definizione di lavoro nei termini seguenti:
la SL è un settore delle scienze del linguaggio che studia le dimensioni sociali
della lingua e del comportamento linguistico, vale a dire i fatti e fenomeni linguistici
che, e in quanto, hanno rilevanza sociale. [...] In sostanza, la SL si configura
come una ‘sorta di linguistica dei parlanti’ (beninteso, spogliando tale formulazione
dal sapore psicologico o idealistico che può avere nel clima culturale italiano),
invece che del sistema: non per nulla, abbiamo detto sopra en passant che la SL
in fondo si interessa di come parla la gente. 1.
Il repertorio linguistico di una comunità è l’insieme delle varietà di
lingua e dialetto simultaneamente disponibili alla maggior parte dei parlanti
di quella comunità, in un certo periodo di tempo. Il concetto di repertorio linguistico
non va semplicisticamente inteso come una mera somma lineare di varietà di lingua,
ma comprende anche, e in maniera sostanziale, i rapporti fra di esse e i modi
in cui questi si atteggiano, la loro gerarchia e le norme di impiego (Berruto
1995, pp. 70-72). Come si vede, il concetto di repertorio è strettamente legato
a quello di comunità linguistica. In Italia il repertorio può essere monolingue
- come in Toscana, in cui dialetto e lingua appartengono allo stesso codice -
ma in genere è bilingue (con diglossia), poiché dialetto e lingua costituiscono
codici distinti. Con codice si intende un insieme di segni e di regole di combinazione
di questi segni. Compito dell'insegnante, dunque, è non l'addestramento di una
varietà, ma l'ampliamento dell'intero repertorio linguistico a partire da quello
effettivamente posseduto dai singoli ragazzi (l'educazione linguistica deve procedere
per ampliamento e non per sostituzione). Come abbiamo detto, nella maggior
parte d’Italia dialetto e lingua appartengono a codici diversi – sono, cioè, sistemi
linguistici distinti, sviluppatisi direttamente dal latino [e non sono certo “corruzione
dell’italiano”!] – per cui la condizione maggioritaria era di bilinguismo con
diglossia: infatti l’italiano costituiva la varietà ‘alta’ del repertorio, in
quanto lingua nazionale, ma essenzialmente limitata agli usi scritti, formali
e, soprattutto, ufficiali (lingua dello Stato e delle sue Istituzioni, lingua
dell’Amministrazione e della burocrazia, lingua letteraria, ecc.), mentre il dialetto
era utilizzato praticamente in tutte le sfere della vita quotidiana e costituiva
la varietà ‘bassa’ del repertorio: quindi dialetto e lingua erano distinti per
ambito d’uso e contemporaneamente gerarchizzati. In Toscana e in una parte dell’Italia
mediana si aveva invece monolinguismo con diglossia, in quanto si presentava la
stessa differenziazione funzionale e gerarchica, ma dialetto e lingua appartengono
allo stesso codice. In realtà, fino agli anni ‘50/’60 tutti conoscevano il dialetto
e ben pochi dominavano l’italiano – cfr. fotocopie sui dati quantitativi – per
cui gli strati sociali inferiori delle aree urbane e le classi rurali presentavano
diglossia senza bilinguismo, mentre la borghesia urbana tendenzialmente presentava
bilinguismo/monolinguismo con diglossia. Negli ultimi decenni, in seguito ai fattori
di italianizzazione (cfr. Corso e P. 3 della Bibl. Non Freq.) e con il passaggio
da una società agropastorale ad una società a forte urbanizzazione, basata sempre
più su industria, commercio e terziario, con l’incremento della mobilità sociale
e della scolarizzazione e, soprattutto, con la capillare esposizione ai media,
si alterna fra aree a bilinguismo/monolinguismo con diglossia (ad es.: Veneto,
provincia toscana, ecc.) e centri maggiori o aree più industrializzate a bilinguismo/monolinguismo
senza diglossia, nel senso che è ampia e diffusa la competenza di dialetto e lingua,
ma con capacità di uso appropriato dell’uno e dell’altro a seconda dei contesti
comunicativi e degli scopi pragmatici. Nelle aree metropolitane e con le giovani
generazioni stiamo assistendo al tendenziale abbandono del dialetto; questo appare
sempre più confinato, al massimo, nella competenza passiva o è recuperato in funzioni
esclusivamente fàtico/espressive (gergo giovanile, alcuni gruppi rap, ecc.) o
con inedite funzioni ‘distintivo/selettive’ da parte delle ‘classi alte’; un capitolo
a sé è poi costituito dal recupero di dialetti e lingue minori in funzione secessionista.
Berruto 1995, pp. 243-249, distingue fra: 1. Bilinguismo sociale o comunitario:
è il caso, ad esempio, della Valle d’Aosta, con bilinguismo sociale italiano-francese
(o del Canada con b.s. francese-inglese); 2. Bilinguismo/monolinguismo con diglossia:
è la situazione della maggior parte delle regioni italiane fino a qualche decennio
fa, in cui l’italiano era lingua colta di pochi e scarsamente usata nel parlato
quotidiano, mentre la stragrande maggioranza della popolazione parlava dialetto
praticamente in tutte le situazioni (o della Svizzera tedesca, in cui si ha forte
specializzazione della varietà A[lta] per lo scritto e della varietà B[assa] per
il parlato); 3. Bilinguismo con dilalia : è la situazione attuale della maggior
parte delle regioni italiane, in cui si assiste alla compresenza “negli usi (almeno
di una parte consistente della popolazione, essendo oggi un’altra parte monoglotta
italiano e una piccolissima minoranza monoglotta dialetto) di italiano e dialetto”;
la “dilalia si differenzia fondamentalmente dalla diglossia perché il codice A
è usato, almeno da una parte della comunità, anche nel parlato conversazionale
usuale, e perché, pur essendo chiara la distinzione funzionale di ambiti di spettanza
di A e di B rispettivamente, vi sono impieghi e domini [cioè “classi di situazioni”]
in cui vengono usati di fatto, ed è normale usare, sia l’una che l’altra varietà,
alternativamente o congiuntamente. E’ la situazione da considerare tipica della
maggior parte dell’area italo-romanza”; 4. Bidialettalismo o polidialettalismo
(o dialettìa sociale): è la situazione sociolinguistica in cui nel repertorio
ci sono una varietà standard e diverse varietà regionali e sociali, manca un grado
relativamente alto di distanza ai diversi livelli di analisi, la popolazione possiede
con maggior o minore agio sia la varietà standard sia la varietà regionale e sociale
che le pertiene, anche se usa normalmente solo quest’ultima (che non è per nulla
standardizzata e può a sua volta contare ulteriori sottovarietà sia interne, sia
intermedie fra essa e lo standard) nella conversazione quotidiana; la vicinanza
strutturale impedisce una reale coscienza di promozione di B come lingua alternativa,
e favorisce la frequenza degli usi commisti di A e B. Si tratta della situazione
tipica dell’Inghilterra, di parte della Francia; e, in Italia, è la situazione
della Toscana e, presumibilmente, di Roma”. In ogni caso, è da evitare in
modo assoluto l’identificazione del dialetto con il codice ristretto di B. Bernstein,
che designa invece “l’abitudine generale all’uso implicito della lingua o, anche,
l’incapacità (o incompetenza) di verbalizzazione esplicita” (U. Ammon 1994: 579)
e si deve sempre tener presente che i dialetti italiani sono sistemi linguistici
evolutisi per tradizione diretta dal latino e non “corruzione dell’italiano”.
La distinzione fra dialetto e lingua è di natura extralinguistica: fra di essi
c’è stata una specializzazione funzionale, ma – a livello di sistema linguistico
- non c’è nessuna inferiorità dell’uno rispetto all’altra. 2.
La comunità linguistica è costituita da un insieme di persone, di estensione
indeterminata, che condividano l'accesso a un insieme di varietà di lingua e che
siano unite da una qualche forma di aggregazione socio-politica. L'insieme di
varietà di lingua e l'estensione dell'aggregazione possono essere stabiliti di
volta in volta (Berruto 1995, 72). I parlanti di una data comunità linguistica
condividono non solo la conoscenza di diverse varietà del repertorio linguistico,
ma anche la competenza delle regole di tipo sociale che governano l'uso e la scelta
dell'una o dell'altra varietà del repertorio. La comunità linguistica, dunque,
condivide una competenza linguistica, ma anche una competenza comunicativa, che
porta a riconoscere l'appropriatezza situazionale e funzionale, che regola l'utilizzazione
di ciascuna varietà di ciascun codice del repertorio linguistico di una data comunità. 3.
Varietà di lingua. Cfr. BERRUTO 1995, pp. 75-6: “Ogni membro riconoscibile
di un repertorio linguistico costituisce una varietà di lingua. […] Ciò che individua
una varietà di lingua è il co-occorrere, il presentarsi assieme, di certi elementi,
forme e tratti di un sistema linguistico e di certe proprietà del contesto d’uso:
dal punto di vista del parlante comune una varietà di lingua è infatti designabile
come il modo in cui parla un gruppo di persone o il modo in cui si parla in date
situazioni. Le varietà di lingua sono insomma la realizzazione del sistema linguistico
in, o meglio presso, classi di utenti e di usi: più tecnicamente ‘forme convenzionalizzate
di realizzazione del sistema’, che rappresentano un modello ricorrente di concretizzazione,
attivato dal contesto socio-situazionale, di alcune delle possibilità insite nel
sistema. [...] una varietà di lingua è un insieme di tratti congruenti di un sistema
linguistico che co-occorrono con un certo insieme di tratti sociali, caratterizzanti
i parlanti o le situazioni d’uso.”, p. 77: “Una lingua è vista dal sociolinguista
come una somma di varietà; e più precisamente come una somma logica di varietà,
data dalla parte comune a tutte le varietà (il nucleo invariabile del sistema
linguistico) più le parti specifiche di ogni singola varietà o gruppi di varietà.”
e passim [i corsivi sono miei]. 4.
Si definiscono registri le varietà di lingua
legate ai contesti situazionali - ed anzitutto al grado di formalità dell'interazione
- e caratterizzati da usi diversi di elementi fonetici, morfosintattici e semantici
della lingua comune (Es. Buongiorno a Lor Signore e Lor Signori / Buongiorno /
Salve / Oh, ciao. Ho consistenti problemi economici / Non ho soldi / Non ho il
becco d'un quattrino. Il sistema dei pronomi allocutivi di cortesia ne è un altro
esempio evidente). 5.
Lingue speciali (o usi speciali della lingua) Già l'Altieri Biagi ed
altri linguisti hanno da tempo sottolineato che i linguaggi scientifici, nelle
loro attuazioni migliori, si contraddistinguono per la creatività e i notevoli
punti di contatto con le varietà alte e, soprattutto per il passato, con la lingua
letteraria. Queste caratteristiche e la capacità di interagire da una parte con
la ‘lingua comune’ e dall'altra con la ‘lingua letteraria’ fanno sì che i linguaggi
specialistici costituiscano il terzo polo della comunicazione linguistica. E'
constatazione diffusa che i linguaggi scientifici hanno ormai in parte sostituito
la letteratura nel ruolo di modello di prestigio, cui si ricorre anche per innalzare
l’italiano comune. Tutto questo pone nuovi e improgabili compiti alla scuola
superiore, che non può continuare ad attardarsi nella convinzione pregressa che
la lingua letteraria sia "IL" modello esclusivo: è forse il più alto, certamente
quello più amato da tutti noi, ma non è l'unico ed è ormai insufficiente a garantire
da solo una piena alfabetizzazione funzionale. Senza retorica ma anche senza banalizzazioni,
è 'dato di fatto' che per essere membri di pieno diritto di una comunità linguistica
occorre avere anche abilità operative e procedurali e competenze linguistiche
alte: ad esempio, capire davvero le leggi e le comunicazioni pubbliche che regolano
la nostra vita civile, un saggio scientifico o una relazione tecnica, un referto
medico o anche semplicemente un telegiornale spesso è tutt'altro che facile.
Abbastanza recentemente, Sobrero ha risolto - con una proposta tassonomica - che
seguirò da vicino - una certa confusione terminologica preesistente tra linguaggi
speciali, linguaggi specialistici, linguaggi settoriali, microlingue, ecc. Anche
Dardano 1994 b, n. 1, osserva: “Riflettono in parte i diversi orientamenti dell’analisi
le varie etichette attualmente in uso: ‘sottocodici’ (funzionalismo), ‘linguaggi
settoriali’ (interesse per gli utenti), ‘lingue speciali’ (in cui si comprendono
di solito i linguaggi tecnici e quelli scientifici). Tuttavia tra gli studiosi
l’accordo non è completo” e ricorda come De Mauro 1982b: 131 preferisca parlare
di ‘usi speciali della lingua’. Sobrero definisce lingue speciali (LS) quelli
che Berruto chiama invece sottocodici e cioè le varietà di lingua note come varietà
situazionali o funzionali-contestuali o, meglio, diafasiche “che sono utilizzate
per comunicare determinati argomenti, legati a particolari attività lavorative
e professionali, come ad esempio la matematica, la biologia, la linguistica, la
musica, lo sport. La caratteristica principale dei sottocodici/lingue speciali
è quella di avere un lessico specialistico. In molti di essi, riferiti agli ambiti
della tecnica e della ricerca scientifica, il lessico specialistico si configura
come una vera e propria nomenclatura, cioè un insieme di termini ciascuno dei
quali ha una definizione concettuale esplicita all’interno di una tassonomia gerarchica.
A sua volta la tassonomia è determinata da una classificazione scientifica (o
tecnica) che dipende dalle strutture concettuali tipiche della disciplina” .
Vedi anche la definizione, forse più trasparente, di Cortelazzo 1990: 5-6: “per
lingua speciale si intende una varietà funzionale di una lingua naturale, dipendente
da un settore di conoscenze o da una sfera di attività specialistici, utilizzata,
nella sua interezza, da un gruppo di parlanti più ristretto della totalità dei
parlanti la lingua di cui quella speciale è una varietà, per soddisfare i bisogni
comunicativi (in primo luogo quelli referenziali) di quel settore specialistico;
la lingua speciale è costituita a livello lessicale da una serie di corrispondenze
aggiuntive rispetto a quelle generali e comuni della lingua e a quello morfosintattico
da un insieme di selezioni, ricorrenti con regolarità, all’interno dell’inventario
di forme disponibili nella lingua”. Sobrero 1993 ridefinisce le lingue speciali
(LS) come comprensive dei due sottoinsiemi costituiti, rispettivamente, da: 1.
le lingue specialistiche (LSP) delle discipline a specializzazione avanzata (come
le scienze, la medicina, la fisica, l'informatica, la linguistica, la politologia,
la giurisprudenza, la trattatistica architettonica, ecc.) e 2. le lingue settoriali
(LST) di settori o ambiti professionali meno specialistici o comunque dirette
ad un pubblico più largo e indifferenziato (la lingua dei giornali, della pubblicità,
della moda, dei politici militanti, della pratica giudiziaria, della critica -
compreso quella architettonica - e soprattutto il linguaggio burocratico). Le
lingue specialistiche hanno un lessico specifico e 'regole' peculiari convenzionalmente
stabilite e accettate: modalità di formazione dei neologismi, scelte sintattiche
preferenziali, strutture testuali codificate, ecc. Le lingue settoriali, invece,
hanno un lessico specifico molto ridotto e una scarsa regolazione convenzionale,
mentre sono spesso tributarie della lingua comune o di altre LS, da cui attingono
parole, espressioni, metafore, tecnicismi collaterali, ecc. Questa distinzione
- fondata sul grado di specializzazione - in alcuni casi può risultare problematica,
ma è certamente di grande utilità analitica. Il lessico delle lingue speciali
è costituito da tecnicismi primari – convenzionalmente definiti e talvolta addirittura
codificati – funzionali a fini di precisione e di economia (e talvolta anche di
neutralità emotiva) e da pseudotecnicismi o tecnicismi collaterali (secondo la
definizione di Serianni) , cioè da “quelle particolari espressioni stereotipiche,
non necessarie, a rigore, alle esigenze della denotatività scientifica, ma preferite
per la loro connotazione tecnica" (Serianni), per cui "una determinata lingua
speciale non si distingue solo per il suo peculiare lessico specialistico, ma
anche per un suo peculiare alone lessicale non altrettanto specialistico" (Mengaldo)
. Inoltre, si tenga sempre presente che le lingue speciali si caratterizzano a
tutti i livelli linguistici: da quello lessicale a quello morfosintattico, fino
al piano testuale (mentre l'addestramento scolastico esplicito spesso tende ad
arrestarsi alla nomenclatura) . Sulle differenziazioni interne ai linguaggi
scientifici e sulle scale di crescente formalizzazione, cfr. De Mauro 1982b: 132
e 1988: 9-19; per una sintesi cfr. Dardano 1994b: 501: “Ai nostri fini interessa
sottolineare una conclusione cui giunge [De Mauro]: dal momento che è fondata
su assiomi, una scienza ‘dura’ (come la matematica o la fisica) ha un bisogno
piuttosto ridotto di termini specialistici e sconosciuti alla lingua comune. Invece
a tale specificità formale devono ricorrere, con maggiore insistenza, le ‘scienze
molli’, che hanno un continuo bisogno di differenziarsi dalla lingua comune mediante
particolari scelte lessicali: si pensi, ad esempio, alla stessa linguistica, con
le sue varie specializzazioni. A questo quadro di riferimento è opportuno aggiungere
una precisazione: la scelta dei vocabolari scientifici è condizionata anche da
fattori storici.” [I corsivi sono miei]. Va ricordato poi che anche le lingue
speciali sono sottoposte a variazione verticale o diafasica, sulla base della
varietà dei destinatari, delle situazioni comunicative e delle funzioni. In particolare,
a partire dalla fine degli anni settanta si è notevolmente sviluppato un filone
di studi, che tende a correlare la stratificazione orizzontale delle LS con quella
verticale introdotta dalla varietà dei destinatari, delle situazioni comunicative
e delle funzioni . Le analisi della stratificazione verticale delle lingue speciali
hanno prodotto modelli a gradi diversi di differenziazione: si va da dai tre di
Ischreyt 1965 e Cortelazzo 1990 [1994, II ed.] ai sei della Loffler-Laurian 1983.
Nell’insieme, prevale l’individuazione di almeno tre livelli, per cui, ad esempio,
Gotti 1991 distingue tra I) esposizione scientifica (con cui l’esperto si rivolge
ad altri specialisti), II) istruzione scientifica (nella quale l’esperto si rivolge
a dei non-specialisti con finalità esplicative e le cui realizzazioni tipiche
sono costituite dalla manualistica universitaria e dai manuali d’istruzione) e,
infine, III) giornalismo scientifico (in cui lo specialista informa su concetti
tecnici ricorrendo il più possibile alla lingua, e all’esperienza, comune). Più
in generale si può osservare che il parametro fondamentale di differenziazione,
che regola l’intricata organizzazione della dimensione verticale, è sostanzialmente
costituito dalla diversità per ampiezza e tipologia degli utenti e dei destinatari
di volta in volta ‘mirati’ . Sappiamo tutti anche che la divulgazione scientifica
in Italia costituisce - nonostante la sterminata letteratura in proposito - uno
dei problemi tradizionalmente irrisolti, con grave danno culturale e ‘civile’.
6.
Un particolare tipo di varietà diastratiche e contemporaneamente funzionali-contestuali
è costituito dai gerghi, usati da particolari gruppi
sociali o socioprofessionali a fini criptici - cioè di esclusione dalla comunicazione
dei non appartenenti al gruppo (come nel gergo della malavita) - o a fini fàtici
(come nel gergo giovanile, in cui parole ed espressioni tipiche, 'parolacce',
ecc. funzionano come 'ammiccamento' del riconoscersi parte dello stesso gruppo). 7.
Lo svantaggio sociolinguistico. Oggi si pone il problema e l’esigenza di
focalizzare e ridefinire che cosa sia attualmente lo svantaggio sociolinguistico,
in modo da focalizzare “il rapporto molteplice fra collocazione sociale del parlante,
gamma di varietà di lingua a disposizione nel repertorio e loro valutazione, ‘spendibilità’
e peso socio-culturale”. Cfr. Berruto in Colombo-Romani 1996, 37-8: "lo svantaggio
sociolinguistico nel contesto della situazione sociolinguistica italiana, lo identificherei
anzitutto come una somma (o un prodotto?) di fondamentalmente due fattori. Da
un lato, l'essere parlanti nativi di una varietà sociogeografica di lingua (intendendo
con questo la varietà tipica del gruppo sociale da cui si proviene e di cui si
è membri) sanzionata negativamente, verso la quale cioè gli atteggiamenti socioculturali
diffusi sono negativi, deprezzanti; dall'altro lato, il possedere una gamma ridotta
di varietà funzionali-contestuali della lingua (il che equivale a dire non avere
la capacità di differenziare le proprie prestazioni linguistiche in modo tale
da poter compiere con la lingua una gamma ampia e variegata di funzioni […] L'unione
dei due fattori suddetti significa per esempio che in Italia […] è linguisticamente
svantaggiato chi ha come varietà nativa un dialetto, o una lingua di minoranza,
o l'italiano popolare, e contemporaneamente non possiede un ventaglio di varietà
funzionali-contestuali tali da metterlo in grado di usare la lingua per realizzare
un’ampia gamma di compiti, specie sul versante formale e dell’uso intellettuale
della lingua. De Mauro , a sua volta , ha richiamato l'attenzione su come,
fra le tante condizioni che provocano la multiformità degli svantaggi, ci siano
sicuramente a livello linguistico: distanze di lingua-sistema: è il caso dei
dialettofoni o dei parlanti una lingua di minoranza e degli immigrati stranieri;
distanze di lingua-norma: è il caso, ad esempio, di chi non riesce ad oltrepassare
la soglia di un 'italiano popolare' marcato in diastratia e contemporaneamente
in diatopia; distanze di lingua-uso: è il caso di chi non riesce a padroneggiare
la gamma di variazione della lingua e resta compresso fra i due poli costituiti
da un italiano parlato più o meno povero e stereotipico e un uso 'scolastico'
o 'burocratico' (e magari contemporaneamente popolare) per lo scritto . Cfr.
anche modello dello spazio linguistico di De Mauro. Sullo svantaggio sociolinguistico
in Toscana e nell’Italia mediana v. altre fotocopie e Maffei Bellucci 1984b (P.
8 Bibl. non Freq.). Sull’atteggiamento da tenere nei confronti del dialetto,
vedi Grassi-Sobrero-Telmon 1997: 28-29 e 31 e fotocopia relativa della Lavinio. 8.
Il lessico. Nella linguistica quantitativa si definisce frequenza “la percentuale
di presenze di un determinato fenomeno, rilevata all’interno di un determinato
campione” , in sintesi il numero assoluto delle occorrenze. Per esempio, in un
manuale di Storia dell’arte, parole come affresco o sinopia, chiaroscuro, policromia
o panneggio saranno quasi certamente parole ad alta frequenza, ma ne avranno una
ben più bassa, probabilmente nulla, se il corpus è invece costituito da un insieme
di conversazioni quotidiane. Ecco, quindi, che occorre considerare, nei corpora
di volta in volta esaminati, anche la dispersione di ciascun termine, cioè il
numero di generi e tipi di testi diversi - orali, scritti o trasmessi che siano
- “in cui la parola appare. Se la parola appare in tutti i tipi di testi del campione,
ha una ‘dispersione’ massima. Se appare in un solo testo, ha una dispersione minima.
Moltiplicando frequenza e dispersione, le parole più ‘disperse’ acquistano l’importanza
loro dovuta. Dalla moltiplicazione di frequenza e dispersione abbiamo ciò che
i linguisti chiamano ‘uso’ della parola.” . Fra le parole citate sopra, ad esempio,
solo affresco è parola di alto uso. Aggiungiamo infine il termine disponibilità
, con cui si designa “La possibilità del parlante di accedere a unità immagazzinate
nella sua memoria. Lessico disponibile è quello sicuramente presente nella memoria,
indipendentemente dall’effettiva frequenza d’uso (che può essere anche molto bassa)”
. Parole come casa, pianoterra, muro, tetto, cemento armato, conduttura, decorazione,
scalinata, pianoterra, mobilio, mosaico, pittura e scultura, ecc. potrebbero anche
essere completamente assenti in un determinato corpus, ma sono certamente di alta
disponibilità per ogni adulto parlante italiano . Il lessico comune di una
lingua è costituito dalle parole che “persone appartenenti a parecchie categorie
e regioni diverse, più esattamente parecchie persone di parecchie categorie abbastanza
diverse tra loro, possono capire e perfino usare in un qualunque discorso, con
un interlocutore di qualunque categoria professionale o regionale ” . Più tecnicamente,
possiamo precisare che sono parole caratterizzate contemporaneamente da alto uso
o alta disponibilità e, soprattutto, da alta dispersione. Pensiamo a voci come
affresco (ma non sinopia), architettura (ma non beccatello o rinfianco), casa
(ma non concio), colonna (ma non rastremazione o perìstasi), muro (ma non strombatura),
pittura (ma non cromìa o encausto), prospettiva (ma non punto di fuga o sottinsù),
scultura (ma non sottosquadro), teatro (ma non càvea o kòilon), e così via.
Su VDB, BDVDB, LIP, LIR, ecc., cfr. Bibliografia Non Frequentanti. Campi semantici
o lessicali: cfr. soprattutto Dardano 1993 § 3.7: 314-316 sull’iponimia e, in
particolare, 321: “Un campo lessicale è, nella prospettiva strutturale, un paradigma
lessicale, che scaturisce dalla segmentazione di un continuum lessicale di contenuto
in diverse unità, che nella lingua si presentano alla stregua di parole: queste
unità si dispongono in opposizioni immediate tra loro in forza di semplici tratti
semantici distintivi’ (Coseriu 1967 [1971]: 304). I componenti di un campo semantico
sono sememi tra loro simili aventi in comune perlomeno un sema, il quale rappresenta
la base definitoria della classe (Schifko 1992: 139): si tratta dell’arcisemema,
presente con una forma lessicalizzata oppure con un sintagma sovraordinato. I
sememi del campo appartengono di norma (ma non necessariamente) alla stessa categoria
grammaticale”. Lessemi e unità lessicali superiori: cfr. soprattutto Dardano
1993: 292: “Il linguista distingue tra la ‘parola’ e il ‘lessema’, un’unità lessicale
più generale, comprendente sia i singoli elementi sia le ‘unità lessicali superiori’,
vale a dire gli insiemi di elementi che, dal punto di vista del contenuto, hanno
la stessa funzione delle parole semplici [...]. Secondo un concetto estensivo
di lessema, rientrano in tale categoria anche le espressioni idiomatiche [...],
che hanno un significato non deducibile dai significati dei propri costituenti,
diversamente da quanto accade nei sintagmi liberi, formati secondo le regole della
sintassi e della semantica combinatoria.” e Dardano 1994a: 426: “Da un punto di
vista generale i neologismi si distinguono in due specie: sintattici, o di combinazione,
e semantici. Nei primi rientra ogni tipo di formazione che si ottiene combinando
elementi già esistenti nella lingua: ciò può avvenire al livello di singoli lessemi,
secondo le regole di formazione delle parole, oppure al livello di lessemi complessi,
che non hanno raggiunto l’univerbazione, le cosiddette ‘unità lessicali superiori’
”, con la precisazione alla n. 103: “Sull’identificazione e sulla classificazione
di tali ‘unità lessicali superiori’ (denominate anche in altri modi nella letteratura
specialistica: lessie complesse, sintemi, unità fraseologiche complesse) non vi
è accordo tra gli Studiosi.”
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