L’ultima insegna piemontese che resiste a Borgata Aurora

Tra kebabbari e ristoranti etnici c’è la bottega di un fabbro


Pubblicato il 15/01/2017
Ultima modifica il 15/01/2017 alle ore 09:35

A seconda del marciapiede, corso Emilia regala cartoline da altri continenti. Un po’ Dakar, Marrakech, Pechino. Basta alzare lo sguardo per diventare i protagonisti di un viaggio, che rischia di essere estraniante, chiamato borgata Aurora. Merito dei profumi, delle storie, dei volti dei residenti che un quarto sono stranieri. E delle insegne colorate delle sue vetrine. Kebab, ristoranti etnici, bar dove si fuma il narghilé. Forse, per questo quel cartello di legno penzolante all’incrocio con corso Vercelli è sembrato così strano. A chi ha invitato ad accendere i riflettori su quella bottega silenziosa dal nome sudamericano. Peccato che si riferisse a una scritta in dialetto in piemontese. L’ultima sopravvissuta in corso Emilia. 

 

 

In corso Emilia, il traffico corre veloce come la rivoluzione che ha ridisegnato il quartiere. Così, forte da sembrare implacabile. Fino a quando non ci si sofferma sulla palazzina ocra al numero 14. E si legge l’insegna. «La Boita dal Saldor». Racconta una storia. La storia di questo pezzo di città. Quella di Gipo Farassino. E diventa l’appiglio per non farsi portare via un’altra volta. 

 

 

Ogni martedì e giovedì, si apre la saracinesca rossa di questo negozio. Dietro c’è Gino Cataldi, classe ’44. Capelli argento e quel sorriso che diventa grande quando spiega il cartello affisso all’ingresso. «Ho scritto chiuso per inventario per non dare tante spiegazioni. Sono in pensione, ma continuo a venire nella mia bottega: faccio qualche lavoro fai-da-te. E con la scusa sto per i fatti miei, lontano dalla casa in montagna dove abito con mia moglie Maria Teresa».  

I muri scrostati sono lo scrigno di una professione perduta. «Sono un saldatutto - si presenta -. Saldo tutti i metalli: acciaio, ghisa, antimonio, alluminio. Una volta c’erano tanti fabbri in questo quartiere. Adesso sono rimasto solo io. Forse, in tutta la città». Alle spalle, ha i macchinari. Cerca di presentarli uno a uno come se fossero degli figli. E quell’insegna? «L’ho messa tanti anni fa, mi piace guardarla. Tante persone quando passano di qua mi bussano e mi dicono meravigliati. Bòia fàuss, ma lei è piemontese?»  

 

 

La risposta, però, non è quella che s’aspettano. Il proprietario di questa «boita» è nato in Basilicata, ma è arrivato a Torino quando il padre incominciò a lavorare in una fabbrica di Borgaro. «Ai tempi, mi hanno dato anche del terrone. Ma parlo il dialetto, sono un torinese. E ho sposato anche una piemontese». Una ragazza conosciuta quando il signor Cataldi, messo nell’armadio il camice di lavoro, rincorreva il pallone col maglia del «Borgo Dora». «Era la squadra del Mossetto, giocavo con tutti gli antiquari del Balon. Quanti lavori ho fatto per loro».  

Anche se ha smesso di faticare, continua a vegliare su questa officina che non è mai riuscito a vendere. «Ad aprirla fu mio fratello Savino nel 1955. Altri tempi. Negli anni è cambiato tutto. Con l’abbandono delle periferie e l’arrivo di tanti supermercati, hanno chiuso le botteghe. E infine sono arrivati i negozianti indiani, marocchini».  

 

 

Il passato è stato cancellato. Come l’ex fabbrica della Gft, acronimo del Gruppo Finanziario Tessile, che non esiste più. Il treno che attraversava la strada e arrivava fino alle Valli di Lanzo. «Quelle crepe nel muro - indica l’artigiano - sono dovute alle vibrazioni della ferrovia. Qui a fianco c’era il casello numero 1 e un passaggio a livello». Oggi, un cancello di ferro sbarra il percorso dei binari. Sono anche loro un ricordo di un mondo che non esiste più. 

La Stampa ti porta a teatro

home

home