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Scrivo canzoni e dipingo Mi chiamo Rapetti e sono il figlio di Mogol

Espone da oggi a Lucca le sue opere contemporanee «Comporre per Laura Pausini mi dà grande emozione»

LUCCA. Ha un nome d'arte e uno vero. Ed è famoso con tutti e due. Con il primo, Cheope, scrive canzoni da trent'anni, testi per Raf, Mina, Celentano e oltre sessanta brani per Laura Pausini, tra cui alcuni hit dell'ultima raccolta uscita la scorsa settimana e per i quali nel 2005 e nel 2006 ha vinto due Grammy.

Usando la sua vera identità, invece, si è affermato anche nell'arte contemporanea, in particolare nella pittura, sua passione da sempre.

In questa veste Alfredo Rapetti Mogol – 52 anni, milanese, figlio del celebre Giulio, che con Battisti ha firmato canzoni indimenticabili e nipote di Mariano, autore delle liriche di “Vecchio scarpone” e “Le colline sono in fiore” – arriva oggi al museo Lu.C.C.A per la sua prima grande mostra personale in Toscana, dove fino al 26 gennaio presenterà diverse opere e quattro installazioni sonore.

Il paroliere-pittore parteciperà all'inaugurazione nel pomeriggio, mentre la mattina sarà a Poggibonsi a parlare del manuale “Scrivere una canzone”, realizzato a dicembre 2012 a quattro mani con Giuseppe Anastasi, altro autore noto (suoi i brani di Arisa).

Disponibile, affabile e modesto nonostante il pedigree e il curriculum, Rapetti accetta con entusiasmo di rispondere alle domande de Il Tirreno.

È la sua prima mostra in Toscana, ma lei conosce bene la regione, vero?

«Verissimo, ho passato intere estati al mare della Versilia, quando i miei figli erano piccoli. Conosco tanti posti, è una regione straordinaria. Ma ho un particolare amore per Lucca, che mi era nota già per i fumetti e per la fotografia. È la città che più amo al mondo, dove ho tanti cari amici. Non è escluso che un giorno verrò ad abitarci».

Ci dice qualcosa della mostra?

«È una parte di quella che ho fatto quest'estate a Milano e che Maurizio Vanni (direttore del Lu.C.C.A, ndr) ha riadattato per gli spazi del museo, intitolandola “Re-writing lives”. Ci sono quattro installazioni sonore e alcuni quadri, tutti lavori che coniugano la pittura alla parola scritta. Per me la radice è la parola, il segno, che rappresenta la traccia della memoria e del nostro Dna. È la nostra impronta».

Meglio scrivere o dipingere?

«Per me è la stessa cosa, con una sottile differenza: la scrittura è terapeutica, la pittura è liberatoria perché c'è il gesto, mentre quando scrivo non canto. In famiglia siamo tutti stonati, ma dentro cantiamo benissimo. Del resto nasco pittore, a 12 anni già dipingevo, poi mi sono avvicinato ai fumetti per passare, nel 1983, a scrivere testi. 10 anni fa ho ritrovato l'esigenza forte del segno visivo, da cui ero partito. E non mi sono più fermato, affiancando l'attività di pittore a quella di paroliere».

Perché ha scelto Cheope come pseudonimo?

«Ho voluto usare un nome d'arte per non essere associato a mio padre. Che a sua volta aveva scelto Mogol per non essere indicato come il figlio di..., visto che nonno Mariano era un editore e autore affermato. Cheope deriva dall'interesse che avevo per l'archeologia».

E com'è nato il nome Mogol, che è diventato legalmente una parte della vostra identità?

«Aggiungere Mogol al nostro cognome era un forte desiderio di mio padre. E ci tiene davvero molto. Quanto all'origine, si narra che sia stata la sua ultimissima scelta dopo aver scartato almeno duecento nomi, tutti già utilizzati da altri. Pensò: “mi scambieranno per cinese”».

Qual è la canzone da lei scritta cui è più legato?

«Sono due. “Battito animale”, cantata da Raf, che nel 1993 mi ha dato il successo, dopo 10 anni che scrivevo. E poi una eseguita da Laura Pausini: “Come se non fosse stato mai amore”, del 2005 e tra gli hit della sua ultima raccolta. Ogni volta ha ancora la capacità di emozionarmi».

E quella di Mogol-Battisti?

«Ce ne sono un'infinità. Sembrano tutte composte oggi o addirittura domani, hanno una potenza incredibile, alcune frasi sono diventate modi di dire, sono entrate nel tessuto sociale. Due titoli, tra i tanti: “Acqua azzurra acqua chiara”, “Io vorrei non vorrei ma se vuoi”».

Ci parla del manuale “Scrivere una canzone” ?

«È un libro che si legge bene e interessa non solo gli addetti ai lavori, ma anche chi è dall'altra parte e ascolta. Fornisce informazioni e fa riflettere sulle parole e sul loro uso, tanto che è stato adottato come testo in alcuni licei. Un'esperienza molto bella».

Oggi

c'è ancora spazio per fare il suo mestiere?

«Credo che ogni periodo abbia le sue difficoltà, ma anche le sue opportunità. Quando cominciai, mio padre mi disse: “E' un mestiere finito”. Fortunatamente non era così. La mia filosofia è provare, sempre».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

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