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Testi a cura di Simonetta Berardi

RUVO NEL MEDIOEVO

In seguito al declino e alla successiva caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.), Ruvo subì la stessa sorte distruttiva delle altre città pugliesi, dovuta alle numerose invasioni barbariche.  Dominata dai Bizantini, quindi distrutta dai Goti nel V secolo, Ruvo venne conquistata dai Longobardi nella seconda metà del VI secolo. Alla dominazione longobarda seguì l’occupazione dei Saraceni, i quali dopo aver preso Bari nell’847, costituirono a Ruvo una stabile guarnigione, a cui seguì la nascita del quartiere urbano posto a nord-est dell’antico centro abitato, tra la Cattedrale e la chiesa del Purgatorio, ancora oggi denominato “Fondo Marasco”, alterazione del nome “Moresco”.

Sino al IX secolo la città ruvese attraversò un periodo abbastanza controverso dovuto alle frequenti lotte tra Longobardi e Bizantini, i quali si contendevano il territorio pugliese.

Secondo la storiografia locale, si deve aspettare l’inizio dell’XI secolo per avere a Ruvo la stabile presenza di una sede vescovile che oltre a dare prestigio alla città, determinava conseguentemente un flusso di interessi sia culturali che economici. La scelta per tale sede vescovile ricadde proprio su Ruvo, poiché il suo territorio, notevolmente esteso e ricco di risorse agrarie, dove probabilmente la proprietà fondiaria della Chiesa era già di una qualche consistenza, costituiva una garanzia per le necessità a cui il vescovado doveva far fronte. Lupo Protospatario ne da testimonianza nella sua “Chronicon”, dove riferisce che il vescovo di Ruvo Gilberto nel 1089 aveva donato al priore di Montepeloso (attuale Irsina), la chiesa di San Sabino. Inoltre l’abate G. Ursi, in un suo manoscritto del 1834, riporta la notizia della esistenza nel 1009 della chiesa di san Giovanni Rotondo, per un episodio legato proprio alla presenza del vescovado ruvestino.

Con l’avvento intorno al 1040 dei Normanni in Puglia, Ruvo venne conquistata da Ruggero. Degno di nota appare l’episodio, riportato costantemente dagli storici locali, circa il fatto che solo con la resa di Ruvo, ottenuta dopo un lungo combattimento, i baroni pugliesi accettarono di sottomettersi a re Ruggero. Tale episodio induce a pensare che Ruvo fosse già munita di un efficace sistema difensivo, tra cui probabilmente erano compresi il primo impianto del Castello e la torre Campanaria della Cattedrale, sorta originariamente (XI secolo) come torre di difesa.

Risale al periodo normanno ed in particolare all’epoca in cui era feudatario Roberto di Bassaville, conte di Conversano e Loretello  la notizia circa l’esistenza del Castello di Ruvo, in quanto questi, per in ingraziarsi Daniele, vescovo della città, concesse dal suddetto Castello nel 1179 alcuni beni alla chiesa di S. Leonardo di Siponto.

Questo è il contesto storico-sociale e culturale che prepara alla fondazione della Cattedrale di Ruvo, completata durante la dominazione sveva.

 

L’autonomia del feudo di Ruvo terminò nel 1269, (inizio del regno angioino) con Carlo I d’Angiò, quando esso fu inserito nel giustizierato di Terra di Bari e concesso a Rodolfo de Colant. L’infeudazione di Ruvo alla famiglia De Colant costituì uno dei periodi più tristi della città, ridotta in povertà a causa delle continue vessazioni del feudatario e del Re.

Seguirono poi, le alterne vicende legate al regno della Regina Giovanna I (succeduta nel 1343 al nonno Roberto d’Angiò) ed al re Luigi d’Ungheria, sbarcato in Puglia per vendicare la morte del fratello, consorte di Giovanna I, il quale sembra sia stato ucciso da Gazzone de Denysiaco, conte di Terlizzi e feudatario di Ruvo, su istigazione della stessa regina, che per sfuggire al re fu costretta a rifugiarsi in Provenza.. Il ritorno di Giovanna a Napoli nel 1348, dopo la partenza di Luigi d’Ungheria, determinò la riconquista delle città pugliesi fedeli all’ungherese, tra cui Ruvo. In tale circostanza le fortificazioni del borgo antico ed il Castello non riuscirono a fermare Roberto Sanseverino, alleato della regina Giovanna, che espugnò la città e cacciò da questa gli ungheresi. Probabilmente proprio in questo periodo si provvide alla risistemazione del castello e alla costruzione della Torre di Pilato (crollata nel 1881).

 
STORIA DELLA CATTEDRALE

LA NASCITA DELLA CATTEDRALE

La Cattedrale, dedicata all’Assunta, nella sua forma attuale, è il frutto di lunghe e travagliate sessioni costruttive iniziate nel XII  e conclusesi verso la metà del XIII secolo.

In mancanza di documenti cartacei che fissino nel tempo la nascita e la paternità dell’edificio, è possibile risalire all’epoca della sua costruzione, leggendo tutto il palinsesto che è di fronte a noi. Seguendo un’antica tradizione e ricordando quanto scrive l’Ughelli nella sua Italia Sacra e interpretando una lapide conservata in cattedrale nella cappella del Santissimo (un tempo coro di notte), è stata formulata un’ipotesi abbastanza plausibile. In seguito alla distruzione completa della città ruvese e della sua prima cattedrale a causa di eventi bellici della metà del XII secolo, il Conte di Loretello e Conversano, nonché Signore di Ruvo, Roberto II di Bassaville insieme al vescovo Daniele, si impegnarono nella edificazione della nuova Cattedrale: quella che è giunta sino a noi.

         La conclusione di lavori si ebbe all’inizio del XIII secolo, come dimostra il fatto che alla morte del vescovo Daniele, dopo il 1183, la sua salma venne deposta nella chiesa della SS. Trinità, sita vicino la Cattedrale, non essendo stata questa ancora ultimata.

 

LE TRASFORMAZIONI DI ETA’ MODERNA

La Cattedrale subisce importanti trasformazioni e cambiamenti anche in Età Moderna.

Le indagini e gli studi condotti sul monumento si basano sul confronto tra fabbrica e fonti documentarie: fra queste assumono un ruolo importante le relationes ad Limina Apostolorum. In particolar modo dalle prime quattro relazioni delle visite ad Limina compilate dal Vescovo minorita Fra Gaspare Pasquali, si deduce che nel 1589 la Cattedrale  contava oltre all’altare maggiore, ben dodici altari laterali che successivamente vennero aumentati a quattordici. I dodici altari potevano essere collocati contro i muri d’ambito delle navatelle, in corrispondenza dei cinque fornici delle rispettive campate e delle due absidiole; a questi si aggiunsero altri due altari, forse collocati simmetricamente sulle due pareti del transetto a nord e a sud. Come si può evincere, la chiesa segue l’andamento di una pianta basilicale a croce latina a cui si aggiungeva la sagrestia, attestata lungo la parete settentrionale del transetto.

Pur esistendo la sagrestia e l’adiacente episcopio, di cui si ha notizia sin dal 1452, alla fine del XVI secolo alla Cattedrale non era stata aggregata alcuna cappella; tuttavia sin dal 1593, si ha notizia di una confraternita del Santissimo Sacramento che assiste gli infermi associati a tale sodalizio; della edificazione di una cappella dedicata al Santissimo Sacramento si avrà notizia solo nel 1640 durante l’episcopato di Cristoforo Memmolo, nominato vescovo nel 1621. Da quanto ricostruibile dai segni lasciati sulla fabbrica e confrontati con le scarne informazioni delle fonti, è probabile che sino al 1640 la Cattedrale di Ruvo fosse affiancata sul lato della navatella sinistra, dalla sagrestia e dalle cappelle di S. Biagio e del SS. Sacramento, mentre alla navatella destra non era ancora stato aggiunto alcun corpo. La facciata della cattedrale doveva presentarsi più stretta dell’attuale, rimanendo definita dagli allineamenti originari dei muri perimetrali delle navate laterali.  

I successori di Cristoforo Memmolo si trovarono a fronteggiare un periodo difficile, minato dalle frequenti tensioni con il potere laico: in Cattedrale fu demolito l’altare maggiore e sostituito con il trono di Ettore Carafa, duca di Andria e signore di Ruvo. Fortunatamente nel 1697 si dotò la Cattedrale di un nuovo e sfarzoso altare. Nel 1725 il vescovo Bartolomeo Gambadoro fece demolire l’antico Episcopio che fu ricostruito dalle fondamenta, ampliato e dotato di maggiori possibilità di alloggio. Tale edificio fu poi sostituito dall’attuale palazzo vescovile, realizzato nel 1925 su progetto dell’ing.  L. Sylos.

         In facciata, in corrispondenza degli archetti pensili del saliente di destra vi è una lapide che ricorda la realizzazione dei lavori per l’ampliamento della fabbrica, voluto dal vescovo Giulio de Turris nel 1749. Egli nella sua “visita ad limina” del 1744 poté ben dire che “la Chiesa Cattedrale dedicata alla Vergine Assunta, una volta di mediocre struttura, sotto il mio presulato è ormai splendente in forme più eleganti”, riferendosi naturalmente alla costruzione di nuove cappelle e al restauro di quelle già esistenti, tra cui quella di S. Biagio e del SS. Sacramento, collocate lungo la navata sinistra. L’edificazione di nuove cappelle comportò non solo uno sforzo finanziario da parte del vescovo, ma anche la soluzione di un problema di immagine. Le nuove cappelle, infatti, non avrebbero potuto che collocarsi lungo il fianco destro della fabbrica, rimasto privo di aggregazioni. La realizzazione delle nuove cappelle richiedeva una soluzione anche per le aggiunte sul lato sinistro.  Lo spazio disordinato, occupato fino allora dalla Cattedrale e dalle sue aggiunte doveva diventare una piazza conclusa dall’edificio più significativo per la collettività, nel 1744 la facciata fu quindi allungata di 2,40 metri per lato.

I lavori di ampliamento della chiesa, conclusi poco prima della morte di Mons. De Turris (1759), consegnarono al popolo ruvestino una Cattedrale caratterizzata da numerose aggregazioni: lungo la navata sinistra vi erano il coro di notte, la Cappella del Crocifisso, di S. Biagio, del SS. Sacramento (detto “Cappellone”) e di S. Lorenzo; lungo la navata destra a partire dall’ingresso vi erano le cappelle dedicate all’Addolorata, ai SS. Medici,  alla Madonna di Costantinopoli, a S. Michele e alla Madonna di Pompei. Attualmente, nell’intercapedine da cui si accede all’ipogeo, si leggono ancora le tracce superstiti della decorazione delle cinque cappelle del fianco destro.

         Inoltre al 1749 risalgono il controsoffitto ligneo decorato e tre tele di Luca Alvese. I lavori condotti durante il presulato di Mons. De Turris diedero alla Cattedrale una nuova facies in linea con quella corrente tardo barocca che nella seconda metà del XVIII secolo informò di sé l’interno di molti edifici medievali pugliesi.

 

I RESTAURI DEL ‘900

La successiva riabilitazione del Medioevo condusse alla stagione dei restauri di ripristino, che tra gli anni Quaranta e Cinquanta del 1900, interessarono tutte le maggiori chiese pugliesi.

I restauri eseguiti tra il 1901 e il 1925 coinvolsero il duomo di Ruvo in modo marginale: le strutture murarie erano state toccate solo al fine di demolire le fabbriche che, nel tempo, vi si erano addossate, limitatamente all’esterno della zona absidale, ove si collocava il vecchio Palazzo Vescovile.  All’interno, invece, le sole modifiche apportate, avevano riguardato il rilassamento del livello pavimentale, la costruzione del nuovo ciborio, realizzato sul modello di quello della Basilica di San Nicola a Bari, e l’apposizione di una vetrata policroma raffigurante “l’Immacolata” a schermatura della finestra dell’abside centrale: questi lavori furono condotti su progetto dell’architetto Ettore Bernik (1850-1914), inviato a Ruvo sul finire del XIX secolo (1897-’98) dalla Soprintendenza ai Monumenti.  Contemporaneamente si era abbassata anche la quota del sagrato esterno che aveva permesso il riaffiorare dell’originario piano basamentale della facciata e il riemergere dei telamoni sottostanti i leoni stilofori ai lati del portale centrale.

Il desiderio di riportare la Cattedrale alla sua originaria veste romanico-gotica portò alla rimozione del controsoffitto ligneo settecentesco e alla demolizione di tutte le cappelle di entrambe i lati della Cattedrale, l’ultima cappella ad essere distrutta fu quella del SS. Sacramento (1935).

Alla demolizione del cosiddetto “Cappellone” e delle altre cappelle, seguì la costruzione dei muri perimetrali delle navatelle; quello di sinistra fu costruito subito dopo la demolizione del Cappellone, ma si deformò e crollò nel 1942, trascinando le volte delle prime due campate; la ricostruzione di questo muro suggerì la soluzione simmetrica per cui furono eliminate le cinque cappelle di destra e, lasciando il muro di fondo di queste, si costruì quello perimetrale della navatella di destra, determinando in tal modo il vano dell’intercapedine da cui si accede all’ipogeo.

Se ne ottenne un’immagine ricomposta della spazialità interna, priva delle superfetazioni controriformistiche, in cui il reintegro delle semicolonne della navatella destra, eliminate per potervi aprire gli archi delle Cappelle laterali, si poneva in continuità formale con le colonne della navata maggiore, per l’uso della stessa base, in distacco netto con le stesse, mediante differente lavorazione superficiale dei capitelli. Con questo restauro si chiude il periodo dei grandi lavori alla Cattedrale, da cui ne deriva l’immagine attuale del monumento a noi consegnata.

 

STORIA DEI RINVENIMENTI AL DI SOTTO DELLA CATTEDRALE

Immagini scavi

- N.1

-N.2

Tra i vari interventi succedutisi nel tempo, quello eseguito nel 1935, durante il quale si ebbe la demolizione della Cappella del SS. Sacramento, comportò l’abbassamento della quota di calpestio del transetto e delle navate. Questi ultimi furono pavimentati con “quadrelle di pietra di 0,35 cm per lato”, per le navatelle si reimpiegarono le lastre preesistenti che vennero quindi disposte perpendicolarmente all’asse longitudinale delle singole navate laterali.

Nonostante la rinnovata pavimentazione, il piano di calpestio risultava molto umido e quasi bagnato; comparivano ampie chiazze umide discontinue che, per la posizione in cui erano dislocate e per l’intensità, non potevano che essere determinate da una differente densità della massa sottostante.

Le varie indagini preliminari condotte sulla topografia e la stratigrafia della città tra il dicembre 1974 e il giugno 1975 davano adito a delle ipotesi suggestive sull’impianto della Cattedrale. Era necessario riesaminare la successione degli strati e dei relativi livelli, proponendo dei saggi per documentare l’esistenza di una eventuale cripta - di cui erano venute alla luce due monofore dopo i lavori di sistemazione  del 1925 - o di altre preesistenze.

Malgrado l’immediata rispondenza tra previsioni e primi rinvenimenti, l’andamento dei lavori fu condizionato dalle lente erogazioni dei finanziamenti, dalle sospensioni, dai rinvenimenti e dalla loro successiva sistemazione. Il progetto prevedeva due zone per l’inizio delle indagini: una nella navatella destra in corrispondenza del dislivello tra il calpestio del transetto ed il piano delle navate, l’altro in corrispondenza della zona centrale della seconda campata della navata sinistra. 

L’intervento nel sottosuolo ha rivelato che la Cattedrale venne costruita sulle macerie di un’area frequentata sin dalla protostoria e che, nascoste dal pavimento moderno, giacevano numerose testimonianze del periodo peuceta, della città romana e medievale, intercettate e rese spesso illeggibili dai grandi contenitori di pietra che servirono per la sepoltura degli affiliati alle Confraternite a partire dall’età della Controriforma e fino al XX secolo.

L’indagine è partita proprio dall’esplorazione di queste tombe che avevano invaso l’area della chiesa secondo criteri di funzionalità. Tali sepolture, coperte con volta a botte, erano raggiungibili attraverso scale e botole, coperte a loro volta da lastre talora di reimpiego. Le camere tombali hanno restituito un campionario di crocifissi, monete, medaglie, anelli, braccialetti, vaghi di collana, spilloni, chiavi, fibule. La costruzione di queste fosse distrusse quindi il tessuto antico laddove impediva la realizzazione degli invasi, utilizzando o soltanto conservando alcune delle murature preesistenti.

 
L’IPOGEO

RESTI DI ETA’ PEUCETA

Entrato nell’ipogeo e girando a destra, il visitatore proseguirà in avanti, incontrando in fondo a destra una parete costruita negli anni Quaranta del ‘900 per obliterare le cappelle barocche. Al di là di tale parete vi è una tomba peuceta già violata in antico. Nella stessa area è evidente una conduttura successivamente tagliata. La parete di questo canale è stata riutilizzata, dopo opportuna scalpellatura, come sponda di un’altra tomba, lunga 160 cm e avente come piano di fondo la roccia. La tomba ha restituito un corredo funerario poco consistente, caratterizzato dalla presenza di vasi acromi frammentari, con l’unica eccezione di un piatto decorato con motivi lineari pertinente alla ceramica geometrica peucezia. Le forme dei vasi ritrovati sono quelle tipiche della produzione apula del IV-III secolo a.C.: l’anfora, il kalathos, il piatto e la coppetta, frequenti nei corredi funerari dei maggiori centri della Peucezia.

Secondo Raffaella Cassano, questi ritrovamenti potrebbero essere pertinenti ad un insediamento del IV-III secolo a.C. che è insieme abitato e necropoli, al quale potrebbero riferirsi i resti di una fornace, riscontrata ad una quota di poco superiore ai 2 metri dal piano di calpestio della navata centrale (terza campata) della cattedrale duecentesca. Tra i materiali raccolti nell’ambito della fornace, pani di argilla cruda, frammenti ceramici minuti, combusti e illeggibili, tegolame, frammenti di vetro e ciottoli di fiume. Il tutto in un letto di cenere. Il rinvenimento della fornace rafforza l’ipotesi della presenza nella zona di officine di artigiani.

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RESTI DI ETA’ ROMANA

L’età romana è documentata già nella fase tardo repubblicana (I sec. a.C.), anche se solo attraverso qualche frammento di battuto pavimentale e i resti di ceramica in vernice nera, ritrovati ad una quota di 3, 96 metri dal piano di calpestio, in corrispondenza della parte destra del transetto sovrastante. 

Nell’area della zona sinistra del transetto fu rinvenuto un tratto di mosaico risalente all’età imperiale. Le tessere bianche e rosse che lo costituiscono, disegnano circonferenze tangenti che determinano quadrati curvilinei. Il pavimento, forse di una domus, presenta un motivo ornamentale diffuso soprattutto nel II secolo d.C. ed è confrontabile con alcuni mosaici ostiensi, ad esempio quello dell’insula delle Pareti Gialle (130 d.C.) o quello dell’insula delle Volte Dipinte (120 d.C.). E’ da mettere in relazione al pavimento musivo anche la colonna a blocchetti squadrati che si trova nell’area della prima campata della navata sinistra.                                                                                                                                                                                                                                

Alla quota di 2 metri al di sotto della terza campata della navata centrale fu rinvenuto un pavimento a mosaico, conservato in tre frammenti e realizzato con tessere bianche, nere e qualcuna in cotto.  Il motivo decorativo è costituito da una balza floreale stilizzata, che disegna ampie volute che si concludono con un fiore cuoriforme. Il tralcio, quasi un nastro ondulato, è reso con una fila di tessere nere. Il mosaico in esame con la sua decorazione a squame-girali, risale alla prima metà del III secolo d.C. e rivela stringenti analogie con il pavimento ostiense della domus di Marte dello stesso periodo. Il manufatto ruvestino potrebbe essere pertinente  ad una domus o ad una terma forse anche domestica. A queste potrebbe essere collegata la cisterna con pareti di intonaco impermeabile messa in luce in corrispondenza della navata destra sovrastante.

I due tratti di pavimento musivo, entrambe di epoca imperiale, potrebbero far parte di un’unica domus, nata nel II sec. d.C. e ampliata nel III secolo; oppure potrebbe  trattarsi di due costruzioni distinte, succedutesi nel tempo. In entrambe i casi siamo di fronte ad un documento della continuità di vita dell’abitato nell’età imperiale che si protrae sino alle soglie della tarda antichità.

 

RESTI DI ETA’ MEDIEVALE

In corrispondenza dell’ingresso del transetto a destra furono rinvenute due tombe che hanno restituito un corredo funerario costituito da anelli, fibule e orecchini. La tomba a sinistra è stata datata tra VI e VIII secolo, mentre quella a destra ha rivelato una cronologia successiva, ma non posteriore all’XI secolo.

Nella navata centrale, in particolare nella seconda, terza e quarta campata, ad una quota di 44 centimetri dall’attuale piano di calpestio, furono rinvenuti quattro frammenti di pavimento in opus tassellatum, relativi ad un edificio di culto andato distrutto. Il frammento più esteso è a grosse tessere bianche con motivi geometrici disegnati da tessere nere e rosate ed è tuttora visibile attraverso lastre in vetro, collocate al termine dei lavori di restauro nella navata centrale sovrastante. Secondo Raffaella Cassano, lo schema disegnativo e la tecnica esecutiva rimandano a numerosi esemplari riferibili a edifici pugliesi dell’XI secolo. Tale livello pavimentale si riferisce all’edificio che precedette quello duecentesco di cui lo scavo ha restituito anche altre emergenze, tra cui un sistema di sostegni, alternativamente a sezione circolare e cruciforme. Essi sono presenti ad interasse regolare nell’area della navata centrale e del transetto e sono relativi all’edificio di culto dell’XI secolo. Opportunamente incamiciata, la maggior parte dei sostegni divenne il supporto dei pilastri della Cattedrale duecentesca, i quali conservano lo stesso allineamento di quelli disattivati. I plinti dei nuovi pilastri e le camicie di quelli più antichi furono costruiti peraltro con gli spogli dell’edificio preesistente, crollato forse a causa di un terremoto, quello del 1088 o piuttosto quello del 1183, entrambe attestati dalle fonti documentarie. Ricorrenti sono infatti le tracce di affresco sui conci di reimpiego nei pilastri di fondazione della nuova chiesa.  

L’assonanza dei sistemi costruttivi dei due edifici e il massiccio reimpiego del materiale lapideo fanno pensare che il cantiere della Cattedrale del Duecento fu impostato a breve distanza di tempo dalla distruzione della chiesa più antica, il cui collasso a causa del terremoto può essere documentato anche dal tipo di lesioni presenti nei plinti. 

 

ESTERNO

Isolata rispetto al contesto urbano, la chiesa presenta un visibile ribassamento del sagrato rispetto all’impianto viario della città. I vari rimaneggiamenti e le modifiche apportate all’edificio religioso tra XVI e XVIII secolo non sono stati tali da cancellarne l’originaria veste romanico – gotica. Tipicamente romanica è la facciata, caratterizzata nella parte inferiore da tre portali, opera di maestranze locali, di cui quelli laterali sono sicuramente di rempiego.

Di grande pregio è il portale centrale, fiancheggiato da due colonnine sormontate da grifi e rette da leoni stilofori, a loro volta sostenuti da telamoni, la cui plasticità si riscontra anche nei personaggi religiosi che affollano l’arco più esterno del portale centrale. In particolar modo al centro dell’arco troviamo Gesù affiancato prima da due pellegrini, provvisti di ramoscelli d’ulivo e poi dalla Madonna e da S. Giovanni Battista, verso di loro convergono sia le creature angeliche, sia i dodici apostoli collocati nel sottarco. Nel secondo arco del portale troneggia l’effige dell’agnello dell’Apocalisse, fiancheggiata dai simboli dei quattro Evangelisti: a sinistra troviamo prima l’Angelo (S. Matteo), poi il Leone (S. Marco), mentre a destra troviamo prima l’Aquila (S. Giovanni), poi il Toro Alato (S. Luca). Al centro del terzo arco interno, in corrispondenza dell’Agnello, due pavoni affrontati , sono rappresentati nell’atto di beccare un grappolo d’uva. Tale tema iconografico simboleggia l’Eucarestia.

Prima di giungere nella parte superiore della facciata, la nostra attenzione viene attratta prima dal piccolo rosone centrale, finemente traforato e circondato da creature demoniache e angeliche, poi dalla bifora, la cui lunetta viene ravvivata da un S. Michele Arcangelo, colto nell’atto di calpestare il serpente.

I numerosi archetti pensili sostenuti da minuscole mensole aventi sembianze umane, zoomorfe e fitomorfe fanno da pendant tra la parte inferiore e quella superiore della facciata. Usando gli archetti come degli immaginari scalini, si giunge nei pressi del gigantesco rosone - terminato in epoca cinquecentesca - sormontato da una nicchia dov’è collocato un misterioso personaggio seduto, difficile da identificare.

L’enigmatica figura del "sedente" rappresenta il finanziatore della chiesa. Il sedente ha un elmetto tondo che gli copre a guscio la testa e indossa una tunica ampia, stretta in vita con una cintura; è seduto su di un seggio e regge sulle ginocchia un elemento orizzontale, ormai frammentario, una sorta di supporto sul quale doveva essere fissato un ipotetico modellino del duomo, nell’atto di essere offerto alla comunità ruvese. Il sedente potrebbe essere una autorità civile o militare: varie circostanze fanno pensare che si tratti di Roberto II di Bassavilla, Conte di Conversano e Loretello e Signore di Ruvo, figlio di Roberto I di Bassavilla e cugino del re normanno Guglielmo I il Malo.

La facciata culmina con la statua di Gesù Risorto che regge una bandiera segna vento.

Immagini esterno N.1

Immagini esterno N.2

Immagini esterno N.3

 

INTERNO

La chiesa, impostata su pianta a croce latina, presenta un corpo longitudinale articolato in tre navate, terminanti con tre absidi collocate nella zona del transetto. Mentre la navata centrale e il transetto sono caratterizzati da una copertura a capriate, costituita cioè da travi lignee, le due navatelle hanno una copertura con volta a crociera. La navata centrale risulta separata dalle navate laterali da un sistema di pilastri cruciformi. Si può notare come i pilastri della navata destra, sebbene cruciformi, risultino più rotondeggianti e quindi di maggiore livello artistico rispetto ai pilastri di sinistra, aventi forme più squadrate. Ciò indica che la chiesa è stata edificata in due fasi.

La qualità artistica dei pilastri di destra è accentuata da capitelli di ottima fattura, caratterizzati dalla rappresentazione di scene tratte non solo dall’iconografia o dalla simbologia cristiana, ma anche dalla mitologia medievale. Pietra e scalpello si fanno così narratori di strane storie, i cui protagonisti sono animali, creature mostruose, ma anche figure umane. In particolar modo il capitello del penultimo pilastro presenta due personaggi che stanno festeggiando simbolicamente la fondazione della cattedrale. I capitelli della parte sinistra, invece, vedono il dispiegarsi e l’intrecciarsi di motivi floreali e astratti.

I pilastri che circoscrivono lo spazio della navata centrale sono sormontati da una sorta di cornicione, denominato ballatoio, sostenuto da una infinita varietà di minuscole mensole aventi sembianze umane, zoomorfe e fitomorfe.

La luce esterna, filtrando attraverso le bifore e le trifore valorizza la plasticità scultorea dei capitelli e delle mensole del ballatoio.

La semplicità e l’austerità della struttura e degli arredi sacri mettono in evidenza l’impianto romanico–gotico della chiesa.

Addossate alle pareti, vi sono inoltre delle lastre in pietra raffiguranti alcuni personaggi del vescovado ruvese. Tali lastre costituivano le coperture tombali di alcune camere sepolcrali presenti nel vano sotterraneo della chiesa.

 
IL PATRIMONIO ARTISTICO DELLA CATTEDRALE

Statua raffigurante il Cristo

Di grande pregio artistico è la statua raffigurante il Cristo crocifisso, collocata nella navata sinistra, in prossimità dell’ingresso della chiesa. La statua, realizzata in legno intagliato e policromato, in tela e in gesso, risale al XV secolo. Osservando il manufatto ligneo, è possibile notare come il Cristo, ancora vivo, con il capo reclinato sulla spalla destra, curva leggermente il corpo rispetto all’asse della croce. Il corpo del Cristo rivela dei tratti anatomici particolarmente dolci e delicati, in evidente contrasto con la profondità delle piaghe del costato e delle ginocchia. Il perizoma, aderendo al corpo, rivela la delicatezza dei lineamenti anatomici. La presenza della corona di spine, del tipo a doppia corda intrecciata, attenua ancora una volta quella dolcezza che ci viene trasmessa dai tratti levigati del corpo del Cristo.

 

STATUA RAFFIGURANTE S. LORENZO

La statua, realizzata in pietra, risale al XVI secolo a.C. Collocato nella navata sinistra presso l’ingresso dell’unica cappella supestite, tale manufatto lapideo rappresenta S. Lorenzo, un giovane diacono. L’attività di divulgatore della parola di Dio e dei principi della religione cristiana viene messa in rilievo dalla presenza del libro, posizionato sotto il braccio destro del diacono. S. Lorenzo, inoltre regge con la mano sinistra una graticola, strumento con cui il santo venne martirizzato, dopo essere stato catturato dai centurioni romani. La dalmatica è impreziosita da motivi floreali che fuoriescono da un mascherone sputaracemi. L’intero manufatto lapideo poggia su di una base con plinto a facce concave ornate da volute e, sugli angoli, da teste di amorino.

STATUA RAFFIGURANTE S. BIAGIO

Nella zona del transetto e precisamente all’interno dell’abside sinistra è collocata una statua in legno intagliato e policromato raffigurante S. Biagio, vescovo di Sebaste e santo patrono della città di Ruvo. Il manufatto ligneo, risalente alla fine del XVI secolo vede il Santo, benedicente, con la palma del martirio nella mano sinistra. Vestito con abiti vescovili preziosamente decorati da motivi geometrici e floreali, il Santo indossa un piviale chiuso da un fermaglio ornato da una grossa pietra, simile allo smeraldo. La palma è in argento mentre il pastorale è un’opera di oreficeria napoletana del XVIII secolo, donata alla statua del Santo Patrono dal vescovo Andrea Taccone (1929 – 49).

DIPINTO RAFFIGURANTE LA "MADONNA DI COSTANTINOPOLI"

Nella zona del transetto e precisamente all’interno dell’abside destra è possibile ammirare un dipinto su tavola risalente al XVI e raffigurante la Madonna di Costantinopoli, come riporta l’iscrizione sottostante. Il dipinto, attribuito allo ZT, vede la Vergine sorreggere con entrambe le mani il Bimbo benedicente, mentre un drappo rosso con bordo dorato fa da sfondo alle due figure. Il contatto fisico, tra la Vergine e il Bambino, simbolo dell’amore materno verso il bambino viene attenuato dalla fissità dello sguardo della Vergine che sfiora il corpicino del Bambino senza però guardarlo negli occhi. La freddezza e la quasi ieraticità della Madonna vengono evidenziati anche dalla veste che le ricade dritta lungo il corpo senza produrre alcuna piega. Differentemente dalla Madonna, il Bambino, alzando gli occhi verso di lei, cerca teneramente di incontrarne lo sguardo e sfiorando la mano sinistra della Vergine, spera di trovarne il contatto fisico. Il desiderio di amore e di vicinanza del Bambino verso la sua mamma si riflette nel drappeggio fortemente “concitato” della veste del Figlio. La cornice, coeva, reca in basso, al centro lo stemma della Famiglia Pagano – De Leo, committente del dipinto.

 

AFFRESCO RAFFIGURANTE LA “MADONNA IN TRONO CON IL BAMBINO

E IL MARTIRIO DI S. SEBASTIANO”

Nella zona del braccio destro del transetto si colloca un affresco risalente al XV secolo e raffigurante la Madonna in trono con il Bambino e il Martirio di S. Sebastiano.
La Madonna in trono sorregge sulle ginocchia il Bambino benedicente, il quale tiene nella mano sinistra un uccellino. Il trono è costituito da un drappo rosso bordato di ermellino, retto da due angeli. In alto a sinistra è raffigurato a mezzo busto un personaggio, probabilmente il committente, vestito con abiti dell’epoca. A destra del trono è raffigurato S. Sebastiano, colto nel momento immediatamente precedente al martirio. La figura del Santo si erge maestosa, sminuendo la figura del suo aguzzino che si appresta a scagliare una freccia contro S. Sebastiano, il cui corpo è legato ad un tronco.

DIPINTO RAFFIGURANTE “L’ADORAZIONE DEI PASTORI”

Nel braccio destro del transetto si colloca un dipinto risalente al XVI secolo e raffigurante “l’Adorazione dei Pastori”. Il dipinto, attribuito alla bottega del pittore Marco Pino da Siena (1525 – 1588), vede al centro della composizione la Madonna, rivolta verso il Bambino, disteso su di un gradino ai suoi piedi, con le braccia tese. Ai due lati si dispongono in adorazione S. Giuseppe e i pastori. Negli angoli inferiori sono ben visibili due pastori, ritratti a mezzo busto con il capo levato. Lo sfondo è dato da un paesaggio collinare mentre sulla destra troviamo parti di un colonnato di ordine ionico. Nel cielo si stagliano le figure di quattro angeli che rigirandosi su se stessi, vengono attirati dalla scena della adorazione del Bambino. La presenza dei quattro angeli sta a sottolineare che la nascita del Bambino è un evento divino, voluto da Dio. Nella parte inferiore del dipinto è visibile lo stemma del committente, mentre a sinistra sul gradino è scritto “Marcus De Pino senensis facebat MDLXXVI”

AFFRESCO RAFFIGURANTE “IMMAGINI VOTIVE DI SANTI”

Nel braccio destro del transetto sono visibili due affreschi risalenti al XV secolo e raffiguranti due Santi difficili da identificare a causa del cattivo stato di conservazione dell’affresco.
Le due figure si dispongono entro riquadrature rettilinee rosse, azzurre e bianche, con cornice superiore ornata da motivi geometrici a traforo. Nel pannello destro è ritratta una Santa che regge nella destra una coppa (probabilmente S. Lucia). Nel pannello sinistro è visibile solo un frammento della testa di un santo, non identificabile.

AFFRESCO RAFFIGURANTE “SANTO BENEDETTINO”

Nel braccio destro del transetto è visibile un affresco risalente al XV secolo e raffigurante un Santo benedettino, benedicente con un libro sotto il braccio. Studi recenti hanno messo in evidenza come il Santo ha nella mano destra un pezzo di catena. Tale attributo iconografico permetterebbe di identificare il santo benedettino come S. Leonardo, protettore dei carcerati.

 

AFFRESCO RAFFIGURANTE LA “MADONNA DELLA MISERICORDIA”

Nel braccio destro del transetto sono visibili tracce di un affresco risalente al XV secolo e raffigurante la Madonna della Misericordia. La Vergine, in posa ieratica, accoglie entro il suo mantello figurette di fedeli. Sul lato destro vi è un angelo, mentre sul lato sinistro vi è il frammento del braccio di un altro angelo.

 

SIMBOLOGIA

IL ROSONE

Il rosone, vale a dire l’elemento circolare con motivi raggianti, in genere in marmo, collocato al centro della facciata delle cattedrali per dare luce alla navata centrale, è adottato già dall’architettura romanica, ma è solo in quella gotica che ne vengono sfruttate al massimo le potenzialità espressive e simboliche.

         Alla riproduzione stilizzata del “rosone”, si associa quella del Sole, la “ruota di fuoco”che segna per gli uomini i tempi ciclici della vita, nell’ordine immutabile del cosmo.

         Nel caso del rosone del duomo di Ruvo, esso consta di dodici petali, riferibili ai dodici apostoli o alle dodici tribù di Israele, ma soprattutto essi possono essere associati ai dodici mesi dell’anno. Come il sole, rappresentato dal rosone, determina il succedersi dei mesi e delle stagioni e quindi la realizzazione di specifici lavori dell’uomo, in particolar modo agricoli (es. semina, raccolta, mietitura, potatura, vendemmia), così Dio, Signore dell’Universo, scandisce e determina il destino e l’esistenza dell’uomo. Quindi il rosone, anche per la sua forma circolare, finisce per essere simbolo e rappresentazione dell’Essere Perfettissimo: Dio, che è garanzia di conservazione dell’equilibrio del cosmo

         Inoltre nell’iconografia cristiana, la “rosa” con tutti i suoi petali aperti, è anche coppa e da ciò è inevitabile il suo collegamento con il Graal, la coppa in cui venne raccolto il sangue di Cristo.

IL LEONE

Nella sua simbologia ambivalente il leone è rappresentato più volte nella Cattedrale ruvese: ora sottoforma di protomi leonine ai lati della misteriosa figura del “sedente” o più giù ai lati del rosone, ora nella veste di leoni stilofori a guardia del portale centrale. Lo incontriamo ancora all’esterno, sottoforma di mensole zoomorfe collocate lungo il fianco meridionale e lungo i salienti della facciata. All’interno del duomo, sul capitello del secondo pilastro cruciforme a destra  (partendo dal transetto) incontriamo due leoni rampanti in posa araldica, colti nell’atto di atterrare una preda.

Simbolo dell’evangelista Marco, il leone è considerato da sempre come il re degli animali e la sua forza può essere associata al coraggio e alla crudeltà, al bene e al male. Il portale centrale della Cattedrale di Ruvo è fiancheggiato da due colonne rette da due leoni stilofori, i cosiddetti “guardiani o custodi” della porta della chiesa che vigilano per impedire che le forze del male penetrino al suo interno. Il leone aveva la medesima funzione già presso gli antichi Romani che lo ponevano al di sopra dei sarcofagi al fine di allontanare i profanatori; leoni di granito montavano la guardia a Micene o dinanzi ai templi indiani.

Il ruolo di “vigile” deriva dall’abitudine dell’animale, descritta nel Physiologus (opera greca - II sec. a.C.), di dormire con gli occhi aperti. Nell’arte cristiana e nei bestiari medievali, tale caratteristica fisiologica ha fatto del leone il simbolo della Resurrezione di Cristo, il quale sembrò addormentarsi nella morte ma dopo tre giorni resuscitò, proprio come il leone che sembra dormire, in realtà vigila perennemente.

Gli antichi credevano inoltre che esso non si avventava mai sulla preda se non spinto da un eccezionale bisogno di nutrirsi e che, anche in questo caso, non spiccava il balzo sull’avversario prima che fosse iniziato il combattimento. Queste caratteristiche comportamentali spingono l’arte medievale a fare del leone il simbolo della giustizia. È noto infatti che in età medievale le cause di giurisdizione civile ed ecclesiastica venivano discusse e risolte sui sagrati delle chiese, dinanzi ai portali incorniciati da leoni di pietra; i giudizi venivano formulati ed emessi secondo la nota formula inter leones et coram populi, cioè tra i leoni e il popolo assemblato.

Come abbiamo già detto il leone è anche un simbolo negativo, infatti S. Pietro in una sua epistola afferma: “Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede.” (1 Pt 5,8-9)

L’AQUILA

Collocata al di sopra dell’archivolto del portale centrale, l’aquila è presente nella simbologia e nella cultura di numerosi popoli. Nella religione indiana era simbolo di Vishnou, nell’arte caldea è il nobile uccello che accompagna il re nelle sue rappresentazioni, mentre in Siria, in particolar modo sui monumenti funerari, l’aquila svolge la funzione di animale psicopompo che accompagnava le anime dei morti verso la loro dimora celeste. In Grecia e a Roma l’aquila divenne l’attributo di Zeus e quindi simbolo di regalità, infatti l’apoteosi dei Cesari veniva celebrata con il volo delle aquile.

Il ruolo di conduttore di anime verso gli dei del cielo che i culti asiatici e mediterranei avevano assegnato all’aquila, trasmigrò nella religione cristiana, dove Cristo, proprio come l’aquila, aprendo alle anime le porte del cielo con l’effusione della sua Grazia, le eleva verso Dio. La simbologia cristiana medievale ha poi associato il volo dell’aquila all’Ascensione di Cristo, il quale una volta morto, è asceso al Padre.

Inoltre nella Historia Naturalis di Plinio si legge che l’aquila è l’unico volatile capace di fissare per lungo tempo ed intensamente il sole e che per provare la legittimità dei suoi piccoli, li espone alla luce accecante dei suoi raggi. I piccoli che riescono a sopportare la luce, sono riconosciuti come vera prole e pertanto nutriti, gli altri invece che battono le palpebre e distolgono lo sguardo dai raggi solari, sono rinnegati e cacciati dal nido. Nel medioevo Onorio di Autun nel suo Speculum Ecclesiae ha fatto tesoro di questa leggenda, associando l’aquila al Cristo-Giudice del Giudizio Universale. Cristo, infatti, riserverà il nido, ciò il Paradiso solo ai giusti e getterà nell’inferno i malvagi che si sono mostrati indegni del suo amore.

Tra i suoi vari e molteplici significati, l’aquila è considerata anche simbolo dell’evangelista Giovanni. È il caso dell’aquila rappresentata sul secondo arco interno del portale centrale della Cattedrale.

IL TORO

Rappresentato sul secondo arco interno del portale centrale della Cattedrale, il toro viene interpretato come il simbolo di S. Luca. In realtà, prima di giungere sulle rive del mare magnum della simbologia cristiana, il toro è stato oggetto dei culti più disparati nell’ambito delle pratiche religiose dell’antico Egitto, in quelle assiro-babilonesi e nell’antica Grecia.

         Universalmente considerato come simbolo della fecondità nei tempi antichi, la testa del toro nell’antico Egitto fu soggetta a trattamenti particolari durante i riti sacrificali, in virtù dell’assimilazione simbolica tra la disposizione delle corna e la luna crescente che assume la forma di falcetto durante il suo “quarto”.

         Nell’antica Grecia all’animale immolato furono attribuiti poteri di purificazione e di propiziazione così particolari che questo sacrificio assunse la forma di una liturgia sacra, una specie di battesimo del sangue.   

         Vittima di sacrifici espiatori e di propiziazione nell’antico mondo ebraico, l’effusione rituale del sangue taurino fu sostituita nella Cristianità al sacrificio misterioso del Corpo e del Sangue di Cristo sull’altare. L’olocausto di animali come l’agnello, il capretto, il vitello e soprattutto il toro, è stato accolto come simbolo del Salvatore immolatosi sul Golgota, per ricongiungere l’uomo a Dio. 

IL GRIFO

Collocati al di sopra delle colonnine ai lati del portale centrale della Cattedrale, i due grifi rientrano nella schiera delle creature mitologiche, frutto dell’invenzione e della fantasia dei bestiari medievali. In realtà, prima di approdare sulle sponde della cristianità, il grifo, uccello favoloso e biforme è presente già da venti secoli prima di Cristo nell’arte assira, caldea, babilonese e persiana. Già nel V secolo a.C. Ctesia, medico di Artaserse re di Persia, credette alla reale esistenza del grifo e lo descrisse come un uccello quadrupede con il corpo di lupo coperto di nere piume sul dorso e rosse sul petto.

La convinzione poi che il suo mito abbia avuto origine nell’antica Grecia e di qui trasmigrato in Asia attraverso l’arte cipriota e micenea, trova conforto nel fatto che a Micene, nel palazzo di Cnosso, furono rinvenuti affreschi raffiguranti due grifi riposanti tra gigli.  A Cnosso i grifi erano i guardiani del trono, il loro ruolo simbolico pertanto non poteva che essere positivo. In ogni caso, qualunque variazione simbolica abbia subito il grifo nelle civiltà primitive, la sua simbologia si muove nell’alveo tracciato dall’aquila e dal leone, dal momento che il grifo ha corpo e zampe leonine e ali e testa aquiline.

In Grecia e a Roma, esso è conosciuto come guardiano delle tombe e come animale consacrato ad Apollo, quindi simboleggiava l’ispirazione poetica che portava lontano lo spirito dalla volgarità del mondo. Tale ispirazione traeva motivo dal busto aquilino; la volgarità del mondo era associata invece all’altra metà del corpo di leone.

Nell’arte cristiana medievale, il simbolismo del grifone si precisa in relazione alla leggenda dell’Ascensione di Alessandro Magno, il quale venne portato in cielo da due grifi. Tale episodio,  rappresentato frequentemente nel XII secolo nelle chiese italiane, fu interpretato come immagine dell’anima che vola verso Dio, guidata dal grifo, qui in veste di trasportatore di anime. Gli animali che portano le anime in cielo sono per il pensiero cristiano medievale il simbolo di Cristo, che dopo aver effuso il suo sangue per la salvezza degli uomini, porta in cielo il nostro spirito.

Secondo Riccardo di San Vittore, il grifone sintesi di due nature animali, l’aquilina e la leonina, racchiude la doppia natura di Cristo: divina (aquila) e umana (leone). Inoltre la bestia fantastica partecipa delle due regalità di Cristo, re del Cielo e della Terra. Per i mistici medievali il leone, re della terra e l’aquila, regina del cielo trasferiscono le loro corone al grifone che racchiude in sé le due nature sovrane. Quindi il grifo è personificazione stessa di Dio, vero sovrano del Cielo e della Terra.

LA SFINGE

Collocata all’apice del saliente sinistro della facciata, la sfinge rappresentava nell’antico Egitto non un dio o una dea, bensì un genio religioso, intermediario tra l’uomo e le potenze superiori.  Nata sulle rive del Nilo dove gli artisti la rivestirono di ieratica bellezza, la sfinge fece il giro del bacino del Mediterraneo fino in Asia Minore e da lì in Grecia e poi in Sicilia. La si trova dappertutto sotto aspetti e posizioni diverse: seduta, coricata, in piedi o in atto di spiccare il volo verso il sole. In Egitto aveva busto maschile e corpo di leone mentre in Grecia fu nota con busto di donna.

Divinità solare presso gli Egizi, la sfinge fu il simbolo della sovranità, della forza divina e dell’abbondanza, in virtù delle quali, il suo culto fu favorito dallo scettro dei faraoni. Se la sfinge egiziana era detentrice dei misteri del mondo visibile e invisibile, la sfinge greca custodiva l’enigma, segreto di suprema saggezza per la condotta della vita umana, com’è noto nell’Edipo re di Sofocle.

Trasmigrando nella religione cristiana, la sfinge, che già in Egitto aveva simboleggiato la luce del sole, venne associata a Gesù Cristo, luce eterna per i vivi e per i morti. I bestiari medievali la adottano come simbolo positivo, in quanto rappresentazione di Dio, il quale racchiudeva in sé l’Assoluto, La Verità e l’Unità, proprio come la sfinge egiziana. Come questa, Cristo è il detentore e il possessore degli eterni segreti per aver donato agli uomini la perfetta dottrina e la regola della sicura saggezza, necessaria alla salvezza delle loro anime.

L’AGNELLO

È un simbolo che appartiene alla cultura paleocristiana e che nella scultura medievale mantiene il suo significato cristologico di vittima sacrificale. Al trionfo del male si oppone l’innocenza dell’agnello, quindi del Cristo che si offre in volontario olocausto come agnello sgozzato per riscattare i peccati del mondo. Vittima espiatoria e propiziatoria, il mite animale ha assunto il primo posto tra i simboli del Cristo, il quale sceglie di sacrificarsi per salvare l’umanità peccatrice. La sua pregnanza simbolica si esplicita in alcuni libri della Bibbia come la Genesi, nelle profezie di Isaia (53,7)e Geremia e nei Vangeli (Giovanni 1,29; 1,36).

         Nel duomo ruvese, l’agnello con la croce, rappresentato al centro del secondo arco interno del portale centrale rimanda all’ultimo libro della Bibbia: l’Apocalisse (7,9-17; 14,1).





 

I testi, realizzati da Simonetta  Berardi, si avvalgono del seguente supporto bibliografico:

·        AA.VV., Rubi fortissima castra, Modugno 1997.

·        Baltrusaitis j., Il medioevo fantastico, Milano 1997.

·        Bernick  Ettore, La Cattedrale e i Monumenti di Ruvo, Bari 1901.

·         Bucci Cleto, La Cattedrale / The Cathedral, Bari 2003.

·         Bucci Cleto, Il Sedente della Cattedrale Romanica di Ruvo di Puglia, Modugno 1989.

·         Cassano Raffaella, Frammenti di Storia della città dallo scavo della Cattedrale di Ruvo, in Epigrafia e Territorio, Bari 1987.

·         Civita Mauro, La Cattedrale di Ruvo – Vecchi restauri e nuovi rinvenimenti, Bari 1979.

·        Civita Mauro, Stagioni di una Cattedrale, Fasano 1993.

·        Le Goff J., Il Meraviglioso e il quotidiano dell’Occidente Medievale, Bari 2000.

·        Moretti Felice, Specchio del Mondo, Fasano 1995.

·        Pellegrini Vincenzo, Ruvo di Puglia. Cattedrale, Terlizzi 2000.

·        Pellegrini Vincenzo, Ruvo Sacra, Fasano 1994.



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