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«Così ho trascinato figli e nipoti a Milano Marittima»

«Così ho trascinato figli e nipoti a Milano Marittima»
Bagnanti a Cervia negli anni Sessanta (Archivio Fotografico Zangheri) 

Cataste di piedi, pance, sederi. La piadina, il cocco e i bomboloni alla crema. Ma anche un mare spugnoso, piatto e spesso impastato di mucillagini come l’Adriatico può darti la felicità

Nascosto dalla stanchezza e dal fumo sigillato dentro la 1100 con i freni arroventati, il mare della Rivera romagnola appariva come una liberazione dopo un lungo calvario. Per noi bambini che scendevamo dalla tortura della via Emilia sigillati dentro auto coi finestrini rigorosamente chiusi, perché «l’aria fa male», era una salvezza tanto più agognata quanto più immaginaria. L’Adriatico, dalla parte nostra, è un mare invisibile, una carognetta dispettosa che fa di tutto per non farsi trovare. Si nasconde piatto dietro le dune e i canneti, poi dietro le colonie e le pensioni, i cartelloni stradali, i condomini, le discoteche, gli shopping center, le sempre più assediate pinete. E prima di arrendersi e di concedersi si arrocca dietro trincee di ombrelloni. Non lo vedi mai, fino a quando ci metti dentro il primo piede della stagione. E quando ci arrivi ti ritrovi da dove sei partito: a Milano.

A Milano, intesa come Marittima, arrivavano i fortunati, la “casta”, come si sarebbe detto con frusta banalità molti decenni dopo, il meglio dei milanesi che di quei pochi chilometri di pineta assediata da acquitrini malarici, antichissime saline, terre apparentemente senza valore e zanzare che in epoche missionarie avrebbero meritato il battesimo viste le dimensioni, rappresentavano l’avanguardia della transumanza estiva fuggita dalla operosa e invivibile metropoli. Così infatti, come terminale a oriente della Milano sulla battigia, era stata concepita, disegnata e voluta dagli industriali meneghini Maffei e dal geniale cartellonista e pittore Giuseppe Palanti che si era immaginato all’inizio del XX secolo una città radiosa e razionale «immersa nel verde» come dicono gli agenti immobiliari davanti al più smunto cespuglietto, trasformando miracolosamente il triste tropico adriatico in «luogo di cura, soggiorno e turismo», nella nuova definizione ufficiale del 1927. Miracoli dell’edilizia, per la gioia e la soddisfazione del romagnolo Benito che per gli scatoloni di sabbia aveva sempre avuto un debole e qui di sabbia ne avrebbe trovata quanta ne voleva, per una indistruttibile colonia marina ancora oggi minacciosamente intatta.

Ma alla Milano con i piedi a mollo, la mia famiglia sarebbe arrivata tardi, dopo un lungo peregrinarle attorno, un po’ per timidezza di immigrati nella Milano delle mani sudate e dei milanesi autentici, come la mia futura moglie, un po’ per il timore che il prezzo di lunghi soggiorni sarebbe stato insostenibile per le finanze domestiche. Per arrivarci, per approdare finalmente all’eden sabbioso della Milano superba con al rimorchio nonni, zie, figlie, derrate e attrezzi alimentari acquistati durante l’attraversamento dell’Emilia nel sospetto che in Romagna i beni fossero scarsi e a prezzi metropolitani, subimmo affitti in graziosi appartamenti collocati sopra il negozio di un fornaio che diffondeva all’alba aromi deliziosi e calore da panificazione. Settimane in eleganti villette sorprendentemente a buon mercato, perché costruite accanto ai binari della frequentatissima linea Adriatica. Hotel falsamente cosmopoliti che nascondevano, dietro le bandiere da palazzo dell’Onu, pasti a base di acquitrinose minestrine ospedaliere e triangolini di anonimi formaggini.

Poi, finalmente, venne anche per noi l’approdo alla Ville Radieuse, alle eleganti vie ombrose di oleandri, alle ville tarda Belle Époque con la mortadella, alle rotonde di pini per la circolazione di pedalò su ruote sempre a una spanna dalla catastrofe automobilistica, e alla direttissima per la felicità, la XI Traversa, con la quale tuffarsi direttamente nel bar sulla spiaggia e, nei giorni feriali, cercare di raggiungere l’invisibile mare. E bagnarsi,rigorosamente due ore dopo il pasto, al fine di evitare quella micidiale «congestione» che secondo i racconti dei vecchi aveva ucciso più incauti bagnanti della peste manzoniana.

Milano Marittima e la sua XI Traversa, presidiata dall’immancabile Arrigo Sacchi, il re del Calzio  – come deve essere pronunciato – che da decenni mette i giovani in guardia dall’individualismo divistico predicando inveze il Zoco di Squadra, era il segno del benessere raggiunto e testimoniato dall’orda di padri con le scarpe in mano e i calzini in tasca, calati dalla Milano Terrestre per contemplare la propria famiglia unta e accalcata nella marcia mistica verso il Gange purificatore. Non più acquose minestrine e avari tranci di caciotte, ma trionfi di grigliate nelle villette dei parenti benestanti, non più pavimenti arroventati o lettini scossi dal direttissimo Bologna-Ancona, ma residence con camerieri in giacca di misura quasi giusta; tavoli buffet; piscine; boutique eleganti e bar sfrontati aperti fino a notte tarda. E il richiamo dei grandi parchi di divertimento, Mirabilandia per i piccoli, discoteche per i più grandi. E su tutto, come un’aureola di immediata beatitudine nel barocco gastronomico romagnolo, la piada.

Ci ho trascinato quattro generazioni sull’XI Traversa, nonni, genitori, figli e poi figli dei figli, americanini abituati alle infinite e malinconiche spiagge dell’Atlantico, sbigottiti dalla densità umana accatastata tra piedi, pance, sederi, schiene a stretto contatto e poi portati al limite del ricovero in pronto soccorso da troppe piadine e troppi bomboloni fritti col ripieno di crema. Ho costretto  parenti e affini a lunghe trasvolate e trasbordi per raggiungere il sogno dei milanesi spiaggiati. Ma non erano, quelle, vacanze per loro, per bambini e genitori a un paio d’ore dal Tropico caraibico trascinati sulle rive di un mare spugnoso e piatto, a volte impastato di mucillagini, ma sempre dolce nella sua mitezza estiva. Erano vacanze per me, per vedere nei loro occhi sgranati dalla stanchezza transatlantica, nel loro attonito stupore fra il labirinto umano, il riflesso di quel mistero che è la gioia di essere insieme, pigiati tra gli ombrelloni, ingordi di cocco e chicchi d’uva glassati, avvolti nei teli, come vanno chiamati gli asciugamani in Romagna. Tutti insieme, costretti ad andare d’accordo. A fare, almeno per una volta, il Zoco di Squadra. A essere umanità.

(28 luglio 2017)
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