Assenza – Piero Bigongiari

Man Ray, Lee Miller (Nus, Lee), 1930

Man Ray, Lee Miller (Nus, Lee), 1930

Non ha il cielo un segreto che ti culmini,
le tue risa s’iridano al vetro
della sera dolcissima di fulmini.
Al cielo sale nel tuo gesto effimero
la riga d’un diamante, lo smeriglio
ricalcola all’assenza una giunchiglia
morta nel sonno e al tenero fermaglio
del tuo dolore che non si può chiudere
geleranno dagli astri luci blu,
luci sorte alla piega delle labbra
che rimormorano arse cielo al cielo.

Dove un rapido greto si distrugge,
dove odorano (al tuo braccio?) gaggie,
segreto faccio
mia la tua pena che non ti raggiunge.

Piero Bigongiari

da “Stato di cose”, “Lo Specchio” A. Mondadori Editore, 1968

 

Miraggi – Piero Bigongiari

Tranquillo Cremona, Attrazione, 1874

Tranquillo Cremona, Attrazione, 1874

 

Sono io che ho creduto di non averti
mentre mi guardavi nel più profondo del cuore
coi tuoi occhi poco esperti di abissi.
Sono io che non ho reso i tuoi sguardi
alla loro innocenza, li ho tenuti
prigionieri, nascosti, fissi dentro
di me.

Ah! tu capissi quanta luce
spandono in fondo a quei penetrali.
Mentre altri sguardi volano con ali
felici chissà dove, troppo alti,
e si fondono, luce con la luce,
qui nel fondo di me c’è un abisso
scintillante di quanto hai visto in me.

Io ti prego, perdona il carceriere
del tuo notturno splendore. Se è
amore quello che non sa risolversi
a rendere al sole i suoi raggi,
è più tuo l’amore che incoraggi
e che non tutto sia restituito
dei suoi insostenibili miraggi.

È il fondo oscuro in cui il tuo sguardo brilla
come un diamante puro. I ritardi
- o sono io già te, se tu mi guardi?-,
i miei ritardi forse si giustificano
dinanzi alla misura imperscrutabile
della velocità di quella luce.
Ne trattengo le stigmate qui abbasso
perché non so quel raggio ove conduce
in quel suo mirabile stoccaggio
della felicità nell’universo.
Ti ricordi a Patrasso, appena scesi
dal traghetto, come splendeva il sasso
della riva e lo stesso mio andare
alla deriva in un raggio perfetto?
Era il tuo sguardo perso che fioriva
nell’azzurro e sfioriva? Era il sussurro,
quello, non soltanto di una riva.
Solo se all’impossibile tu chiedi
aiuto, forse qualcosa arriva.
Nessuno sguardo su chi è ferito
rimane muto. Per questo ti scrivo
con questo inchiostro intriso nel tuo raggio.
Cerca un viso. Lo trova? È un miraggio?

Piero Bigongiari

24-25 maggio 1995

da “Residui del viaggio”, in “Piero Bigongiari, Dove finiscono le tracce” (1984-1996), Casa Editrice Le Lettere, Firenze, 1996

Tra la legge e la leggenda – Piero Bigongiari

Foto di Anka Zhuravleva

Foto di Anka Zhuravleva

 

Amo perdere qualcosa, più che per ritrovarlo,
per lasciare una traccia a chi m’insegue,
forse perché amo farmi là raggiungere
dove non sono, mentre guardo il mare
che insinua tra le sue macerie il grido
del gabbiano e un nido tra la ruggine
perduto che galleggia tra le schegge,
al contrario del gran depistatore,
perché so che è difficile seguire
chi, indeciso sulla propria meta,
ma forse proprio in essa pesticciando,
si distrae dietro un viso, si nasconde
dietro il dito che indica le onde
che asciugano e bagnano la riva
del paese natale, la deriva
della luce che liquida ne assale
le sponde e nella mente la ravviva.

Amo confondere il cricchio del tarlo
a un andante di Mozart…, mescolare
il passo del viandante per la via
con quello di chi risale le scale
a semicerchio della nostalgia.

Amo dimenticare il profumo della cedrina
su quello della tua pelle. Del tutto
ricordare la parte più obliata,
del frutto il seme ch’entro sé difende
la sua amarezza in duro tegumento.
Ma se mento, non mento che a me stesso
per dirti la verità che nello stesso
errore è celata, difesa, abbandonata
a crescere in se stessa, nelle proprie
contraddizioni elementari – è lì
che ogni due si unifica, nei suoi
seminali abbandoni.

Amo guardarti
mentre riveli in te una dolcezza
che è quella della fata che nascosta
tra gli alberi occheggia che nessuno
la segua andando verso il suo tugurio
arredato come una reggia se tu
ne precorri l’augurio coi tuoi occhi,
scheggia impazzita tra gli altri balocchi
del destino che l’uomo chiama vita.

Cammino dietro a poche cose, quelle
meno necessarie, le più volatili,
le meno rare. Forse in mano ad esse
è il codice per leggere il messaggio
che la legge ha lasciato sul tuo tavolo,
semiaperto, semicancellato,
fra terribilità e dolcezza.
Ma se tengo le mani ad un tempo
sui due telai, è che amo riprendere
dal secondo la tela che Penelope
sta sfacendo: è solo con quel filo
- altro non ne ho: l’aspo ne fu rapito -
che sull’altro ritesso la leggenda.
Tu che la leggi strappane la benda
dei segni che l’accertano o la mettono
in forse, perché, vedi, sotto sanguina.

Piero Bigongiari

[18 – 20 marzo ’90]

da “La legge e la leggenda” (1986-91), A. Mondadori Editore, 1992

Eco in un’eco – Piero Bigongiari

Edward Steichen, Mary Pickford, 1924

Edward Steichen, Mary Pickford, 1924

 

Ti perdo per trovarti, costellato
di passi morti ti cammino accanto
rabbrividendo se il tuo fianco vacuo
nella notte ti finge un po’ rosa.

Quali muri mutevoli, tu sposa
notturna, quale spazio abbandonato
arretri al niveo piede, al collo armato
del silenzio dei cerei paradisi

che in festoni di rose s’allontanano?
Eco in un’eco, mi ricordo il verde
tenero d’uno sguardo che dicevi
doloroso, posato non sai dove

di te, scoccato dentro il misterioso
pianto ch’era il tuo riso. Oh, non io oso
fermarti! non i muri che dissipano
di bocci fatui un’ora inghirlandata.

Odi il tempo precipita: stellata,
non so, ma pure sola Arianna muove
dalla sua fedeltà mortale verso
dove il passo ritrova l’altra danza.

Piero Bigongiari

da “La figlia di Babilonia” (1942), in “Piero Bigongiari, Poesie” (1942, 1992), Editoriale Jaca Book, Milano, 1994

Sulla soglia il suo piede fiammeggia – Piero Bigongiari

Ary Scheffer, The Ghosts of Paolo and Francesca appear to Dante and Virgil, 1835

Ary Scheffer, The ghosts of Paolo and Francesca appear to Dante and Virgil, 1835

 

Ho mantenuto acceso con l’inesprimibile
quanto di me non si è arreso all’evidenza,
anche se non so se a lui arrivi o da lui venga
qualcosa che non ci tenga con le mani in mano
a guardare lo strano desiderarsi della vita.

Ma non ho atteso che il lontano troppo
si appressasse per riconoscere nell’occhio
il germoglio e il fiorire dell’oblio,
la lontananza che non vuol morire
in se stessa, nell’oscuro barbaglio
della sua identità.

La furia delle Arpie e
la loro coprofagia ha sopportato
purché gli inni sgorgassero al banchetto
puri nell’imperfetto aderire
di ogni conoscenza al suo contrario.
Io non posso né voglio, nel divario,
fare senza quello che non so, non
amare ciò che l’amore nasconde.
Per il mare non è facile, nella sua torbida trasparenza,
trovare la sua sponte, ma nemmeno
lasciarle senza lo sciacquo delle onde,
l’occulto scintillio del suo vagare
della propria parvenza a una sostanza
che esso non riesce a sostanziare.

Io non so amarti che nel pericolo
del disamore, ma più forte amarti
nell’afrore dei tuoi arti che tremano,
cercandoti più a fondo nel dolore
che unisce ogni mancanza alla pienezza.

La carezza allora scende a lenire
il tuo viso invisibile che non conosci
che nel calore che la palma misericorde
della mia mano spande su quell’ignoto sorriso.

Ancora chiuso nell’uovo del suo mistero
è l’enigma di ogni creatura
che l’amore feconda. Il misterioso
messaggero è alla porta ma non entra.
Il messaggero o il battezzatore?
Sulla soglia il suo piede fiammeggia.

Piero Bigongiari

da “L’eruzione solare della notte”, in “Piero Bigongiari, Dove finiscono le tracce” (1984-1996), Le Lettere, Firenze, 1996

 

L’eruzione solare della notte – Piero Bigongiari

Foto di Nicola Bertellotti

Foto di Nicola Bertellotti

 

L’eruzione solare della notte
ti veste di dolcezza.

Là il mare,
quella linea lontana che appare
tra le chiarie vieppiù decisiva,
nemmeno limita la tenerezza
del tuo sguardo tornato a speculare
se esiste per lei un orizzonte
verso cui andare, o se questo è qui.

Spengi le candele nelle stanze
che non ne hanno più bisogno,
dove filtra ancora lùbrica la luce del sogno,
scacci anche il sogno come un importuno:
sei in attesa di quanto altro scalpiccia
nel solito apparire del medesimo.
Mi offri un acino dell’uva dell’Avvento,
e anche lo stento della porta che ruota
lentamente sui cardini è una musica
meno ignota per me.

Per te la ruota
del fato non ha finito il suo giro:
ammiro quello che lì non è stato
né mai sarà compiuto…

come il suono
del liuto che, ricordi, abbiamo udito
un dì straziare i segni del viaggio
e incoraggiarci, indegni di ogni altrove.
Eravamo, anche lì, davanti a un mare
quasi lustrale nella lontananza,

davanti all’irrintracciabile colmarsi
di chiarezza dello stesso mistero.
Là finivano le orme di ogni passo
come il cane che davanti all’acqua
di un fiume perde il fiuto e non può
pedinare il cammino del fuggiasco.

Ma davanti al mistero non è questo
un rifiuto: il divieto è dentro te,
dentro, vedi, il tuo sguardo discreto
che sul vetro dell’essere riposa
nella cui trasparenza altro non osa
che guardare al di là ma anche ritrarsene
come da una visione dolorosa.

La vita non è una cosa strana:
tocchi entro di te qualcosa che
non ti appartiene come il Guadarrama
deserto e innevato che un giorno,
sorvolato dagli avvoltoi, vedemmo
rasentandone mentre andavamo
verso il regno dei morti dell’Escorial
i picchi e le rocce diluviali
che abbandonammo alle ali dei rapaci.

Perché taci davanti al tuo silenzio?

Piero Bigongiari

da “L’eruzione solare della notte”, in “Piero Bigongiari, Dove finiscono le tracce” (1984-1996), Le Lettere, Firenze, 1996

Non so – Piero Bigongiari

Edward Hopper, Case al crepuscolo, 1935

Edward Hopper, Case al crepuscolo, 1935

 

Nell’umido brillare dei tetti,
nel calare del sole tra scogliere
di strade, non so cos’altro aspetti,
s’altro dichiari con parole rade
ai passanti, ai vetri ciechi del tram,
e a un tratto molto so della speranza,
ma non so neppure cosa si perde
nell’ansimo dell’aria, quasi un battito
accelerato di motore,
quasi tacchi più fitti, una catena
che si tende, gli occhi un poco più desti.
Ma lo sguardo è dentro le cose
a cercarvi la buccia tra la polpa,
e non v’è colpa sufficiente per la nostra gioia,
nemmeno la speranza e la solitudine:
tu sai che non so, tu sai che puoi chiedere.

Piero Bigongiari

da “Rogo”, Edizioni della Meridiana, 1952