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Home Saggi e Prose Filosofia Il pensiero pensante. Approssimazione delle Operette Morali di Giacomo Leopardi
Il pensiero pensante. Approssimazione delle Operette Morali di Giacomo Leopardi PDF Stampa E-mail
Prosa
Scritto da Luca Carbone   
Lunedì 13 Luglio 2015 07:13

Ripubblico volentieri grazie al fin troppo gentile interessamento del Prof. Gianluca Virgilio, sulla testata online dell’Università Popolare Aldo Vallone Galatina, il mio più recente lavoro dedicato al Leopardi ‘metafisico’ e, meglio, pensatore, da poco edito dall’Annuario Eudia (www.eudia.org); nel quale lavoro azzardo una congettura poco dibattuta, con riguardo alle Operette morali. Per la licenza di ripubblicazione, oltre che per aver accolto in prima edizione il non facile lavoro, ringrazio pubblicamente gli editori e curatori dell’Annuario: i professori Gino Zaccaria, Ivo De Gennaro, Maurizio Borghi. La ‘materia’ del contendere è molta, ed in costante fermento, per cui ho ‘approfittato’ dell’opportunità concessami per accompagnare il saggio con una postfazione in forma di lettera ai lettori informati; che i cultori di www.unigalatina.it hanno il dubbio privilegio di poter leggere in anteprima assoluta. Non molto riesce come s’immagina; e la lettera è via via cresciuta in lunghezza, oltre che in larghezza d’argomenti, sino a formare quasi un lavoro a sé. A differenza che nel saggio, nella lettera sono toccati, sia pure solo per cenni, anche argomenti di, come si dice, scottante attualità culturale. Non oso immaginare quanti lettori avranno la divina pazienza di cimentarsi con due testi di tali ‘pretese’. In compenso, una lettera impone meno obblighi formali alla scrittura; possibilità della quale mi sono ampiamente avvalso; e questo forse scamperà in parte chi legge, dalla probabile noia.

 

 

Se manifestamente per le finestre d'una casa uscisse

fiamma di fuoco, e alcuno dimandasse se là dentro

fosse il fuoco, e un altro rispondesse a lui di sì, non saprei

bene giudicare qual di costoro fosse da schernire di più.

Dante

 

L’altra critica è l’erudita, che di nulla serve

a far sappienti coloro che la coltivano.

Vico

 

Momentaneo

è l’apparire degli uomini nel mondo;

il durare delle opinioni lunghissimo:

le quali è giusto che dalle ragioni intrinseche,

e non dagli autori prendano merito e forza.

Giordani

 

La mattanza critica dell’opera di Leopardi è cominciata quand’egli ancora lavorava – uno per tutti il Tommaseo piissimo, poi figurandosi Leopardi trapassato la fronte china a stringergli la mano, cui dobbiamo la sinora immortale filastrocca «il n’y a pas de Dieu, parce que je suis bossu; je suis bossu, parce qu’il n’y a pas de Dieu»[1], e dopo lungo silenzio - «Per più diecine d’anni la critica sul Leopardi fu in Italia scarsa e inerte.»[2] – rotto dopo la sua morte solo dagli stranieri[3] e dagli amicissimi Ranieri, Giordani, Gioberti, e tanto ancora essenziale quanto pressoché del tutto obliato soprattutto lo scritto del Giordani del 1845[4] – si rinvigorì in Italia grazie alla singolare alacrità del De Sanctis, per perpetuarsi instancabile nelle varianti, sino ad oggi, che un film, Il giovane favoloso di Mario Martone, nel bene e nel male, che l’opera d’un creatore riporta Leopardi a questione nazionale; sottraendolo, in parte, alla gogna dei manuali ed ai tavoli anatomici degli specialisti, non senza codazzo di polemiche più o meno pertinenti, imbastite da chi accidentalmente sempre si sveglia dopo l’accaduto, quand'altri già stanno esposti – arte sottile, i cui virtuosi abbondano nella Penisola, dove turpe il no suona.

Osservato su scala europea il fenomeno appare singolare; pur avendo indefessamente lavorato – un lavoro quello della composizione la cui durezza è riconosciuta persino da Marx – a dispetto delle sue continue querele, per circa 29 dei suoi 39 anni, la quantità della produzione del Leopardi – da questi approvata e licenziata per le stampe – comparata a quella d'altri poeti e prosatori e filosofi europei, è piccolissima cosa.

 

Un libro di Canti, 41 pezzi in tutto, nemmeno tutti originali, più uno che pare non venisse inserito nell’ultima edizione per le insistenze del Ranieri, I nuovi credenti, satira su atei napoletani di fresco riconvertiti al Verbo del Signore e del Secolo, fenomeno che in Italia presenta una straordinaria tendenza a rinnovarsi a tutt'oggi; un libro di 24 capricciose prosette ‘metafisiche’; un trattatello filosofico a sé stante, dagli editori confinato in base ad una tradizione totalmente inventata, contro la quale aveva per tempo protestato, inascoltato il Gentile[5], nella compiutamente apocrifa ‘Appendice’ alle Operette[6]; una silloge di 111 pensieri in forma e durata semi aforistica; un poema satirico in ottave; qualche traduzione in prosa dal greco, che tuttavia meriterebbe lunghissimo discorso in relazione all’opera e alla grecità soprattutto; a cui si possono aggiungere, pur non comparendo nelle edizioni approvate, un paio di discorsi, uno ‘giovanile’ compiuto, ed uno lasciato in abbozzo, e poco altro: unico monstrum lo scartafaccio zibaldoniano che conta però in fondo solo 4525 facciate manoscritte (più un solo aggettivo nella 4526) di dimensioni contenute.

Un nulla, rispetto alle produzioni d'un Heidegger, più di cento volumi l’opera intera; di un Adorno; di un Derrida; di un Sartre; di un Hugo; di un Baudelaire, che pure è sbocciato con un solo mazzo di fiorellini del male, ma più di centoventi ne ha messi insieme, senza contare gli scarti e altre raccolte brevi; d'un Hegel; per non dire degli innumerabili compilatori ottocenteschi di bibliografie sterminate, l’impratichirsi appena con le quali impone decenni di letture.

Un nonnulla, tranne che per i critici italiani, che immancabilmente ci hanno trovato del troppo.

Così ancora talvolta si celebra nei tristi ludi della critica leopardiana l’anno di pubblicazione insieme del Leopardi progressivo del Luporini e della Nuova poetica leopardiana del Binni.

Scrive in merito la giovane quant’agguerrita Giulia Santi nella sua recente prima monografia Sul materialismo leopardiano: «L’Italia dovrà passare attraverso cambiamenti epocali dal punto di vista storico-politico, ma anche culturale, per giungere poi, a partire dal 1947, a quel ‘terremoto critico’ che ha incrinato le antiche sclerotizzazioni estetizzanti, ricucendo lo strappo tra poesia e pensiero; arricchendo anche le precedenti categorie di più complessità e ricchezza analitica. L’annus mirabilis è stato il 1947, identificato come emblematico per la quasi contemporanea uscita degli studi di Cesare Luporini (il quale delinea l’immagine di un Leopardi progressivo di orientamento democratico e ‘solidalistico’ che patisce la delusione storica della rivoluzione francese) e di Walter Binni (che, invece, ribalta l’immagine del poeta idillico, rivalutando il carattere eroico e combattivo degli ultimi scritti)»[7].

Singolare ‘terremoto’ che nel mentre incrina, ricuce ed arricchisce – ma queste sono bagatelle estetizzanti… a parte lo strano oscuramento del di pochissimo precedente contributo del Russo La carriera poetica di Giacomo Leopardi[8], ed il sorvolare sui contributi di Ungaretti – «Il pensiero di Leopardi è... forse il...più potente che si sia manifestato in Occidente, negli ultimi tre secoli»[9] (c. m.) – e singolare anche la rubrica ‘sclerotizzazione estetica’ per radunare questi e non altri pochi contributi più remoti, qualcuno, raro Leopardi ancora vivente: «Il Leopardi è poeta filosofo…quindi prima di giudicarlo come poeta bisogna studiarlo nelle prose dove la sua filosofia è largamente esposta»[10] – quello che alla Santi, purtroppo non originale in questo, pare trascurabile è la resecazione operata dal Luporini e dal Binni, nel corpo dell’opera del Leopardi.

Il primo, con l’affermazione più volte ribadita nello studio e che ritratterà tardivamente e parzialmente trent’anni dopo: «Un errore che ha impedito a lungo l’accesso al pensiero di Leopardi è stato quello di prendere come punto di partenza le Operette morali (Ciò è accaduto per es. al Gentile, in fondo sulla scia del De Sanctis, il quale non poteva fare altrimenti). Dalle Operette morali non si penetra nello Zibaldone, ma viceversa. E ciò perché in quelle il Leopardi, presentandosi al pubblico, si tiene come un passo indietro (qualche volta più di un passo indietro) e maniera e stilizza non poco la sua posizione»[11].

Ed il secondo affermando, anche lui poi avrebbe ritrattato e stemperato più in là cogli anni e con l'intendimento, nello scrivere dei Paralipomeni: «…di questi moti acri e pungenti (in cui si sente quello che si può chiamare la malignità, l’umore acido del Leopardi)»; e più pagine oltre specificando: «la profondità della soluzione letteraria (non certo altamente poetica), stilistica che il Leopardi è venuto elaborando nel corso del poemetto applicando fuori dell’accensione lirica la sua nuova poetica a condizioni apparentemente refrattarie, di acidità (quella sterile e gelata, senile acidità che viene spesso riscontrata nei Pensieri) inadatta a fermenti vitali di impeto lirico (c. m.)»[12]: la men che quarantenne senilità!

Così, assommati i giudizi, secando dal corpo ‘maggiore’ dell’opera di Leopardi niente meno che due delle sue tre principali prose filosofiche approvate[13]; nell’annus mirabilis della ricucitura critica di poesia e pensiero, con motivazioni vagamente inconsistenti rispetto al rigore d’un’opera filosofica; quasi questa potesse andar soggetta agli umori acidi o inacidi del pensatore e rimanere opera; o come se un pensatore, degno di tale nome, possa a sua voglia abdicare al dire del pensiero, con l’agghindarlo presentandolo in pubblico; avendo quindi, stabilito prima d'ogni disamina esposta, e Luporini e Binni, che di opere ‘filosofiche’ non si tratta.

Come nella parentesi del Binni s'esercita la chiamata alla coralità critica anonima, che tanta autorità conferisce ad un ‘giudizio’, non meno cieco che giusto o ingiusto; così nella parentesi del Luporini fa sfoggio di sé un altro dei singolari costumi critici italiani, ma non solo; l’attribuire ad un pensatore un ‘non seppe’ che maschera o ignora il ‘non intese’: Gentile non pensava, e non non s'accorse, che si potesse penetrare dallo Zibaldone nell’Operette; poiché il tentativo era già stato compiuto all’epoca, in ben due volumi, dal dimenticato Pasquale Gatti, che Gentile rintuzzò criticamente, salvo poi, a detta del Gatti che alla querelle dedicò un ulteriore volumetto apposito, in parte ricredersi senza però riconoscere l’apporto del Gatti stesso alla questione; quel Gatti dimenticato cui forse andrebbe il riconoscimento del primo tentativo di aver tentato di restituire, indipendentemente dall’esito, la: «salda e profonda unità sistematica di tutto il pensiero leopardiano, che, con ogni evidenza, si svolge fil filo, con logica inflessibilità, a traverso tutte le migliaia di pensieri di varia filosofia che l’autore depositò nello Zibaldone»[14].

Storie, tra molte altre, che si raccontano gli scaffali, anche virtuali.

Mentre sulla scorta dell’impareggiabile De Sanctis nella decurtazione delle Operette, che il Gentile vedeva opera compiuta e sistematica, sebbene più poetica che filosofica, s’è messo proprio il Luporini; del De Sanctis, tra gli allievi prediletti dell'ultimo maestro di purismo italiano, il Puoti, che entrando in discorso sulle Operette ci trova soprattutto solida retorica «Gli è un bel monumento, ma non ci si sente noi. […] ecco un lavoro finito, degno di ammirazione, ma senza eco e senza effetto letterario, perché frutto d'ingegno solingo, e sente di biblioteca, e non esce di popolo»; dello stesso De Sanctis, stato devoto cultore per almeno dieci anni dei notissimamente popolareggianti tometti hegeliani – per poi passare coerentemente a celebrare quelli, direttamente contrapposti, ma assai più nel frattempo divenuti a la page, positivisti – che nella prosa delle Operette ci trova certe quali stancanti lungaggini del Leopardi poiché «una premessa chiara è sviluppata con lungo e sottile discorso; e trovi non solo le cose, ma tutte le giunture e particolarità delle cose» e tale «minuta esposizione genera impazienza negli intelletti moderni, usi a veder chiaro e presto al solo apparire delle cose, massime a questi tempi del telegrafo e del vapore»[15]; lungaggini e minuzioserie e stanchezza delle minuzioserie e alle lungaggini che nelle migliaia di pagine hegeliane e degli Hegeliani, e nelle decine di migliaia positiviste, nessuno certamente avvertì, né avvertirà mai; per non dire dell’irrompenza delle cose dalla pagina hegeliana: talmente vi appaiono stagliate che Adorno, nella seconda metà del Novecento ancora, è costretto a ribadire che Hegel, tra i grandi filosofi, «è certo l’unico nel cui caso non si sa, alla lettera, e neppure si può convincentemente decidere di che cosa mai si stia discorrendo»[16]. La cavillosità delle argomentazioni desanctisiane, qui, è pari solo alla loro pretestuosità; aggravate dall’autoeleggersi del critico ad inconcusso alfiere dello Zeitgeist.

Piuttosto che fare la storia della censura delle opere leopardiane, la cui mancanza lamentava il Prete, andrebbe fatta la ben più lunga e travagliata storia della censura inflitta dalla critica leopardiana all’opera di Leopardi. In fondo Padre Gavino Secchi-Murro, ricordato giustamente dalla Santi, ma i cui giudizi erano già noti al Mestica[17], frate a cui la commissione della pontificia Congregazione dell’Indice per l’esame delle edizioni passibili di finire, appunto, nell’Indice dei Libri proibiti, dove infatti verranno cautamente confinate le Operette (mentre vennero lasciati a piede libero i Pensieri, già forse fidando sul Binni!) affidò l’esame delle opere allora edite del Leopardi, ha visto molto più delle Operette, e nelle sole Operette, che lo Zibaldone giaceva ignoto tra le carte di Ranieri, della quasi totalità della critica successiva: «Filosofo dunque il Leopardi, e forse a niuno secondo per la intima ed estesa applicazione ch’ei fece del suo intelletto all’universo e alle tante e svariate forme sotto le quali esso si rappresenta alle più squisite indagini d’una creata ragione…» (c. m.)[18].

Sulla scia del De Sanctis proprio il Luporini invalidò il suo pur rilevante tentativo di affrontare con rigore parte delle questioni zibaldoniane, disconoscendone pressoché totalmente l’ambito originario, ben intravvisto dal censore, in cui s’esercita il pensiero leopardiano, senza tener conto del quale ogni approssimazione alle tesi leopardiane manca del terreno proprio; quell’ambito che, rafforzando una tesi già desanctisiana, Luporini recisamente esclude, e con lui una torma d’altrettali avveduti ermeneuti: «Leopardi non si preoccupa affatto di dirci che cos’è natura, che cos’è ragione (c. a.). Egli non suole porsi siffatte domande, non è un filosofo speculativo. I termini sono anzi da lui adoperati con una certa rigidezza, il che non esclude, naturalmente la loro complessità e il loro variare di significato. Questi termini, abbiamo già detto, più che concetti sono personaggi di un dramma» (c. m.)[19].

A parte il dettaglio che tra le preoccupazioni dei grandi pensatori l’ultima è quella di preoccuparsi di dirci ‘qualcosa’, a meno che non si ammetta una pedagogia dello sconcerto; a chi già abbia qualche familiarità con le pagine leopardiane le affermazioni del Luporini possono apparire stupefacenti: che altro è lo Zibaldone se non una variatissima ma determinatissima e amplissima – interrogazione – di cos’è natura, e di cos’è ragione? La metafora del ‘teatro terminologico’ leopardiano ebbe comunque fortuna nella critica successiva, e verrà ripresa ed estesa dal Prete; il quale pure è stato tra i primi a riconoscere il carattere ‘interrogante’ del pensiero leopardiano.

Ma felice o infelice che sia la metafora, resta che il Leopardi non fu – non è – affatto principalmente o quasi esclusivamente, come vorrebbe il Luporini, , un sia pur grande ‘moralista’, rifacendosi al De Sanctis «egli è più un moralista che un metafisico»[20], poiché è innanzitutto e fondamentalmente un ‘metafisico’, com’egli stesso si ritrae, e nelle lettere e nelle pagine zibaldoniane.

Ma quando si lagna dei suoi mali e dei suoi patimenti, volentieri i critici drammatizzano psicologizzando e chiosano a profusione (non il Luporini); quand’espone la sua posizione speculativa ammiccano per poi, imperterriti, tirare dritti: «…gli uomini sono a’ miei occhi quello che sono in natura, cioè una menomissima parte dell’universo, e…i miei rapporti con loro e i loro rapporti scambievoli non m’interessano punto, e non interessandomi, non gli osservo se non superficialissimamente. Per(ci)ò siate certo che nella filosofia sociale io sono per ogni parte un vero ignorante. Bensì sono assuefatto ad osservar di continuo me stesso, cioè l’uomo in se, e similmente i suoi rapporti col resto della natura, dai quali, con tutta la mia solitudine, io non mi posso liberare»[21].

Nell’ultimo periodo è notevole l’elegante chiasmo che lega il ‘me stesso’ al ‘resto della natura’ e ‘l’uomo in se’ alla ‘solitudine’.

Che poi qui dissimulasse ad arte, o che ne fosse in quella fase delle sue assuefazioni pienamente persuaso e parlasse, come ribadisce al Vieusseux, schiettamente e quasi fuor di proposito, il Leopardi s’era già ben inoltrato nella ‘filosofia sociale’, come risulta dallo Zibaldone, e vi sarebbe tornato nei 111 pensieri negli ultimi anni della sua vita, riprendendo e rielaborando molte annotazioni lì già sbozzate nei primi anni della stesura zibaldoniana: segno, si direbbe, di una qualche continuità essenziale di pensiero, messa tuttavia anche questa in forse, come vedremo. E, ad ogni modo, riprendeva nella lettera e quasi alla lettera, riconoscendovisi, ciò che già aveva fissato nello Zibaldone come differenza ‘tipologica’ tra filosofi ugualmente assuefatti a diversi ‘soggetti’:

«Ad ogni filosofo, ma più di tutto al metafisico è bisogno la solitudine. L'uomo speculativo e riflessivo, vivendo attualmente, o anche solendo vivere nel mondo, si gitta naturalmente a considerare e speculare sopra gli uomini nei loro rapporti scambievoli, e sopra se stesso nei suoi rapporti cogli uomini. Questo è il soggetto che lo interessa sopra ogni altro, e dal quale non sa staccare le sue riflessioni. Così egli viene naturalmente ad avere un campo molto ristretto, e viste in sostanza molto limitate, perchè alla fine che cosa è tutto il genere umano (considerato solo nei suoi rapporti con se stesso) appetto alla natura, e nella università delle cose? Quegli al contrario che ha l'abito della solitudine, pochissimo s'interessa, pochissimo è mosso a curiosità dai rapporti degli uomini tra loro, e di se cogli uomini; ciò gli pare naturalmente un soggetto e piccolo e frivolo. Al contrario moltissimo l'interessano i suoi rapporti col resto della natura, i quali tengono per lui il primo luogo …; l'interessa la speculazione e cognizion di se stesso come se stesso; degli uomini come parte dell'universo; della [4139] natura, del mondo, dell'esistenza, cose per lui (ed effettivamente) ben più gravi che i più profondi soggetti relativi alla società»[22].

Pur dovendo restare indeciso, per ora, se la definizione ‘metafisico’ sia la più appropriata, quel che appare inequivoco – la posizione filosofica del pensatore che delimita il lavoro dello stesso Leopardi – mostra con nettezza come il Luporini, sia pure in buona fede ma arbitrariamente, abbia rovesciato, con il definire Leopardi ‘moralista’, quindi fondamentalmente ‘filosofo di società’, l’ordine d’importanza da Leopardi riconosciuto ai ‘soggetti’ della speculazione; e, ripetiamolo con Lui, effettivamente tale.

Questo rovesciamento, operato dal Luporini, ed accolto anche parzialmente dal Timpanaro, è il più diffuso a tutt’oggi – anzi oggi più che mai, dal momento che la ‘società mondiale’ appare come l’unico ‘soggetto’ della storia[23], quale in certa misura è – quello di ridurre i ‘metafisici’, ed ogni autentico filosofo e pensatore è, per necessità delle cose, prima di tutto un ‘metafisico’, a filosofi di società.

E mentre non si esita a seguire i fisici nelle loro speculazioni cosmologiche, solidamente ‘fondate’ sulla ‘conoscenza’ del 5% della ‘materia cosmica’, alla quale resta completamente precluso il fenomeno dell'Universo che più ci determina e concerne – la ‘vita’ – si nega che un filosofo possa esser ‘metafisico’ e gli s’impongono soggetti naturalmente e piccoli e frivoli, e un campo molto ristretto e viste molto limitate. Con questa pretesa tagliandosi fuori da ogni possibile confronto ponderato con le opere dei ‘filosofi speculativi’, come con quella del Leopardi.

Del pensatore ‘metafisico’ Leopardi possiamo ripetere quel che dice Heidegger di Nietzsche:

«In quanto pensatore, egli pensa ciò che è, nella misura in cui qualcosa è, e come è. Egli pensa ciò che è, l’essente nel suo ‘essere’. Il pensiero dei pensatori è conseguentemente il rapporto con l’‘essere’ dell’essente. Se quindi seguiamo ciò che il pensatore…pensa, allora ci muoviamo in questo rapporto con l’‘essere’. Noi pensiamo. Detto in modo più prudente: noi tentiamo di impegnarci in questo rapporto con l’‘essere’. Noi tentiamo di imparare a pensare»[24].

Ed è appena il caso di ricordare quanto lavoro, e quanti equivoci, del pensiero abbia suscitato la quasi medesimezza metafisica di ‘natura’ ed ‘essere’.

Nonostante la durezza delle prese di posizione, sempre qui si tratta di tentativi d’approssimazione, d’esercizi senza certezze, l'aggiungere gli apici alla parola cardinale ‘essere’ ne è segno, ed il cui fine non è in alcun caso mai raggiungere e conseguire una qualche forma di certezza; quale quella a cui aspirano, o a cui negano di aspirare, gli identificatori dell’ ‘essere’ (anche quello heideggeriano) con Dio: ma l’‘essere’ nulla ha a che fare direttamente con Dio, né possono in alcun caso venir identificati, e semmai al l’‘essere’ sono più prossimi i ‘soggetti’ della speculazione del ‘metafisico’ detti da Leopardi: il se stesso come se stesso, gli uomini parte dell’universo, la natura, il mondo, l’esistenza………

Naturalmente la domanda legittimamente posta dagli scienziati è: con quale metodo, con quali strumenti il pensatore indaga e misura, oggettiva con precisione, prevede i cambiamenti della e nella ‘natura’? Ed assumendosi che di questo mai Leopardi sia venuto in chiaro, nemmeno un discorsetto sul metodo ci avrebbe lasciato, la critica leopardiana s'è affrancata, quasi tutta, dal tentare le questioni metafisiche postesi al e dal Leopardi; esclusione che si riverbera sull'approssimazione all'intera sua opera; per così dire, dimidiata apriori.

Senza tener conto della ‘fortuna’ critica delle produzioni cosiddette ‘puerili’, taccio anche qui, per mancanza di competenze specifiche e per carità di patria, degli studi filologici, le cui avventure editoriali salgono a livello salgariano, e che hanno dovuto attendere il 1955 – centodieci anni dopo esser stati una prima volta parzialmente raccolti e presentati dal Giordani e dal Pellegrini[25], ed esser stati poi ‘scartati’ dal primo curatore della prima edizione critica dei canti e delle prose, il comunque benemerito Moroncini come, inutile rilevarlo, poco rilevanti – il giustamente noto e accuratissimo studio critico-specialistico del Timpanaro[26], per questa parte modello di rigore a qualunque tentativo successivo, prodotto di vera e rara tempra di studioso, se bene non del tutto illeso dal pedanteggiare, che ci permettesse di riscoprire quello che mezza Europa già sapeva al tempo della vita del Leopardi: che fu, cioè uno dei due soli filologi di livello europeo – cioè scienziati della analisi e ricostruzione delle opere “classiche” – che l’Italia potesse vantare in quei decenni; l’altro fu il Peyron[27]. Il tutto documentato dal Timpanaro con dovizia sino alla minuzia, che nulla lascia – bibliograficamente e filologicamente – d’insaggiato per verificare la fondatezza delle congetture, peraltro con più compostezza di toni riprendendo quel che già avevano detto e Giordani e Ranieri[28], degli studi filologici leopardiani – i quali già comunque aveva riscattato dalla noncuranza dei soliti liquidatori, De Sanctis e Croce, il desanctiscrociano Russo – e sia pure in funzione di “nutrimento” della pura lirica, nel già ricordato e formidabile, nel limite evidente del non tener conto della ‘filosofia’ del Leopardi, La carriera poetica di Giacomo Leopardi[29]. Riscatti che non hanno insospettito i critici mainstream sulla possibilità che Leopardi fosse stato ben in grado d'esercitare con rigore il pensare ‘metafisico’, avendo esercitato con rigore la filologia; agevolati forse dal Timpanaro, che concentrato sul misurare, il livello di scientificità della filologia leopardiana, e riabilitarla, ne tralascia il nesso con la ‘scienza delle idee’, per Leopardi essenziale anche alla filologia: «Ma bisogna perdonare ai gramatici se finora non sono stati ideologi; bensì non bisogna che il filologo illuminato dalla filosofia, si lasci imporre dalla loro opinione ... (22. Giugno 1821.)» [1205].

Alla critica italiana l’opera, tutta, di Leopardi è indigesta.

Ed accenniamo soltanto, qui, alla inguantata ma crudele intemerata del Croce[30] – «e non c’era ragione che il Croce incrudelisse contro il Leopardi»[31] – all’apice della sua fama e forza, contro l’opera del Leopardi – se ne occupa della pars destruens filosofica, la Santi[32] – poiché come si tende vagamente a dimenticare è stata duramente assai per tempo e più volte ribattuta dal Gentile[33] – e sulla scorta di questi ridimensionata nettamente e sapientissimamente dal Russo[34] e molto dopo anche dal Timpanaro, dal Binni, dal Prete – quella ‘critica’ per cui di valido dell’opera di Leopardi non c’è nient'altro che la poesia-poesia; ma nella poesia di valido non c’è nient'altro che una manciata di sparsi versi idillici; quella ‘critica’ per cui merita ricordare, con parole del Russo, per la prosa leopardiana, che «il Gentile, oltre che ai canti, dà dignità poetica, e assai alta, alla prosa del Leopardi» e che «la rivalutazione del Leopardi prosatore non risale dunque ai letterati, ma proprio a un filosofo pur così in odio alle Muse come vorrebbe il Croce»[35].

Se bene, poi, questo recupero gentiliano fosse in buona parte vanificato dal vedere le Operette non opera di pensiero, ma di poesia; ed infatti il Croce non ne tenne conto, rimartellando la sagoma del Leopardi solo poeta e poeta solo, soprattutto.

E per questo merita ancora un ultimo cenno il fatto, non sufficientemente dichiarato dai critici del Croce, che la singolarissima veduta crociana non è che un’estensione riduttiva del ‘giudizio’ di quello che è stato riconosciuto, il primo e più grande critico moderno del Leopardi, il già troppe volte ricordato De Sanctis che sino agli ultimi respiri, rinunciando persino a completare la sua autobiografia e bramando eternarsi in chiose sfortunate, trinciò giudizi sul genere di quelli emessi nella sua lunga carriera, come questo, che ha suscitato, oltre che l’esaltazione in Croce, un’immensa fortuna critica, e che anzi con qualche correttivo e lenitivo, s’è fissato nel senso comune nazionale, come il ritratto del Leopardi:

«…il Leopardi, come tutti i grandi uomini, ha avuto un mondo suo, così suo che egli ebbe il torto d’ignorare, o, che è peggio, di porre in gioco tutto ciò che era fuori di quel cerchio, e che pure avea la sua vita e la sua verità. Inarrivabile quando si chiude nel suo mondo e ne scruta e ne svela i misteri e ne sente le sue trafitture; quante volte spinge lo sguardo al di fuori e satireggia e ironeggia tocca appena il mediocre, com’è nei suoi Paralipomeni (c.m.)»[36].

E meno male che secondo il Russo i giudizi del De Sanctis sono improntati a moderazione.

Se defalcare la quasi totalità dell’opera leopardiana, anche poetica – poiché scandalosamente ironizza e satireggia in versi, il Leopardi – è da considerarsi un giudizio moderato, riesce difficile immaginare quale sarebbe stato un giudizio immoderato, a giudizio del Russo.

In realtà, il De Sanctis, che ebbe grandi meriti come organizzatore culturale – ben rilevati dallo stesso Russo in uno studio meritatamente noto[37] – ma che forse si fece trascinare dai successi, com'è tristemente umano, ad eccessi critici e non contro il solo Leopardi – qui per certo il Russo dissentirebbe – contro i quali eccessi insorgeva, anche furiosamente, ma non sventatamente Carducci «nelle ore più cattive, del critico napoletano l’apollineo maestro poteva…scagliarne i volumi giù dalla cattedra»[38] – il De Sanctis introdusse, o rafforzò, una smoderata distorsione nella ricezione dell’opera leopardiana, a moderar la quale dovettero prender posizione, curiosamente, proprio quelli che si richiamavano al suo magistero, come Gentile, Russo, comicamente Binni (prima osannante, poi, solo poi, criticante[39]), Bigi[40], Timpanaro[41], com’avevano preso posizione in altri tempi e per altri motivi già Mestica[42] e, appunto, Carducci – ed in quest’andazzo non c’è dubbio che più coerente agli assunti del ‘maestro’ riuscì proprio il Croce :

«Viene il sommo filosofo. Che è la filosofia del Leopardi? Nessun indizio è in lui di scienza puramente speculativa, di quel che fa, per esempio, un metafisico. Tratta un campo, assai ristretto della filosofia, la psicologia; ma la tratta non da filosofo, da artista. Non scrive trattati sulla scienza, è un acuto e fine osservatore de’ più riposti misteri del cuore umano, un pittore psicologo più che un filosofo. Non fa trattati, fa ritratti [cfr. probabile fonte del Luporini, che alla pittura sostituisce il teatro: gran progresso critico]; e tale lo vediamo nei Pensieri e nei Dialoghi, sì che diciamo che quel che è divino in lui, è l’arte. …può dirsi che tre anime ha Leopardi; ma il filosofo e il filologo serviranno solo a illustrare, a meglio farci apprezzare quella che fu sola e vera grandezza di Leopardi: l’artista»[43].

Parole dalla lezione del 1876 che inaugurarono l'ancora interminato fraintendimento critico dell’opera del Leopardi; del quale non si sa se sia più enigmatico il perché il De Sanctis l’abbia perseguito, o il fatto che in Italia s’è perpetuato e si perpetui.

E dicendo questo ci ritroviamo a netta distanza da quanto affermato dal decano italiano, recentissimamente scomparso e compianto, degli studi leopardiani, il Marti quando sosteneva recisamente: «data di nascita della grande critica leopardiana: anno 1876, corso di lezione del De Sanctis all’Università di Napoli»[44].

Ma quello che De Sanctis, inimitabilmente moderato, qualificava come il trombettiere di Leopardi, e che il Marti, con qualche benevola limitazione, ritiene comunque caposcuola del «tempo del classicismo formalistico, parvenza lusinghevole, della retorica elegante e vuota»[45] e che il Timpanaro invece giustamente riabilita dall’accusa rivoltagli d’esser stato solo retore[46], e sia pure obliquamente, riconosce in parte come critico leopardiano più grande del De Sanctis, cioè il Giordani, che dimostrò «una comprensione della prosa leopardiana e del Leopardi eroico, non organizzata, certo, in un compiuto discorso critico, ma, nella sua frammentarietà, più vera e congeniale dell’interpretazione idillico-realistica dell’ultimo De Sanctis»[47], del Giordani che aveva scritto al giovanissimo amico parole meritevoli d’essere incise all’ingresso di ogni scuola, più che quelle di Platone: «Non è l’errare, cioè il pensar male, che disonori; ma il non aver forza di pensare»[48], ben per tempo aveva scritto al Brighenti cose che non sarebbero state riascoltate se non da pochissimi:

«Quell’infelice creperà: ma se per sua disgrazia vive, ricordatevi quel che vi dico io, che non si parlerà più di nessun ingegno vivente in Italia: egli è di una grandezza smisurata, spaventevole. Imaginatevi che Monti e Mai uniti insieme siano il dito di un piede di quel colosso: ed ora non ha che ventuno anni…».

E non contento ancora dell’iperbole, una settimana dopo ribatteva sul punto:

«Dategli solo dieci anni di vita, e traetelo fuori dagli orrori in cui vive, e ditemi il primo coglione della terra, da Adamo in qua, se nel 1830 in Italia e in Europa, non si dirà che pochi Italiani (nei secoli più felici) furono paragonabili a Leopardi…».

Lettere ricordate da un non del tutto giustamente dimenticato, poiché avvertito della virilità del Leopardi, biografo ‘minore’ del Conte, il salentino Michele Saponaro[49].

Ma a quasi due secoli da che venne scritta, la profezia del Giordani, secondo la quale Leopardi è tanto grande, almeno, quanto Machiavelli e Galilei e Vico – quanto Dante e più di Daniello Bartoli, come scriverà nel 1845[50] – è ben lontana dall’inverarsi, poiché nonostante l’impervio e quanto generoso tanto pressoché irricevibile, tentativo di Emanuele Severino[51], non s’è riusciti a disimpastoiare il Leopardi dal basto del ‘soltanto parzialmente grande poeta’, con cui l’ha imbrigliato tra i primi il De Sanctis; e vedo bene come queste critiche mi alienino le simpatie di moltissimi, troppo persuasi dalle pur non assenti e non poche acutezze desanctisiane; ma per dirla un po’ enfaticamente col Russo: «nell’arte e anche nella critica, l’autobiografismo estrinseco deve estinguersi per rivivere come soggettività soprasostanziale, la quale non può non essere al tempo stesso calma impersonalità»[52].

E con più forti motivi ciò vale in filosofia ed in ‘metafisica’ quando la ‘soggettività’ è tanto più determinante quanto meno è autobiografica, personalistica, meramente individualistica.

D’altro canto, proprio a dar ascolto al Russo, bisogna depersonalizzare l’apporto del De Sanctis, pure; poiché in realtà egli, e poi i suoi ‘continuatori’, uniti in questo, al di là delle opposizioni ideologiche e teoriche – Gentile, Croce, Russo, Luporini, Binni, Timpanaro – dà corpo e voce alla, per così dire, seclusione, contermine alla modernità, della poesia dal ‘concetto’, e quindi dalla ‘filosofia’, in omaggio alla quale quindi un poeta che sia anche pienamente filosofo, come Leopardi, è uno scandalo; dalla quale seclusione, non siamo affatto affrancati, nonostante il vigore degli argomenti messi in campo da Heidegger, certamente, ma anche da Adorno, contro essa: «Filosofia ed arte convergono nel contenuto di verità dell’arte: la verità progressivamente dispiegantesi dell’opera d’arte non è altra che quella del concetto filosofico. …Il contenuto di verità delle opere non è ciò che esse significano bensì ciò che decide se l’opera in sé è vera o falsa e solo la verità dell’opera in sé…coincide, in ogni caso idealmente, con la verità filosofica»[53].

E memore ancora d’uno dei rimbrotti non infrequenti del Russo, che ha la rarissima virtù in Italia, teologizzante anche nella laicità, di non ritrarsi davanti a quasi nessun contrasto, di non negarsi, quasi a nessuna negazione, detto «in un momento in cui si vorrebbe far valere una spasimosa indistinzione di tutto Leopardi, ... grande in ogni membricolo della sua prosa e in ogni articolo dei suoi canti»; argine «all’infatuazione che dal 1920, gli autodidatti, i vari trovatelli della cultura, dal Cardarelli al De Robertis, hanno sempre avuto per lo Zibaldone»[54]; rimbrotto in cui il Russo tocca, sulla scorta del Gentile, il fondo del fraintendimento del Leopardi ‘filosofo’, ma del quale pure bisogna tener conto – anche come autodidatti e trovatelli della cultura tra le bande dei quali, con riguardo all’opera leopardiana, volontariamente e modestamente mi confondo – ho fatto fulcro di questo breve discorso, dedicato al Leopardi ‘metafisico’, le Operette morali e non lo Zibaldone: poiché persuaso che opera integralmente ‘filosofica’ siano le Operette morali.

Ma dei rimbrotti del Russo si deve tener conto non in omaggio ad un’autorità ch’è, sembrerebbe, pressoché dissolta, non ben intendendosene i motivi, poiché in non piccole cose egli sembra essere stato più grande dei suoi da lui riveritissimi padri e maestri, ma in quanto vengono da chi nel Novecento – sulla scorta di Giordani, Gioberti, Saint-Beuve – tra i primi e tra i più allora autorevoli critici ha visto la dimensione titanica, del Leopardi – sia pure con la limitazione all’altissima ‘poesia’ dei canti e delle prose:

«…“il Leopardi è un pessimista attivo, un pessimista agonistico…”. È un’osservazione questa del Gentile che non può essere rifiutata e scartata: non ottimismo né pessimismo nel Leopardi, nel significato convenzionale dei termini, ma un gusto strenuo e dolce della lotta contro il terribile fato che pesa non soltanto su tutta l’umanità ma su tutto il creato. A me riecheggiando questa osservazione del Gentile è avvenuto una volta di dire, che il Leopardi allarga il motivo spirituale della poetica alfieriana: non guerra ai tiranni egli muove, o alla tirannide della storia quotidiana che ci preme da ogni parte e contamina il nostro immacolato sentire, ma guerra alla stessa tirannide cosmica, guerra tetragona, e pur soave nel tono, a questa natura matrigna, al fato indegno che pesa su tutto l’universo. Il piccolo e gobbo Leopardi è un maestro di titanismo; l’ultimo e il più valido e il più discreto, senza enfasi e iattanza, entro virginee forme e parole dolci e soavi, l’ultimo dei titani bellissimi venuti su nel cielo poetico-mitologico del Settecento e del primo Ottocento» (c. m.)[55].

Fatta salva una riserva su quel letterale, ma contro l'apparenza non immediatamente decifrabile, ‘natura matrigna’; e registrata una certa difficoltà della critica italiana a rinnovare o a rinsaldare le comparazioni, dal momento che il primo accostamento ‘ragionato’ delle figure e delle opere dell’Alfieri e del Leopardi risale non al Gentile ma al Gioberti[56] e che ben poco ne è rimasto nella manualistica e nel senso comune; cos’altro si potrebbe dire della poesia del Leopardi che ne indicasse la grandezza e la dimensione in cui va cercata la sua scaturigine, verso la quale almeno dobbiamo volgerci, per poterla forse un giorno approssimare?

E da qui alla ‘nuova poetica – agonistica, storicistica: eroica e non solo idillica o non più solo idillica – leopardiana’ scoperta dal Binni, pur in qualche scostamento d’accenti, nell’aggiunta di un qualche avverbio «non solo guerra ai tiranni egli muove, non solo guerra alla tirannide della storia quotidiana…», il passo non appare tale da giustificare un ‘terremoto critico’. E col rischio, poi attuatosi, che la storicizzazione binniana, il troppo consertare l'opera leopardiana ai moti ed alle crisi del tempo pur grande che visse grandemente l'autore, svuotasse o dimidiasse la ‘metafisicità’ dell'opera leopardiana, il non essere solo o tutta o sempre o essenzialmente riconducibile alle temperie dei tempi: il tempo del ‘nulla’ essendo il nulla del ‘tempo’; e pensando il nulla, pensa Leopardi al di qua, o altrove da ogni tempo storiografico, da ogni attualità; pensa il tempo al di qua del tempo; e questo pensiero del nulla del tempo già molto prima del suo presunto pessimismo Leopardi lo tenta nelle sue giovanili e insospettabili Dissertazioni filosofiche, pubblicate per la prima volta finalmente nel 1983, composte tra il 1811 e il 1812; in quella «sopra l'esistenza di un ente supremo», nella quale Leopardi chiede che non lo si tacci «di presunzione, e follia se astraendo totalmente, e per ogni parte (c. m.) da quanto la Cattolica Religione ci mostra circa un sì importante oggetto a dimostrare» imprende «al presente l'esistenza di un essere perfettissimo deducendo ogni argomento dalla vista di tutto il creato dall'essere medesimo di questo ente supremo, e dall'universal consenso delle genti» - e pertanto, poco più avanti, supponendo «per un poco di ritrovarci nel nulla, noi non meno, che l'universo tutto, e lo stesso Dio»; e ancora supponendo nel seguito del ragionamento «di nuovo di ritrovarci ancora nel nulla prima della creazione dell'intero universo»[57].

Ma per un approfondimento ed un raccostamento non raccozzato di temi – metafisici – leopardiani ed heideggeriani, appare tentativo raro, se non unico sinora, il relativamente recente e plurieditato Pensare il nulla di Zaccaria[58]; che la compitissima Santi non si sa per qual svista, o fervore antirrazionalista, completamente ignora, pur dedicando un’ampia digressione al pensiero leopardiano del ‘nulla’[59].

Forse, non si fosse troppo generosamente – filialmente e storicisticamente – assoggettato alle distinzioni neoidealistiche crociane e gentiliane, prima e desanctisiane poi, che pure c'è da addebitare al Russo l'infausto ritorno, nel tardo tentativo di svincolarsi dal Croce, a De Sanctis – avrebbe incontrato meno difficoltà lo stesso Russo a riconoscere che si può essere, sia pure accada ogni molti secoli o millenni, titano poetico-mitologico E titano “metafisico” – che, anzi, non si può esser l’uno senza in gran misura essere anche l’altro; o forse di questa possibilità avrebbe riso, troppo compreso a “battere” i titanetti parolai, vera progenie italica, allora come ora.

Nella stessa esclusione del Russo, della compossibilità di poesia e filosofia nella stessa penna, si muove, come accennato, anche il pensiero, saldamente materialistico, del Timpanaro, che di quello ripropone, singolarmente lui così accurato senza citarlo, il concetto di titanismo, anzi propone di articolarlo in un titanismo storico e in uno cosmico, riprendendo la ‘classica’ variazione zumbiniana dal pessimismo storico al pessimismo cosmico, e difende le Operette dalla critica del Luporini[60], anche qui ricordando tra le righe la lezione del Russo.

Questi intese bene come le Operette fossero questione critica ancora incondita, e sia pure in polemica coi trovatelli della cultura e in parte ancora col Giordani, coglieva, anche in questo caso, liberandosi in due battute dalle divagazioni desanctisiane – «il De Sanctis non ci aiutò per questa parte, poiché...fu disordinato e frettoloso nelle poche pagine dedicate alle prose» – la questione di fondo:

«La discordia critica che ancora esiste sul valore poetico delle Operette procede da scarsa familiarità con esse, non scarsa familiarità di letture, ma di retta meditazione e di critica. Abbiamo bisogno di saturarci…di questo sottilissimo ed evanescente mondo metafisico dello scrittore e di sentirne la sua dolorosa pienezza. Il che siamo lontani di ottenere, quando si predica la prosa leopardiana come prosa stilisticamente esemplare per la letteratura italiana. La prosa leopardiana non esiste come “prosa” (questo era l’ideale arretratissimo di Pietro Giordani) ...»[61]

– qui facendo propria la pars destruens della critica del De Sanctis al Giordani, e del Croce ai cardarelliani – ma recuperando e rilanciando qualcosa di essenziale, rispetto al Croce, che nelle Operette ci vedeva la tetraggine reazionaria dei Dialoghetti di Leopardi padre, evocando addirittura erroneamente il magistero del Pascoli, «Certe volte, nel leggere i dialoghi delle Operette morali si presentano con insistenza al ricordo (e non sono io che ho provato pel primo questa impressione, perché vedo ora che la provò anche il Pascoli) certi altri Dialoghetti, vergati dalla penna reazionaria del conte Monaldo», che ai Dialoghetti monaldiani raccosta invece, sembrerebbe, i Paralipomeni «E ci sono in vero molte differenze tra l’autore dei Paralipomeni e quello dei Dialoghetti sulle materie correnti? Il figlio scherniva, il padre malediceva: per le male barbe Giacomo invocava il barbiere, Monaldo il boia…»[62]; e legittimava quindi il Croce la ‘condanna’ con un lapsus; e dava nel grottesco Pascoli, assimilando i barbieri ai boia – recuperava e rilanciava invece, il Russo, la lezione del Gentile e di sempre: l’alta valenza dell’opera in quanto opera.

Eravamo nel 1946.

E venne l’annus mirabilis e ci si dispensò appunto amenamente e progressisticamente dall’internarsi nelle Operette, di saturarsi del loro mondo metafisico, non tanto sottile ed evanescente come lo supponeva il Russo, e non ricco solo di una dolorosa pienezza, che pure vi palpita fondamentale; anche quando non mancarono commenti ‘memorabili’, quale quello del Galimberti, ancor oggi accreditato tra i migliori; del Galimberti che vede in Leopardi alte cure metafisiche, il «pensiero, per eccellenza di un metafisico, non di un moralista» sì, in ultima istanza, tra lo zoroastriano e lo gnostico, ma non coerenti sistematiche organiche; non tempra di filosofo, di pensatore (quel nouveauté!)[63]; e da conclusioni tali ben si ricava l'approssimazione dell'interpretazione.

E si ripresenta con insistenza la tendenza critica esegetica ermeneutica a pretendere di saper inquadrare l'apparentemente incerto rapporto del Leopardi alle ‘metafisiche’ dell'idealismo tedesco, per stare stretti solo ai capibastone, alle opere di Kant, Fichte, Schelling ed Hegel, a Leibnitz precursore, senza però saper trovare uno straccio d'inquadramento per i 24 pezzi operettistici, in un qualunque tentato profilo unificante, dopo quello tentato dal Gentile.

Se bene assolvere al compito indicato dal Russo non sia certo lavoro di poco momento, e non rientri quindi tra i fini di questo scritto, dal quale mi contenterei si cavasse d’approssimare la valenza ‘metafisica’ delle Operette tutte; con il rimando allo Zibaldone, solo quando occorra.

Tuttavia, proprio intorno allo Zibaldone s’è arroccato uno dei più formidabili fraintendimenti della critica leopardiana, e prima di tentare di saggiare il mondo ‘metafisico’ dello Operette morali si rende ancora oggi necessario tentare di raggiungere una veduta netta, introduttiva ma complessiva, proprio dello Zibaldone; nonostante l’impegnatissimo e dignitoso tentativo d'Emanuele Severino (filosofo a sua volta, e dei più grandi nell'Italia del secondo Novecento, e non solo critico leopardiano, com’è troppo sveltamente rubricato dalla Santi[64]; e la scienza, come la filosofia, si fa, parrebbe, innanzitutto rispettando le ‘tassonomie’ disciplinari), tentativo nella più gran parte irricevibile, come già accennato, poiché, nonostante i continui avvisi del contrario dati dall’autore, illibero dal Nietzsche heideggeriano[65].

Il cardine del fraintendimento della critica è dato dall’ostinarsi ad attribuire allo Zibaldone le caratteristiche, ed in primo luogo la frammentarietà, di un diario; di poco variando l’infelicissima ‘descrizione’ fattane da Gentile, cui qui va riconosciuta coerenza sin nell’assurdo:

«Ora, lo Zibaldone comprende centinaia e centinaia di pensieri annotati come si formavano giorno per giorno nella mente di Leopardi attraverso ben quindici anni (1817-1832) periodo lungo per ogni vita, lunghissimo per quella del Leopardi, che in 39 anni forse non visse meno che il Manzoni in 78. Esso è anzi il diario in cui si svolse la vita morale del poeta, e offre perciò, com’è stato notato, un riscontro a tutti i sentimenti, a tutti i pensieri già noti dai canti e dalle prose da lui pubblicate»[66].

Rispetto al Gioberti che si spinse a fantasticare, per invalidare il pensiero del Leopardi – nulla è stato lasciato d’intentato – che «i tre ultimi lustri della sua vita non furono che un penare continuo»[67] secando pressoché l’intera attività teorica del Leopardi, e pur avendolo elogiato in vita ed in morte come poeta grandissimo, e competentissimo ed ‘erculeo’ letterato, indissolubilmente legato al Giordani, in bellissime pagine[68], finiva con l’attribuirgli attività di pensiero sino a ventiquattr’anni; o rispetto al Croce che avrebbe affermato, variando ed esasperando e Gioberti e De Sanctis, che lo pseudo-pensiero leopardiano era sgorgato dalla strozzatura della sua vita[69]; col Gentile saremmo comunque un passo avanti nel riconoscimento della durata del pensare leopardiano, se lo stesso Gentile non avesse invalidato la conquista con lo svalutare l’intero Zibaldone a documento – ch’era stato indelicato pubblicare – d’interiori travagli:

«…è chiaro che, in questi sette volumi abbiamo, per dir così, i segreti documenti di tutto il lavorio intimo di quello spirito [e che] non potremo apprezzarli nel loro giusto valore, se prescindiamo dalle loro rispettive date; perché a chi scrive ogni giorno le proprie riflessioni, la verità è quasi la verità di quel giorno: e quel lavoro di sistemazione e organizzazione, per cui di tutti i pensieri si possa fare un tutto coerente manca»[70].

Tocca qui il sublime, Gentile, nel ridicolo dell’argomentazione, suo malgrado fornendo appunto anche al Croce una base per dispensarsi dal pur minimo confronto con le tesi ‘metafisiche’ leopardiane – e promuovendo un fraintendimento che s'è rinnovato e si rinnova presso commentatori, esegeti, ermeneuti, curatori, critici – anche d’altissimo livello; quale un Contini, che pur definendo felicemente lo Zibaldone come libro «probabilmente unico in tutte le letterature», lo vede «diario meramente interno e mentale».

Talmente meramente interno e mentale, che vi si trovano annotazioni quali questa:

«Il volume delle frutta de' nostri paesi va, non esattamente, ma in genere, appresso a poco in ragione inversa della grandezza delle piante fruttifere. Piccoli arboscelli producono la zucca, il cocomero (uno in quest'anno se n'è veduto [229] fra noi del peso di 28 libbre), il mellone ec.: un arboscello un poco più grande produce il pesco, più grande la ciriegia, la mandorla, la noce, l'avellana, ec.: e finalmente la quercia produce la ghianda».

Verità – tutta interna e mentale – del giorno 30 Agosto 1820.

O quest’altra:

«Una corona d'oro, che, secondo una tradizione degli Ungheri era discesa dal cielo, e che conferiva a chi la portava un diritto incontrastabile al trono. Robertson Stor. del regno dell'Imp. Carlo V. lib.10. traduz. ital. dal franc. Colonia 1788. t.5. p.440. Ecco pur finalmente il vero fondamento dei diritti al trono e della legittimità di tutti i Sovrani antichi e moderni. Esso consiste nella corona che portano. E chiunque la toglie loro e se la può mettere in capo, sottentra ipso facto nella pienezza dei loro diritti e legittimità. (3. Mag. 1825.)» [4137]

Anche questa una verità che senz’altro appare come la verità di quel lontano giorno di primavera.

Senza voler insistere troppo sul fatto che nel 1827 il Leopardi deliberò di dotare le sue verità d’ogni giorno di particolareggiatissimi indici, indicizzandole per argomenti, e trascurando le date; e che dal suo lavoro risulta un ‘diario’ con indici che ne coprono 4295 pagine delle 4525, poco meno dei diciannove ventesimi del totale; non possiamo non rilevare come ermeneuti ed esegeti e curatori e critici abbiano recalcitrato e recalcitrino all’applicazione di un accorgimento, che in una delle sue possibili formulazioni, in una tarda e asciutta massima gaddiana, suona: «…il numero è lo schema del tempo»[71].

Se invece d’assumere come misura temporale della stesura dello Zibaldone le date del suo incominciamento e del suo, per così dire, terminamento, si fosse badato, diversamente da com’è stato fatto – dal De Robertis, dal Binni, da Severino[72], tra altri – alla ritmica compositiva interna, scandita appunto dalle date pazientissimamente apposte dal Leopardi, nei giorni della composizione, o stesura ultima delle annotazioni, e nient’affatto ogni giorno per quindici anni, forse anche per questo motivo, per rendere manifesta l’‘intensione’ del lavoro – e per qualche altro più decisivo ma più congetturale – ci si sarebbe trovati davanti ad un grafico di questo tipo, non del tutto esatto quanto al numero delle pagine, approssimato per difetto, ma non difettoso in nettezza:

 

15 pagine circa compose Leopardi nel 1817; 26 circa nel 1818; nel 1819, circa 56; nel 1820 saranno 363; nel 1821, 1852 circa; poi solo 346 nel 1822; ma nel 1823, 1344; 116 soltanto 13 nell’anno, realmente mirabile, delle Operette, il 1824; nel 1825 solo 38, sempre all’incirca; nel 1826, 78; e ancora meno, 60, nel 1927; poco più del doppio nel 1828, 126; e 100 circa nei quattro ultimi anni, ma 97 nel 1829 e solo 2 nel 1830, ’31 e ’32.

Alla fine del 1823, dopo sette soli anni di stesura, meno della metà dei quindici totali, il diario delle verità d’ogni giorno comprende già 4002 pagine: 70 pagine meno dei suoi diciotto ventesimi. Ma di questi, 3905 pagine, più dei diciassette ventesimi dello scartafaccio, sono state composte in quattro anni. Mentre ne occorreranno nove, di anni, al Leopardi per comporre poco più di due soli ventesimi dello Zibaldone.

Ma guardando in dettaglio ai singoli anni, anche senza troppo approfondire, osserviamo che in tre anni compose due pagine, in due anni 3196 pagine. I due anni di maggiore produttività, il 1821 ed il 1823 comprendono più di due terzi del ‘diario’. Ma anche il computo per anni può risultare troppo ‘largo’ – poiché ad esempio, il periodo ‘produttivo’ del 1823 si stende dalla metà di maggio a dicembre; e quindi il Leopardi compone i due terzi del suo ‘diario’ di 180 mesi in poco più di 19 mesi, in poco più di un decimo del tempo complessivo di stesura delle annotazioni.

Guardando a queste contenute lasse temporali non appare più così ovvio che alla quasi totalità degli interpreti l’immenso scartafaccio appaia come un’accumulazione di frammenti irrelati. Altra cosa è supporre un tutto coerente coltivato per un periodo lunghissimo di quindici anni, altro è supporlo per un periodo – del tutto ‘ragionevole’ – di due anni, due anni e mezzo, di altissime concentrazione e produttività.

In due soli mesi del 1821, o della seconda metà del 1823 il Leopardi produce più che in ognuno dei singoli tredici anni restanti; ed anche in un solo mese di quei due anni produce più pagine che nei singoli anni di minore produttività; come si può ricavare confrontando il 1822 col 1823:

 

Nel gennaio del 1822 compone 59 pagine, nello stesso mese del 1823 giusto 2; a febbraio del '22, 16 pagine, ed 11 nel '23; a marzo sei pagine in entrambi gli anni; nel '22 ad aprile 8 pagine, nel '23, solo 2; 44 a maggio del '22, 49 a maggio del '23; picco dell'anno '22 89 pagine in giugno, ma 128 nel giugno '83; e nel luglio dello stesso anno 240, nel luglio del '22, 47 pagine, ed en passant l'Inno ai Patriarchi; nell'agosto del '22 contiamo 26 pagine, in quello del '23 se ne contano 240; e 250 in settembre, mentre nello stesso mese del '22 ne aveva composte 9; ad ottobre del '22 sono 15, nel 23 ancora 249: in tre soli mesi del 1823 ha composto circa un sesto dello Zibaldone; nel novembre del 1822, 3 pagine, del 1823, 123; a dicembre del '22 sono state 14, del 1823, 67.

Naturalmente l’approssimativa minuziosità dei conteggi, che si potrebbe estendere, grazie all’accortezza leopardiana, sino a computare il ritmo settimanale e persino giornaliero della composizione, non dà di per sé evidenza alla possibilità che Leopardi sia stato ‘sommo filosofo’, ma al contrario anche il solo congetturare che potrebbe esserlo stato – che potrebbe esserlo, la ‘filosofia’ non conosce il fu – rende possibile scorgere il loro esser concentrate in poco d’anni e rende plausibile scorgere un andamento unitario sebbene policentrico, nelle sue annotazioni: i primi tre anni contenendo quasi i semi dello sviluppo, i quattro anni successivi (inframezzati di pause) la potente crescita della pianta, gli ultimi otto anni ricchissimi di fruttificazione, dalle stesse Operette, sino all’ultima pagina inclusa, e dirimente, dello Zibaldone che si dispiega nell'ultima operetta, come altre annotazioni degli ultimi anni si dispiegheranno negli ‘acidi’ e ‘senili’ Pensieri. La metafora arborea intende rendere percepibile quello di cui gli interpreti, nella quasi totalità solo preoccupati di scandagliare in minuto le apparenti correlazioni tra mutamenti ‘esistenziali’ e mutamenti di pensiero tengono poco o nulla conto: i modi in cui il pensare del ‘metafisico’ corrisponde a proprie necessità, alle necessità del ‘colloquio’ con l'‘essere’, svincolate dalle e comunque mai direttamente e mai solo riconducibili alle mene quotidiane; dal che discende che tanto meno queste possano ‘causare’ quelle.

Badando a intravvedere le necessità proprie del pensare ‘metafisico’ appare invece netto quel che ha già rilevato vigorosamente Severino: come non si possa approssimarsi ai Canti ed alle prose del Leopardi, non tenendo conto dell’unitarietà e coerenza delle ricerche dello Zibaldone[73]; e che quanto alle Operette morali in particolare, al di là dei riscontri letterali, più volte – ancora una volta grazie a Gentile – più o meno accuratamente scandagliati[74], appare non improbabile che in esse si concentri e purifichi il lavoro filosofico degli anni precedenti e coevi, e come di questo lavoro imponente esse si alimentino.

Tutto questo non appare ‘ovvio’, se ancora nel '99, 1999, Marti, più di mezzo secolo dopo il suo scritto sulla critica predesanctisiana al Leopardi, innegabilmente coerente sino all'estremo, afferma risolutamente quanto allo Zibaldone, se possibile estremizzando la posizione gentiliana ed approdando ad una sorta di storiografismo assoluto:

«Necessità prima e indefettibile dovrebbe sempre esser quella di collocare il singolo pensiero nel singolo e specifico momento della vicenda intellettuale senza forzarlo ai fini di un'indimostrabile sistematicità e organicità. E la seconda, che strettamente ne deriva, è quella di non utilizzare un singolo pensiero come possibile supporto alla interpretazione di fatti, o di documenti, molto precedenti o molto successivi, e quindi verificatisi in condizioni biografiche e ideologiche e storiografiche del tutto diverse»[75].

Non è difficile scorgere qui da una parte l'approdo ad una definitiva, sistematica e monumentale, bio-storicizzazione del pensato vissuto che ancora una volta seclude da qualunque possibilità di approssimazione al pensiero ‘metafisico’ di Leopardi, o di qualunque altro ‘pensatore’, e più dei nove decimi della critica filosofica poetica letteraria e persino scientifica e politica aspira, con meno coerenza, a questa coesione monumentale, anche e soprattutto quando si tratti di demolire l'opera del pensatore o del poeta o del politico, indemoniandone la figura; e dall'altra, l'avvertire il Marti una necessità ‘reale’, quella di seguire e rieseguire gli andamenti interroganti – la dinamicità ‘concettuale’ intrinseca – senz'appagarsi a corrispondenze e richiami solo ‘letterali’. Ma ciò per il pensiero pensante comporta l'opposto di quello che Marti e gl'infiniti gazzettieri aspiranti martiani suppongono; comporta che vi siano nessi di continuità determinanti in qualunque tempo dei pensieri di un pensatore, che la dinamicità sta nella continuità, che il vigore di un pensiero è proprio nel mantenersi nella continuità, pur nella continua variazione, delle ipotesi assunte, delle domande postesi, dei modi dell'approssimazione, nella continuità, soprattutto, di ‘rapporto alla cosa’; ed uno dei nomi della continuità è ‘sistema’. Come Leopardi seppe bene:

«Chi non pensa da se, chi non cerca il vero co' suoi propri lumi, potrà forse credere in una cosa a questo, in un'altra a quello, e non curandosi di rapportare le cose insieme, e di considerare come possano esser vere relativamente fra loro, restare affatto senza sistema, e contentarsi delle verità particolari, e staccate, e indipendenti l'una dall'altra. E questo ancora è difficilissimo, perchè il fatto e la ragione dimostra, che anche questi tali si formano sempre un sistema comunque, sebbene possano forse talvolta esser pronti a cangiarlo, secondo le nuove cognizioni, o nuove opinioni che loro sopraggiungano. Ma il pensatore non è così. Egli cerca naturalmente e necessariamente un filo nella considerazione delle cose. È impossibile [947] ch'egli si contenti delle nozioni e delle verità del tutto isolate (c. m.) E se se ne contentasse, la sua filosofia sarebbe trivialissima, e meschinissima, e non otterrebbe nessun risultato. Lo scopo della filosofia (in tutta l'estensione di questa parola) è il trovar le ragioni delle verità».

E che la ‘verità’ sia proposizione, nel pensare metafisico – «...verità, per Leibnitz, è sempre – e ciò rimane decisivo – una propositio vera, una proposizione vera, vale a dire un giudizio corretto...»[76] – è ignoto forse appunto a chi non pensa da se e non «s'interna...co' suoi propri passi, nella considerazione delle cose»; ma non era ignoto, né poteva esserlo, al Leopardi in quanto filosofo speculativo, in quanto ‘metafisico’, che della filosofia ha contezza in tutta la sua ‘estensione’.

Aver presente la dinamicità, o presentire la potenzialità, di quella continuità di pensiero, nello Zibaldone, non pertanto non comporta che le Operette morali non risultino opera ‘metafisica’ a se stante, autonoma e compiuta, quale l’autore la progettò e compose e propose agli editori, rifiutando nettamente, com’è noto, di pubblicare le operette singole, o a gruppi, separatamente, secondo il suggerimento dell’editore Stella di Milano, e preferendo «tenerle sempre inedite al dispiacer di vedere un’opera che mi costa fatiche infinite, pubblicata a brani in un Giornale, come le opere di un momento e fatte per durare altrettanto».

Ma i ‘creatori’ non sembrano mai stancarsi delle iperboli; così il Leopardi, del manoscritto dell’opera aveva già dichiarato allo Stella: «…mi contenterei assai più di perder la testa che questo manoscritto…»; e precedentemente, ancor se possibile più enfaticamente: «…in quel ms. consiste, si può dire, il frutto della mia vita finora passata, e io l’ho più caro dei miei occhi»[77].

Da questi stralci, come da molti altri che si potrebbero allineare, vediamo confermata l’importanza da Leopardi attribuita al piccolo volume filosofico o ‘metafisico’, e quindi a questa parte della sua opera e del suo operare – e quale indebita forzatura i critici abbiano introdotto dipingendoselo come solo o essenzialmente poeta: «Leopardi filosofo non lo era …Egli fu soprattutto poeta e grandissimo poeta…»[78] – ma quello che colpisce nei due passi delle lettere è cosa getti sull’altro piatto della bilancia Leopardi, per consentire all’editore di ‘pesare’ le Operette, senza agguagliarle: la sua testa, e sorprendentemente i suoi stessi occhi.

Scrive questo, come avrebbe sostenuto qualche dottissimo scienziato positivista, critico leopardiano ad interim, poiché essendo pressoché «impotente a raggiungere la realtà sotto qualunque forma, anche come amore sessuale», non teneva in gran conto la testa, dove si forma la nostra immagine della realtà, né tanto meno gli occhi, che da Platone in poi, sono per noi, il senso fondamentale nella percezione e cognizione della ‘realtà’? E si compiaceva giustamente lo scienziato, datosi alla critica, di aver visto confermate a posteriori le sue ipotesi nella rilettura delle tesi del critico dallo sguardo d’aquila – il De Sanctis – che parimenti aveva scorto nel Leopardi la «impotenza di assimilarsi e di possedere il reale»[79]; suppergiù insomma, per rievocare un titolo dell’esuberante Anton Giulio Bragaglia: un evirato cantore.

Questo è, nel senso comune e presso la quasi totalità degli studiosi, il punto cardinale in questione, ancora oggi: ebbe o non ebbe, ha o non ha avuto, Leopardi, potenza di raggiungere e assimilarsi il ‘reale’ e di ricrearlo nella sua opera, in versi e in prosa?

Badando che non si dev’essere troppo precipitosi nel credere di sapere che cosa il ‘reale’ propriamente sia e ancor meno nel pretendere di possederlo, è indubbio che se Leopardi è un ‘metafisico’ ma anche un titano della poesia, lo è perché non poté non assimilarsi e possederlo, il ‘reale’; e che certissimamente se fu impotente a possederlo ed assimilarlo, non è un ‘metafisico’, ma neanche veramente poeta grande «La esperienza dell’arte come esperienza della verità o non verità dell’arte è più che un esperire soggettivo: essa è irruzione dell’obbiettività nella coscienza soggettiva. Quell’esperienza media l’obbiettività proprio lì dove la reazione soggettiva è più intensa»[80].

Ma cosa c’è allora, in delle pagine manoscritte, sia pure frutto di fatiche infinite d’un’intera vita, cosa ci può essere in esse, di più prezioso che la testa e la vista?

Il colpo d’occhio.

Avendo dimestichezza con le pagine dello Zibaldone non si ha difficoltà a ricordare quale importanza abbia il ‘colpo d’occhio’ per il pensiero leopardiano; tardivamente riconosciuta persino dal Gentile, che nell’ultimo suo intervento dedicato al Recanatese, ne cita un pensiero del 5 ottobre 1821, che definisce ‘profondo’:

«I tedeschi si strisciano sempre intorno e appiedi alla verità; di rado l'afferrano con mano robusta: la seguono indefessamente per tutti gli andirivieni di questo laberinto della natura, mentre l'uomo caldo di entusiasmo, di sentimento, di fantasia, di genio, e fino di grandi illusioni, situato su di una eminenza, scorge d'un'occhiata tutto il laberinto, e la verità che sebben fuggente non se gli può nascondere» [1855].

È notabile che anche il filosofo che più ha insistito, non senza tormento, sulla mancanza di sistema e di unità nel pensiero di Leopardi e che non ha esitato a definire ‘camerieri’ quelli che si affannano a ricostruirne uno a posteriori, dai ‘detriti’ zibaldoniani della sola poesia, riconosca profondità ad un pensiero con cui Leopardi delinea la differenza tra ‘colpo d’occhio’ e lavoro analitico della ragione – in un confronto con i metafisici tedeschi; col vertice, cioè col nucleo generante delimitato però dal francese Renato Delle Carte, della filosofia moderna.

E qui naturalmente si avverte il lettore sprovveduto che per determinare cosa possa ed abbia ad intendersi per ‘filosofia moderna’ occorrerebbe una digressione di un migliaio o due di pagine; s’accontenti quindi il lettore di un solo tratto della stessa: è quella forma di pensiero occidentale per la quale la terra ferma, la meta agognata, è la ‘cosa cogitante’. Per differenziare la propria posizione di ‘metafisico’, dice, tra altro Leopardi, nello stesso pensiero citato da Gentile, del ‘colpo d’occhio’: «L'esattezza è buona per le parti, ma non per il tutto. Ella costituisce lo spirito [1854] de' tedeschi; or ella o non è buona o non basta alle grandi scoperte».

– L’esattezza costituisce lo spirito dei Tedeschi.

– L’esattezza costituisce lo spirito.

Siamo in grado di pensare – di ripensare – questa semplice proposizione leopardiana?

Secondo la quale non l’esattezza è costitutiva nello spirito, cioè è una qualità dello e per lo spirito; ma l’esattezza è costituente lo spirito, quasi lo spirito fosse una conseguenza dell’esattezza, e ad essa subordinato. Uno spirito quindi buono per le parti, ma non per il tutto; non quello dei tedeschi soli, ma di chiunque l’abbia costituito dall’esattezza. Per i quali la possibilità del ‘colpo d’occhio’ non rientra nemmeno tra le possibilità.

«Quando delle parti le più minutamente ma separatamente considerate si vuol comporre un gran tutto, si trovano mille difficoltà, contraddizioni, ripugnanze, assurdità, dissonanze e disarmonie; segno certo ed effetto necessario della mancanza del colpo d'occhio che scuopre in un tratto le cose contenute in un vasto campo, e i loro scambievoli rapporti». [1854]

Il nostro tempo sembrerebbe essersi lasciata alle spalle – e secondo moltissimi sarebbe un segno di raggiunta maturità – la pretesa di cogliere col ‘pensiero’ campi costituiti da vastità di cose, siamo dominati dalla passione per l’analisi massima d’ambiti minimi – le grandi generalizzazioni suonano vuote. Tuttavia non è difficile verificare che anche se è indubbio che la ‘ragione analitica’ domini in qualunque regione dello scibile, è altrettanto indubbio che in qualunque regione dello scibile, in qualunque, quelle ‘produzioni’ che vi si affermano, riconosciute come lavori di riferimento dalla gran parte degli specialisti di quell’ambito di studi, o a volte, di più ambiti di studi, quelle produzioni a qualunque titolo ritenute ‘innovative’ – nei temi di ricerca, nei metodi, nella riorganizzazione dei materiali già noti, nell’ampliamento degli ambiti di ricerca, nella scoperta di nuove interdipendenze tra diversi campi di ‘oggetti’ – in tutti questi casi quelle ‘produzioni’ contengono un ‘colpo d’occhio’ su un vasto campo di oggetti e sui loro rapporti scambievoli – mentre infinite ricerche particolari e precisissime, pur nella loro necessità, entro i loro propri limiti, che Leopardi si guarda bene dal negare o misconoscere con questo riconoscendo la enorme capacità e competenza degli studiosi tedeschi dei quali dice con appropriatezza dirimente, «i tedeschi hanno un sapere immenso, una cognizione quasi (s'egli è possibile) intera e perfetta di tutte le cose che sono e che furono...essendo essi così padroni della realtà per forza del loro studio...» (c. m.) [2617], sono rese semi-inservibili dagli stessi autori che su quelle sole basi pretendono poi costruirsi una qualche purchessia concezione generale, della quale è impossibile all'uomo fare a meno ottenendo propriamente gli effetti sopra definiti.

Ma Leopardi guarda al fenomeno nella sua più ampia possibilità d’attuazione, non limitato al solo modo della conoscenza ‘intellettuale’:

«È cosa ordinarissima anche negli oggetti materiali e in mille accidenti della vita, che quello che si verifica o pare assolutamente vero e dimostrato nelle piccole parti, non si verifica nel tutto; e bene spesso si compone un sistema falsissimo di parti verissime, o che tali col più squisito ragionamento si dimostrano, considerandole segregatamente» [1854].

Chiunque abbia avuto anche in piccole cose esperienza della responsabilità organizzative, dovendo coordinare un gruppo di persone e di attività, avrà avuto modo di ‘verificare’ in misura a volte sorprendente, l’appropriatezza del pensiero di Leopardi – poiché spesso il particolarismo del punto di vista di un partecipante dell’organizzazione non è motivato dal suo ‘egoismo’, ma proprio dalla precisissima concezione dei suoi soli compiti – anche là dove non siano formalizzati in un programma – soltanto quasi del tutto irrelati dall’anche piccolo tutto di cui sono soltanto parte, e non ‘centro’. Centro, soltanto in rapporto al quale si coordinano, organizzano, armonizzano, le parti anche tra loro, nella percezione dei loro scambievoli rapporti. La mancanza di ‘colpo d’occhio’ rovescia l’ordine d’importanza nelle ‘cose’: assolutizzando le parti, le centralizza; disperde il centro, dissolvendolo in esse; nella ‘pratica’, non meno che nella ‘teoria’. E qui il pensiero di Leopardi si muove nel trapasso tra l’una e l’altra – come annullando la scissione, che determina a tutt’oggi il pensare occidentale, tra teoria e pratica. Da quale dimensione parla, qui, il pensiero di Leopardi, per tornare al fenomeno nella sua massima ampiezza?

«Questo effetto deriva dall'ignoranza de' rapporti, parte principale della filosofia, ma che non si ponno ben conoscere senza una padronanza sulla natura, una padronanza ch'essa stessa vi dia, sollevandovi sopra di se, una forza di colpo d'occhio…» (c. m.) [1854]; così indicando il tratto ineliminabilmente non costruttivistico del ‘pensiero’, e di quello ‘metafisico’ essenzialmente; la necessità del pensare di ‘formarsi’ alle cose, approssimadovisi nel loro approssimarsi a ‘noi’, sovrastandoci – senza quindi ‘oggettivarle’ e senza imporre loro ed imporre a sé una metodicità.

Cosa consenta il colpo d’occhio, che la ragione analitica non consente, l’ha detto prima, nello stesso pensiero: «La minuta e squisita analisi, non è un colpo d'occhio: essa non iscuopre mai un gran punto della natura; il centro di un gran sistema; la chiave, la molla, il complesso totale di una gran macchina» [1852].

E questa è la qualità del pensare leopardiano già rilevata dal Giordani che estendendo il procedere del Leopardi negli studi filologici giovanili a tutto il suo pensiero, avvisava:

«Cammina breve e sicuro; stringe in poche parole efficaci quel che altri dotti spanderebbero in prolisse dissertazioni: già assuefatto (sin d'allora!) a quello che fece poi sempre ne' filosofici ragionamenti, a mirare in tutte le cose (come i matematici usano) al centro» (c. m.) [81].

E basti qui, sostituire in parentesi a matematici, dei cui studi Giordani aveva comunque piena contezza, ‘metafisici’, per approssimare il pensiero pensante di Leopardi.

La possibilità di ‘scoprire’ il gran punto, il centro, il complesso totale, è il ‘colpo d’occhio’; è la possibilità di gettare «sul gran sistema delle cose un’occhiata onnipotente» che riveli «un grande e veramente [1852] fecondo segreto della natura, o un grande ed universale errore… (giacchè la scoperta delle verità non è ordinariamente altro che la riconoscenza degli errori.)».

E questo, questo soltanto, è il banco di prova delle Operette morali, di ogni singola operetta, come del loro ‘sistema’; anche se quest’ultimo non siamo ancora nemmeno in grado d’intravederlo.

E che il ‘colpo d’occhio’ sia il banco di prova delle Operette è detto, con tutta la chiarezza desiderabile dallo stesso Leopardi, in uno degli abbozzi d’operetta, solitamente accolto dai curatori, nell’Appendice apocrifa.

L’abbozzo ha titolo Dialogo tra due bestie P: E. un cavallo e un toro – ed in certa misura confluirà nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo. Frammezzo ai brani di dialogo tra toro e cavallo leggiamo come il Leopardi pensasse l’operetta in fieri: «Discorso in grande sopra questa razza umana che finalmente si finge estinta, sopra le sue miserie, i suoi avvenimenti, la sua storia, la sua natura ec.»[82].

Per intendere quanto sia in grande il discorso possiamo soffermarci a tentare di immaginare quel che per noi è l’impensabile stesso – la totale estinzione della nostra specie, l’irreversibile scomparsa dell’umanità. Ciò da un punto di vista, per così dire, positivamente logico, è impossibile: poiché essendo noi gli unici viventi pensanti, e ricordanti, spariti che fossimo dalla terra, ne consegue che sparirebbero con noi e pensiero e ricordo. E tuttavia: come apparirebbe il mondo in se stesso senza noi, e agli altri viventi, se contro la logica, ma non contro l’analogia, li immaginiamo senzienti, ma non inciviliti? Il gioco dell’immaginazione libera lo sguardo, il pensiero dall’intera preistoria e storia delle civiltà umane. Ancora un modo dell'epochè, della sospensione di ogni giudizio, e di ogni pregiudizio, come già nella dissertazione giovanile – ancora il rimodularsi del più puro e perciò più difficile gesto filosofico.

«In somma questo Dialogo deve contenere un colpo d’occhio in grande, filosofico e satirico sopra la razza umana considerata in natura, e come una delle razze animali, rendutasi curiosa per alcune singolarità, insinuare la felicità destinataci dalla natura in questo mondo come a tutti gli altri esseri, perduta da noi per esserci allontanati dalla natura, discorrere con quella maraviglia che dev’essere in chiunque si trovi nello stato naturale, delle nostre passioni, dell’ambizione, del denaro, della guerra, della stampa, della tirannia, della previdenza, delle scelleraggini, ec. ec.»[83].

Anche solo in questo stralcio d’abbozzo sono contenute alcune delle vedute fondamentali del Leopardi – che alimenteranno il suo pensiero e la sua poesia sino ai suoi ultimi giorni di vita in cui completava, dettandoli al Ranieri, i Paralipomeni della Batracomiomachia; l’opera sua forse più discara alla critica italica; un’invenzione almeno della quale supera di molte spanne le più ardite costruzioni immaginifiche di Edgar Allan Poe, quelle che deliziarono Baudelaire e Valery; e per la quale sola, e senza ricordare anche i Pensieri e gli ultimi canti, qualunque sia stata l’indelicatezza verso il suo sodale di sette anni[84] e la presunta mediocrità intellettuale[85] del Ranieri, a questi dobbiamo comunque esser grati, poiché senza Lui e la giovanissima sorella Paolina, quelle opere Leopardi forse non avrebbe trovato le forze e i mezzi, tra i quali il pane «…il trarre per una sovvenzione straordinaria non può accadermi e non mi è accaduto se non quando il bisogno è arrivato all’articolo pane…»[86], per metterle per iscritto.

E come nei Paralipomeni così nell’abbozzo dell’operetta, non è difficile scorgere i temi che infurieranno nella temperie del pensiero evoluzionista della seconda metà dell’Ottocento in tutta Europa ed Oltre-atlantico, dalla pubblicazione dell’Origine delle specie di Darwin, largamente ed accuratamente anticipati. E questo potrebbe essere un tratto d'ambiguità ‘metafisica’, come poi lo sarà in Nietzsche, il precorrimento del e l'apparentamento al biologismo, ma comunque attesta la competenza leopardiana in questioni poi trattate nella filosofia delle scienze, successivamente.

Ma quel che più importa nell’abbozzo, ai fini d’un’approssimazione non riduttiva alle Operette, è che come qui si prospetta, in ogni operetta ciò che va ‘udito’ innanzitutto è il ‘colpo d’occhio’ in grande, che ognuna contiene, avendone materiato la concezione; in ognuna differente, anche se in scambievoli rapporti cogli altri; in ognuna innanzitutto immediatamente inevidente.

Ma inevidenza non comporta inesistenza.

Né soprattutto riconduzione al frammentario e al, per così dire, ‘sottrattivo’. Imbarazza dover sostenere, dopo l'imperversare secondo-novecentesco, dei relativismi e criticismi d'ogni grado e risma una qualche ‘positività’ della cognizione della ‘realtà’, la possibilità per dirla quasi classicamente con Horkheimer di una qualche ‘ragione oggettiva’ inattingibile dalle scienze e pure non per questo inverificabile; né inattingibile dal ‘se stesso come stesso’. L'ammirando decostruire cui ci hanno avvezzati decenni d'elegante e sempre lambente pensar francese, per il quale la ‘realtà’, a parlar propriamente, è finita in pappa, oppure, per dirlo elegantemente, è assunta quale orizzonte inattingibile, ha contribuito di fatto ad affrancare gli scienziati dal purchessia minimo confronto con la ‘filosofia’ e ha reso del tutto sconveniente insistere sulla possibilità che la scienza non sia né l'unico né il prioritario modo d'approssimazione alla ‘realtà’. A supporto della ‘scienza’, alla realtà si veniva imputando via via univocità unificanti e derivate: dogmatiche, positivistiche, pragmatiche, operazionali, fattuali; dalle quali sembrava gioco forza liberarsi, a suon di ‘negazioni’ e ‘frammentamenti’ e ‘particolareggiamenti’; per finire coll'appoggiarsi ad una sorta di principio gnoseologico informulato che, più o meno, potrebbe suonare: qualunque affermazione è negazione.

Al quale è stato ascritto anche il procedere leopardiano nello Zibaldone; e le annotazioni, di per sé, appare innegabile vi si prestino. Ma si tratta di un frammettimento improprio, di un aggiornamento categoriale irrichiesto e dal Leopardi e dalla ‘materia’. L'affidarsi al colpo d'occhio non segna la rinuncia a cogliere l'unità e l'organicità di un ‘sistema’, nella teoria e nella pratica, ma semmai ribadisce la necessità che non le cose servano al sistema, ma il sistema alle cose; e per Leopardi infatti «Chi dispera di trovare il sistema o i sistemi veri della natura (…) ha posto per base la disperazione di conoscere la somma della natura, e il più rilevante delle cose...».

E anche quando ammette e riconosce che «la filosofia moderna non fa ordinariamente altro che disingannare e atterrare», da questo non si può inferire che non abbia in vista un'altra possibilità del ‘pensare’, come mostra in un passo la cui rilettura un giorno potrebbe anche sgomentarci:

«Ho detto che la filosofia moderna, in luogo degli errori che sterpa, non pianta nessuna [2713] verità positiva. Intendo verità semplicemente nuove; verità di cui vi fosse alcun bisogno, che avessero alcun valore, alcuno splendore, che meritassero di essere annunziate e affermate, che non fossero al tutto frivole e puerili, che non fossero manifestissime e conseguenti per se medesime, se gli errori contrarii non avessero avuto luogo, o non esistessero oggidì nelle menti degli uomini. Per esempio la filosofia moderna afferma che tutte le idee dell'uomo procedono dai sensi. Questa può parere una proposizione positiva. Ma ella sarebbe frivola, se non avesse esistito l'errore delle idee innate...» (c. m.) …

vale a dire, più o meno, se non fosse esistito l'intero e immenso impero del pensiero metafisico occidentale da Platone ad oggi! Il quale viene combattuto da verità «al tutto frivole e puerili»; ed immaginiamo allora quanto appaia, agli occhi del pensatore Leopardi, frivolo e puerile l’errore che combattono… E siamo ben lontani ancora anche solo dal sospettare che ci si possa assumere una simile responsabilità: affrancarsi dall’intero pensiero occidentale, per come l’abbiamo conosciuto e praticato; e per come ci ha non solo formato ‘spiritualmente’, ma forgiato carnalmente.

Ma Leopardi non si limita a mostrare i limiti della ragione metafisica; indaga, ricerca e mostra anche quale altra possibilità di ‘ragionare’ apra il colpo d'occhio:

«Persone imperfette, difettose, mostruose di corpo, tra quelle che non arrivano a nascere e si perdono per aborti, sconciature ec. non volontarie nè proccurate; tra quelle che son tali dalla nascita, e muoiono appena nate o poco appresso, per vizi naturali interni o esterni; quelle che così nate vivono e si veggono e si ponno facilmente contare, annoverando le mostruosità e difettosità d'ogni sorta; quelle finalmente che tali son divenute dopo la nascita, più [3059] presto o più tardi, naturalmente e senza esterna cagione immediata, voglio dire o per vizio ingenito sviluppatosi in séguito, o per malattia qualunque naturalmente sopravvenuta; sommando dico e raccogliendo tutti questi individui insieme, si vedrà a colpo d'occhio e senza molta riflessione che il loro numero nel solo genere umano, anzi nella sola parte civile di esso, avanza di gran lunga non solamente quello che trovasi in qualsivoglia altro intero genere d'animali, non solamente eziandio quello che veggiamo in ciascheduna specie degli animali domestici, che pur sono corrotti e mutati dalla naturale condizione e vita, e da noi in mille guise travagliati e malmenati; ma tutto insieme il numero degl'individui difettosi e mostruosi che noi veggiamo in tutte le specie di animali che ci si offrono giornalmente alla vista, prese e considerate insieme. La qual verità è così manifesta, che niuno, io credo, purchè vi pensi un solo momento e raccolga le sue reminiscenze, la potrà contrastare. Simile differenza si troverà in questo particolare fra le nazioni civili e le selvagge, e proporzionatamente fra le più civili e le meno, secondo un'esatta scala, come tra' francesi italiani tedeschi spagnuoli ec. [3060]

Quali conseguenze si tirino da queste osservazioni, è così facile il vederlo, come esse conseguenze sono evidentissime, ed hanno quella maggior certezza che possa avere una proposizione dimostrata matematicamente, e dedotta matematicamente da un'altra di cui non si possa dubitare. (28. Luglio. 1823.)»

Non sono dell'autore, i corsivi ma qui appaiono opportuni. Quello che qui è mostrato da Leopardi, con una sospensione magistrale, è il ‘funzionamento’ del colpo d'occhio; dall'esercizio dell'osservare e ricordare, per così dire, puro. Quel che rimane sospeso, e sottratto, è precisamente quello che permetterebbe di verificare l'efficacia del funzionamento: l'enunciazione delle ‘conseguenze’, tratte dalle osservazioni. Ma proprio questo Leopardi, ancora una volta lasciando scorgere un'immensa dimestichezza nel ‘pensare’, non fa: non enuncia le conseguenze. E proprio non facendolo permette che divenga visibile il modo dinamico stesso del, per così dire, pensare-degli-occhi, mediante osservazioni, attenzione, reminiscenze; e non un suo modello schematico. Sottrae il risultato, per lasciar risaltare il movimento stesso, del ‘pensare’. E se non tutte, non certo sono poche le annotazioni dello Zibaldone che fungono da ‘modelli’ dinamici del pensare al pari di questa; ma questa è dirimente qui per quello che vi afferma in chiusa Leopardi: che le conseguenze tirate dalle osservazioni, dal colpo d'occhio, hanno, niente meno che la stessa certezza di una «proposizione dimostrata matematicamente» e dedotta matematicamente da un assioma; quindi non solo non si avrebbe motivo di dubitare delle conseguenze, ma nemmeno delle ‘osservazioni’, del colpo d'occhio.

L'alternativa ‘concettuale’ prospettata fondamentalmente dalla kultur francese e splittata, come dicono nell'amenissimo gergo neo-anglo gli scienziati, nell'intero mondo civilizzato all'occidentale, radicandosi, sin tra le più sperdute province in migliaia di scaffali, dalla quale discendono le ‘ermenutiche’ caleidoscopiche – prospettiche sgargianti e all'infinito ricombinabili – è ben precisata in un ‘frammento’ del tardo Roland Barthes:

«SISTEMA/SISTEMATICA Proprio del reale non sarebbe d'essere impadroneggiabile? E proprio del sistema non sarebbe di padroneggiarlo? Come può fare allora, di fronte al reale, chi rifiuta il padroneggiare? Dismettere il sistema come apparato, accettare la sistematica come scrittura...»[87]; quest'alternativa, quest’abdicazione al ‘reale’, ma anche alla scrittura – che non può risolversi solo in un padroneggiare, relativo ma pur sempre solo padroneggiante – è estranea al pensiero ‘metafisico’ del Leopardi; che nonostante assuma inizialmente la tesi negativa «tutto è relativo [452]», non la svolge in un relativismo uniformante, ma in un accesso a-dogmatico alle cose; anticipando, forse ambiguamente, due delle principali linee di ricerca filosofiche, tra Otto e Novecento, il materialismo, e la fenomenologia, come intravisto peraltro dal Luporini e dal Severino, tra altri. E senza alcuna riduzione a posteriori, è, ad ogni modo, alla fenomenologia che qui guarderemo.

Ma, prima di affidarsi con troppo zelo alla cura dei tempi contemporanei, rileggiamo quanto veniva annotando Leopardi, rafforzandosi negli esercizi del pensiero-degli-occhi, o forse ancor meglio del pensiero-dAgli-occhi; millequattrocento venti pagine dopo la prima annotazione del '21 richiamata, trascorsi quasi due anni, il 26 Agosto 1823, nuovamente del ‘colpo d’occhio’ in grande, anche qui però ripercorrendone il manifestarsi dinamicamente; e ripercorrerne l’annotazione consente a noi d’intravederne altri aspetti e d'approssimarli:

«Il poeta lirico nell'ispirazione, il filosofo nella sublimità della speculazione, l'uomo d'immaginativa e di sentimento nel tempo del suo entusiasmo, l'uomo qualunque nel punto di una forte passione, nell'entusiasmo del pianto; ardisco anche soggiungere, mezzanamente riscaldato dal vino, vede e guarda le cose come da un luogo alto e superiore a quello in che la mente degli uomini suole ordinariamente consistere. Quindi è che scoprendo in un sol tratto molte più cose ch'egli non è usato di scorgere a un tempo, e d'un sol colpo d'occhio discernendo e mirando una moltitudine di oggetti, ben da lui veduti più volte ciascuno, ma non mai tutti insieme (se non in altre simili congiunture), egli è in grado di scorger con essi i loro rapporti scambievoli, e per la novità di quella moltitudine [3270] di oggetti tutti insieme rappresentantisegli, egli è attirato e a considerare, benchè rapidamente, i detti oggetti meglio che per l'innanzi non avea fatto, e ch'egli non suole; e a voler guardare e notare i detti rapporti».

Senza forse forzare le parole, l’uso delle parole, possiamo dire che si tratta di una fenomenologia nel ‘colpo d’occhio’, più che del ‘colpo d’occhio’; sempre che per fenomenologia non s’intenda quello che non è mai, soltanto pura descrizione, ma simultaneità di perceptum e percipiens nella perceptio.

È un ‘colpo d’occhio’ al ‘colpo d’occhio’: agli stati d’animo dai quali è alimentato; alle azioni interne-esterne, dallo ‘scoprire’ più cose al tempo stesso, dal consentire di riesplorare rapidamente oggetti già prima veduti e conosciuti, singolarmente – quindi necessitando lunga dimestichezza con essi – ma in un’unica ‘rappresentazione’; al meglio vederli e riconoscerne gli scambievoli rapporti, al farlo facilmente e perfettamente e pienamente, come dirà continuando:

«Ond'è ch'egli ed abbia in quel momento una straordinaria facoltà di generalizzare (straordinaria almeno relativamente a lui ed all'ordinario del suo animo), e ch'egli l'adoperi; e adoperandola scuopra di quelle verità generali e perciò veramente grandi e importanti, che indarno fuor di quel punto e di quella ispirazione e quasi mania e furore o filosofico o passionato o poetico o altro, indarno, dico, con lunghissime e pazientissime ed esattissime ricerche, esperienze, confronti, studi, ragionamenti, meditazioni, esercizi della mente, dell'ingegno, della facoltà di pensare di riflettere di osservare di ragionare, indarno, ripeto, non solo quel tal uomo o poeta o filosofo, ma qualunqu'altro o poeta o ingegno qualunque o filosofo acutissimo e penetrantissimo, anzi pur molti filosofi insieme cospiranti, e i secoli stessi col successivo avanzamento dello spirito umano, cercherebbero di scoprire, o d'intendere, o di spiegare, siccome [3271] colui, mirando a quella ispirazione, facilmente e perfettamente e pienamente fa a se stesso in quel punto, e di poi a se stesso ed agli altri, purch'ei sia capace di ben esprimere i propri concetti, ed abbia bene e chiaramente e distintamente presenti le cose allora concepite e sentite».

Si possono certamente liquidare queste tesi di Leopardi come riflesso di uno stato d’esaltazione tutto ‘interiore’ e quasi romantico, ma si può invece ravvisarvi la dettatura di ogni condizione di reale ‘creazione’, dell'opera del poeta, come del filosofo – poiché in questo senso ogni filosofo è anche ‘creatore’ – dell’opera dell’uomo «mezzanamente riscaldato dal vino» – eco forse questa dell’antica medicina greca ed araba – o che crea «nell’entusiasmo del pianto». E quanto vi sia qui di ‘filosofico’ ancora in quest'annotazione lo si potrebbe desumere dalle battute conclusive di un corso di lezioni di Theodor Adorno, non certo sospettabile di tenerezza verso gli ‘irrazionalismi’:

«Ciò che vorrei esigere dalla filosofia quanto a profondità è la forza di resistenza. Non lasciarsi istupidire da niente...Affinché [si possa] praticare questa resistenza si rendono necessarie alcune qualità: non solo la capacità di distinguere metodicamente il vero dal falso, ma anche un fattore che gioca un ruolo in Platone e che il Rinascimento ha in lui unilateralmente accentuato: l'entousiasmos [che] dota di una forza per la quale non vi è realmente alcuna parola...»[88].

Tenendo fermo a questo si paleserebbe forse allora allo sguardo l’insufficienza ineliminabile e con ciò stesso il limite di qualunque approccio puramente storiografico, della pura caccia alle ‘fonti’, della inutile ricerca dell’originalità o della precedenza nella formulazione d'un qualche pensiero affine – e che l’accumulo di tutta l’erudizione di tutti i millenni delle opere dello ‘spirito’ umano, ed il loro riscontro letterale con l’opera del ‘creatore’, non solo non chiarisce ma potrebbe essere, come regolarmente è, fuorviante senza la percezione del colpo d’occhio alla totalità degli oggetti ed ai loro rapporti scambievoli; si paleserebbe come tutte le ‘fonti’, pur rintracciabili di un’opera, traggono il loro vigore dall’opera, dall’esser state funzionalizzate a «ben esprimere i concetti» del filosofo, colti nel colpo d’occhio alle cose – e non questi, i concetti del filosofo deriverebbero, o dipendono, da quelle, le fonti, gli scritti di altri filosofi.

Ma non meno fuorviante appare la pretesa, storicistica e storiografica, di ‘spiegare’ e contenere l’opera d’un autore dentro i limiti della sua epoca, dell’epoca in cui l’autore visse ed operò, condannando come ‘anacronismi’ i tentativi di mettere in dialogo l’opera con questioni del presente, o, trattandosi qui dell’opera di Leopardi, piuttosto venture.

Così riespone Giulia Santi con un metaforeggiare alquanto ardito la vessata questione:

«le interpretazioni del pensiero leopardiano spesso si collocano tra due tendenze polarizzanti…Da una parte, Leopardi viene calamitato da una forza esclusivamente ex ante, che analizza le sue posizioni solo in funzione dei pensatori e delle fonti con le quali si pone in rapporto critico. Dall’altra parte, invece Leopardi viene condotto, magneticamente, ex post tramite teorie che lo sezionano nel continuo raffronto con filosofi a lui successivi, quasi volendo studiare Leopardi ‘come antesignano di’, soppesandolo lungo le coordinate, per esempio, di un Nietzsche, di un Marx, o, addirittura, di un Heidegger»[89].

La Santi, il cui possesso delle metafore, a dispetto del piglio, a ben guardare più che ardito sembra assai avventato, perciò incerto, non risultando facile intendere come si possa soppesare qualcuno, lungo le coordinate di qualcun altro, né ben comprendendosi quale sia il rapporto tra ‘magnetismo’ e ‘sezionatura’, prosegue ricordandoci che a ‘ricucire’ Leopardi – dopo esserne stato calamitato fuori dalle anonime forze dette ex ante ed ex post – all’interno della sua epoca hanno provveduto i prodi Luporini e Binni e Timpanaro. E se sul Binni e più sul Timpanaro non c’è forse da obiettare, il richiamo al Luporini, e soprattutto al Luporini del Leopardi progressivo, potrebbe sollevare perplessità, dal momento che a sentir l’autore, Leopardi risulterebbe essere stato l’ibridazione tra un premarxista, in quanto non ancora dialettico ma quasi, e un post heideggeriano, in quanto non più esistenzial-nichilista, ed irrazionalista, ma conseguente materialista[90]; ed essendo il grandissimo filosofo di Treviri morto nel 1883, ed il grandissimo pensatore di Messkirch morto nel 1976, e soprattutto vivo ed operante nell’annus mirabilis 1947, quanto ad anacronismi si potrebbe fare concorrenza allo spiritismo, o ai cicli delle reincarnazioni…

Dispute infinite di questo tono riempiono le carte, per evitare di mettere alla prova, mettendosi alla prova con, le pretese, al senso comune iperboliche, se non deliranti, dei ‘metafisici’ – come quella di un Hegel, che nella Scienza della Logica pretende pensare i pensieri di Dio stesso prima della creazione, o quelle di un Nietzsche che pretende il suo Zarathustra inauguri una nuova epoca del mondo, o quelle di un Heidegger che in un saggetto di poco più che dieci pagine pretende approssimarci per la prima volta in tutta la storia del pensare occidentale ‘la cosa in quanto cosa’. Queste pretese, forse Leopardi, come già della metafisica leibniziana, avrebbe detto esser ‘favole e sogni’ o frivolezze, ma non si sarebbe meravigliato affatto dei tentativi di quei ‘metafisici’ tedeschi, di strapparsi alla propria epoca.

Ogni pensatore è antesignano solo di se stesso, del ‘proprio’ pensiero dell'‘essere’; all' ‘essere’, alla ‘natura’ appropriato; appropriato dall'‘essere’, dalla ‘natura’. Quindi se nonostante le ricuciture ‘Leopardi’, o meglio la sua opera, poiché Leopardi non può, come chiunque altro, essere ristrappato alla morte, viene ristrappata fuori dalla ‘sua’ epoca ciò non accade in quanto lo si possa o debba o voglia ricucire addosso alla modernità – addirittura ad un Heidegger, un gobbino cucito addosso ad un nanetto non sarebbe un bel vedere – ma in quanto il pensiero di Leopardi è dello stessa portata ‘metafisica’ del pensiero di Marx, di Nietzsche, di Heidegger; per un momento ammettendo che i primi due ed il terzo siano assimilabili; o, secondo altri, ammettendo che il primo sia degradabile agli ultimi due.

Ma lo sono, anche, assimilabili realmente, e a loro Leopardi e pochi altri, in quanto rispondono con le loro opere alla velata ma incalzante necessità che motiva l’accadere della ‘storia’ d’Occidente, la storia qui intesa come l’accadimento stesso dell’Occidente, non come la rappresentazione di decorsi trascorsi, passati; la storia generantesi dal rapporto e disrapporto con la ‘natura’ tutta – e non è questa ormai la questione fondamentale anche per i ‘filosofi di società’ occidentali, la compossibilità di vita terrestre ‘naturale’ e società mondiale? – o, se si preferisce una versione meno ‘esotica’, in quanto pensano accordandosi con la più che bimillenaria tradizione del pensiero occidentale: un accordarsi che in beffa al principio di non contraddizione, non esclude, ma anzi impone le più aspre contese.

Una tradizione dalla quale l’intero mondo contemporaneo dipende a tal punto, talmente avendola, per così dire incorporata – da credere le opere che l’hanno generata quasi larve di crisalide. Un’apparenza dalla quale ci si libera solo raccostandosi alle opere dei ‘creatori’ non domandandosi, come tutto giorno si fa, come ci possano tornare ancora utili nell'unica cosa per noi legge, la sacra attualità, ma che cosa, le opere, possano di noi, che abbiamo dimenticato e che ignoriamo ancora.

Riaccostandoci alle Operette con queste domande, ed avendo presente la gittata del colpo d’occhio – potremmo cominciare ad approssimarle con qualche più di riguardo, di quel che sinora non è stato fatto da molti, ed anche forse con timore – culmine quali sono dello strenuo esercizio di ricerca e scrittura filologico-filosofica, condotto nei precedenti quattro cinque anni ad un’intensità difficilmente eguagliabile, durante i quali, dando prova continua di una fermezza di vedute sui fondamenti del pensiero occidentale, della ‘realtà’ storica concreta dell’Occidente, una prova non so se rinvenibile così precoce in altri pensatori di ogni tempo – altro che ripiegamento solo sul suo mondo interiore e sul suo travagliato cuore – Leopardi assolve al compimento, nella direzione a ‘se stesso’ congemine, di quel compito che Nietzsche intravvedrà a sua volta, e a propria volta condurrà a compimento, in tutt’altra, per così dire, possibilità metafisica, indicandolo con questa breve annotazione: «Immane autoriflessione: divenire consapevoli di sé non come individuo, ma come umanità. Riflettendo su di noi, andiamo col pensiero indietro: andiamo per piccoli e grandi sentieri»[91].

E dell'immane autoriflessione le Operette morali sono conseguimenti come e forse più dello Zibaldone; e se in questo può esservi qualcosa di più decisivo, può esservi soltanto nel modo indicato da Heidegger: in quanto decisivo per un pensatore è il movimento del domandare, non la sua opinione conclusiva, o la formulazione che egli ne dà. E sotto questo riguardo forse realmente lo Zibaldone è ‘libro’ unico in tutte le letterature, poiché custodisce e restituisce il puro movimento del domandare di un pensatore – e sarebbe forse tempo di smetterla di cercare di conciliare le apparenti contraddizioni del ‘sistema’ leopardiano, impicciandosi in questioni quali ‘la natura è santa o matrigna?’, quasi già certo avessimo che cosa è ‘natura’ o la natura non potesse essere entrambe le cose, e di cominciare a studiare, con lo stesso rigore con cui si studiano le tesi di Aristotele, giusta una famosa esortazione di Heidegger ai suoi dubbiosissimi ‘studenti’ a proposito del pensiero di Nietzsche[92], dello Zibaldone gli andamenti e i mutamenti nel domandare.

Tuttavia nell'opera compiuta, nelle Operette morali, è contenuto il conseguimento dell'interrogare del pensatore – e se soltanto avendo negli occhi l'interrogare del pensatore è possibile liberare lo sguardo per il conseguimento, senza ricondurlo ad ambiti più ristretti ed impropri, soltanto con negli occhi il conseguimento ci approssimiamo a ciò che di più proprio del ‘reale’, del ‘se stesso come se stesso’ e dei loro scambievoli rapporti il pensatore ha pensato; e poiché dal riconoscere il conseguimento del pensiero di Leopardi siamo ben lontani ancora, come presagiva il Russo, e per questo siamo lontanissimi dal riconoscerle opera ‘metafisica’ di livello europeo le Operette, nonostante una qualche indicazione in tal senso fosse già venuta dal trovatello della cultura Cardarelli, opera ‘metafisica’ dell’incisività, almeno delle Meditazioni filosofiche del Delle Carte, o alla Critica della ragion pura, di Kant, ricordando che le «decisioni non maturano con i discorsi, ma soltanto con le opere»[93], cercherò di approssimarmi ad una soltanto delle Operette e di ripercorrerne in qualche tratto il colpo d'occhio.

Certo, se mai questo scrittarello dovesse accidentalmente incorrere nell'onore d'esser citato in qualche fitta nota bibliografica da qualche eruditissimo critico leopardiano futuro – che solo i veramente eruditi conoscono anche le bazzecole – potrà succedere che mi si collochi tra gli emuli minori dell'impresa della Santi, determinata col suo lavoro a rendere possibile, citiamo alla ‘incerta’ lettera, il «definitivo superamento di alcuni ostacoli interpretativi che, come zavorre, hanno a lungo impedito alla speculazione leopardiana di prendere il volo e di venir accettata in maniera generalizzata (non solo tra gli specialisti della materia) tra i riferimenti primi del pensiero moderno»[94]. Sebbene poi, la inevitabilmente spessa caligine del tempo, renderebbe assai incerto il discernere se, per motivi mezzo anagrafici e mezzo bibliografici, l'ispirato e la ispirante, non fossero stati influenzati entrambi da quello che un reincarnato De Sanctis non esiterebbe a battezzare come il novello trombettiere di Leopardi, Emanuele Severino, che già vent'anni fa andava proclamando:

«...nonostante le rivalutazioni si continua ad ignorare che Leopardi è uno dei più grandi pensatori dell'Occidente... Non si ascolta il grande dialogo di Leopardi con l'intera civiltà e cultura dell'Occidente...l'unità rigorosa e potente, la continuità profonda del pensiero di Leopardi è stata essa stessa ignorata»[95];

o ancora trombettava: «Il pensiero di Leopardi non ha nulla che vedere con una semplice adesione alla filosofia moderna e all'illuminismo: esso scende nell'essenza più profonda della filosofia moderna e della storia dell'Occidente»[96] e poi, con polmoni inesausti quest'altro altissimo suono mandava a disperdersi nei cieli: «La grandezza e potenza del pensiero del Leopardi è anche la grandezza e potenza della sua interpretazione storica» e dispiegava ancor più alte note in alto soffiando: «Sessant'anni prima di Nietzsche, Leopardi vede con chiarezza totale il ‘nichilismo’ dell'uomo europeo, la morte di Dio...»[97]; ma dopo questo folle volo, troppo alto invero per penne solo mortali, eccolo raggricciarsi e cadere, anfanando la più fiacca delle ‘imitazioni’: «la volontà di potenza (=esistenza=natura)” (c. m.)[98] – niente meno che ripetendo Heidegger, con l'uguagliare al pensiero fondamentale di Nietzsche quello di Leopardi; e riuscendo così ad un disassorto vedere e suo malgrado ricadendo nei più triti refrain: grande è Leopardi perché è un già quasi Marx; o pure un già quasi Schopenhauer; o soprattutto un già quasi Nietzsche: ma questi sono grandi pensatori perché pensano e progettano l'infinità immanente dell'umanità; Leopardi è grande, se è lecito anticipare qui un tratto determinante del ‘suo’ pensiero dell'‘essere’, poiché è il pensatore delle ‘assolute’ finitudini, umana e cosmica.

E la prossimità a Nietzsche è stata vista ben per tempo, assieme alla loro invalicabile distanza: «En un mot, la pensée de Leopardi se rapproche exactement de Stendhal, de Stirner, et de Nietzsche. Il diffère toutefois de ce dernier en ceci: Nietzsche reve une civilisation régénérée par une aristocratie de Surhommes imposant sa domination à la foule au moyen d’une hiérarchie rigoureuse. Leopardi et Stirner ne dépassent pas l’individu; ils ne songent point à dominer, ils n’ont rient d’impèrialiste … (c. m.)»[99]. Se bene quel che intenda Leopardi per ‘individuo’ è da ben determinare, ancora.

E com'è certo da queste alterne fortune delle pagine d'uno scritto dello stesso autore, che sarà difficile alla critica futura discernere, tra più autori, chi influenzò chi, o se qualcuno non fosse stato per caso influenzato da nessuno, così è certo che ci è negato di scrutare gli insondabili futuri cammini della critica leopardiana... auguriamoci solo allora che essa non si riconoscerà quasi più nel pur immortale ritratto, fatto dal Carducci, d'un giovane, e soprattutto giovanilistico, critico leopardiano dei suoi tempi, il cui nome è stato però, ed è, Legione: Non potendo fontaniere, fu deduttore di rigagnoli[100].

E torniamo finalmente, all'unica Operetta trascelta per tentare di cominciare ad avvezzarci al pensiero pensante leopardiano; scelta anche perché dalla critica leopardiana considerata, nel libretto malinconico, la più atipica, quasi idillica nel tono; e quando lodata per la sua musicalità formale, e quando trovata sostanzialmente inconsistente, l'Elogio degli uccelli; intendendo che se il colpo d'occhio in grande leopardiano è contenuto anche in essa, altrettanto lo sarà nelle altre, ritenute da tutti d'argomenti assai più gravi.

Ad un primo sguardo la critica sembra non avere tutti i torti, poiché anche rileggendo più volte l'operetta non appare affatto con nettezza, cosa in essa sia propriamente in questione – e tanto l'andamento che il tema principale dello scritto sembrano rendere difficoltosa l'approssimazione. Quella che può essere approssimativamente indicata quale struttura dell’Operetta appare semplice ed è nota, e consta di cinque parti: 1) breve preludio; 2) I sviluppo del tema (elogio degli uccelli); 3) digressione sul riso; 4) Ripresa del tema con II sviluppo; 5) breve chiusa finale.

Se questa struttura formale, fosse da prendersi, per così dire, alla lettera e non pochi commentatori così hanno fatto, si potrebbe persino eliminare dall’operetta, la digressione, senza che la struttura ne venisse incisivamente modificata. Ma così non è: non a tutti i commentatori è sfuggito come il nucleo centrale dell'operetta non sia la vita, profusamente stagliata degli uccelli, ma appunto proprio la digressione sul riso «che dà il tono al discorso, lo spiega, lo illumina»[101].

E ciò appare di per sé sconcertante, che il pensiero, per così dire, fondante Leopardi l'introduca in una digressione. Ma come se questo non bastasse, il ‘soggetto’ stesso della digressione viene solo indirettamente connesso al pensiero fondante – al colpo d'occhio – il quale viene accennato di sfuggita e subito quasi abbandonato tra le righe. Comportamento singolare quello del filosofo, che invece di dichiarare apertamente il ‘suo’ pensiero e magari approfondirlo, quasi lo tace. Solo accenno che, da un lato motiva il disorientamento della critica, ma dall'altro richiede d'interrogarsi sui rapporti fra pensiero e parola nelle prose, non in questa soltanto, del Leopardi, nelle quali sembrano – vi accenna già il Prete, che calvinianamente (nel senso di Italo Calvino) insiste poi un po' troppo sulla ‘leggerezza’, troppo facendola pesare – congiungersi e conglobarsi leggerezza estrema di dettato, massima gravità del pensato – e il leggere si fa quasi un trasognare, quasi si fosse ‘materializzato’ in scrittura uno dei pensieri dello Zibaldone:

«Quante grandissime verità si presentano sotto l'aspetto delle illusioni, e in forza di grandi illusioni; e l'uomo non le riceve se non in grazia di queste, e come riceverebbe una grande illusione! Quante grandi illusioni concepite in un momento o di entusiasmo, o di disperazione o insomma di esaltamento, sono in effetto le più reali e sublimi verità, o precursore di queste, e rivelano all'uomo come per un lampo improvviso, i misteri più nascosti, gli abissi più cupi della natura, i rapporti più lontani o segreti, le cagioni più inaspettate e remote, le astrazioni le più sublimi...» [1855-1856].

Ed è notabile, qui, come dallo stesso pensiero possano scaturire vedute (non interpretazioni) opposte; poiché in questo stesso passo che Marti cita più lungamente, riportando ciò che segue al punto e virgola – «dietro alle quali cose il filosofo esatto, paziente, geometrico, si affatica indarno tutta la vita a forza di analisi e di sintesi. Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare il vero poeta lirico […]?» – Marti scorge «un sorprendente autoritratto» dello stesso Leopardi, per cui conclude che «le verità più luminose di Leopardi sono ancora e sempre quelle che s'incarnano nei suoi versi»[102], conclude cioè alle conclusioni del Gioberti e del Gentile. Ma se, estrapolato dal contesto di quel pensiero e preso alla lettera, il passo citato può sembrare ed anche in parte essere una sorta d'autoritratto, resta che Marti estrapola proprio dal pensiero del ‘colpo d'occhio’, il primo qui ricordato, dove inequivocabilmente Leopardi discorre del pensare ‘metafisico’, soprattutto dei e nei ‘filosofi’, nient'affatto del solo poeta lirico; e trascurare questo legame interno anche a quel solo singolo pensiero, per elevarne una piccola parte a totalità leopardiana, peraltro preconcetta, non so quanto possa riuscire appropriato nell'approssimazione.

Ma, tornando all'operetta, il filosofo soltanto quasi, tace del suo pensiero più ‘profondo’, che vuol dire prima di tutto inestinguibile, poiché nella digressione compare la definizione fondamentale e più universale, in Occidente, della ‘cosa in questione’ – talmente ripetuta da esser ritenuta un'ovvietà ormai indiscutibile, e talmente ‘radicata’ da esser fondamentalmente tuttora dominante sull'intera terra, quella occidentalizzata. E la controprova è che Citati nella sua pur estesa e puntuale ricognizione dell'Elogio, semplicemente l'ignora del tutto[103].

La cosa in questione, anche in questa operetta, è, né più né meno, che la questione metafisica onnidecidente: che cos'è l'uomo?

E quel che dal Leopardi è messo in questione è l'essenza dell'uomo nella «interpretazione invalsa fino a oggi (animal rationale)»; è la «lunga abitudine, non solo moderna, di porre l'uomo (in quanto animal rationale) in primo piano in tutto il pensiero occidentale»[104].

Molti esegeti, Luporini, Prete, Severino, Damiani, tra molti altri, e in scia la Santi, hanno colto questo tratto, della critica della ragione, della razionalità, come centrale nell'opera di Leopardi e quello, cui forse spetterebbe la palma di più erudito frammentante, il Damiani, ne scrive: «Lo Zibaldone che pur si sottrae a un giudizio classificatorio, trova la sua più forte ragione d'essere nella critica della civiltà, che stabilisce tra i moderni un uniforme ‘impero della ragione’»[105]. Però, qui, pur non citandolo affatto, forse in omaggio alla sua gran notorietà, Damiani riprende quasi alla lettera un'affermazione di Prete,

«la critica della ragione è un sentiero che si snoda lungo tutto lo Zibaldone, scorrendo sempre in compagnia d'altri cammini che ad esso s'intrecciano, su di esso si sovrappongono, da esso prendono avvio: sicché ogni ricerca tematica sul pensiero di Leopardi s'imbatte, da qualsiasi luogo muova, nella critica della ragione»,

che ha già rilevato come solo «nella critica radicale della ragione colta nel suo costituirsi ‘storico’, può trovare fondamento ed esplicazione la critica della ‘filosofia moderna’, dei suoi modi di conoscenza e delle sue forme di potere»[106]; e da qui il passo sarebbe stato molto breve, per il Prete avvertito anche della critica al platonismo intrapresa dal Leopardi, come per altri – mettere in rapporto la critica radicale della ragione con l'accadere della ‘metafisica’ occidentale e col suo dominio bimillenario, magari sulla scorta delle ricerche di Horkheimer, Adorno, Marcuse, eterodosse quanto dense – «Il mondo tende a diventare materia di amministrazione totale, che assorbe in sé anche gli amministratori. La tela di ragno del dominio è diventata la tela della Ragione stessa…E i modi trascendenti del pensiero appaiono trascendere la stessa Ragione»[107], per non dire della meno riconosciuta ma non meno incisiva, critica pasoliniana della ragion dialettica: «Sono […] talmente metafisico, mitico, talmente mitologico [il tutto detto con un sorriso] da non arrischiarmi a dire che il dato supera il precedente, dialetticamente, lo incorpori, lo assimili. Dico che si giustappongono»[108] – ma da pochissimi è stato fatto, forse poiché la ‘metafisica’ stessa appare più essere un sogno, o come dicono meno elegantemente ma più efficacemente gli scienziati, un'ideologia, che essere una qualsiasi ‘realtà’.

Ma potrebbe insospettire, persino gli scienziati, sulla propria necessità un sogno che variando ritorna insistente a visitarci in veglia per più di due millenni; e di questa ormai più che bimillenaria fantasima Heidegger ha più volte abbozzato il profilo.

«La ‘definizione’ dell'essere umano, che afferma che l'uomo è l'essere vivente che ha il λογός, esprime il tratto che contraddistingue l'uomo, il cui destino è la storia universale dell'umanità caratterizzata in senso occidentale. Conosciamo la definizione greca nelle formulazioni che sono state date successivamente: homo est animal rationale. Il λογός è diventato ratio, e la ratio si è trasformata in ragione»[109].

Come magistralmente anticipa Dante nel Convivio:

«…quando si dice l’uomo vivere, si dee intendere l’uomo usare la ragione, che è sua speziale vita e atto de la sua più nobile parte. E però chi da la ragione si parte, e usa pur la parte sensitiva, non vive uomo, ma vive bestia…»

«E quella anima che...è perfettissima di tutte l'altre, è l'anima umana, la quale con la nobilitade de la potenza ultima, cioè ragione, participa de la divina natura a guisa di sempiterna intelligenzia; per(ci)ò che l'anima è tanto in quella sovrana potenza nobilitata e dinudata da materia, che la divina luce, come in angelo, raggia in quella: e per(ci)ò è l'uomo divino animale da li filosofi chiamato (c. m.)»[110].

E questa chiosa dantesca, e se ne potrebbero accostare altre migliaia simili tratte da altri autori, potrebbe forse far intendere che l'imporsi nella metafisica dell'animal rationale non è vero perché lo dice Heidegger, ma che Heidegger lo dice poiché è ‘vero’ – poiché anche ad un metafisico tedesco, nonostante lo scetticismo leopardiano, non per caso forse il più vago della grecità, potrebbe esser riuscito, una volta, di gettare un colpo d'occhio in grande sull'intera metafisica occidentale; può essere riuscito «...di chiarire un testo sino a quel tempo indecifrabile: il testo stesso della filosofia – dalla sua origine...in Grecia con Eraclito e Parmenide, sino alla sua ultima manifestazione, la filosofia di Nietzsche»[111] – e l'immagine del ‘testo’ può stare se si scorge che la metafisica occidentale non è una sorta di commento all'‘essere’, il quale ‘essere’ accadrebbe altrove dal pensiero; e che ogni volta impone di venire ripensata, riesperita, anche nelle sue ripetizioni, ripensando, riesperendo,  il ‘reale’; quello che in linguaggio del Novecento, si chiama ‘storia’. Così la ripete ripensandola, la ripensa ripetendola, la riesperisce – mondanizzando l'uomo e, per così dire, ominizzando il mondo – Kant:

«L'oggetto più importante nel mondo, a cui l'uomo può applicare tutti i progressi della cultura, è l'uomo stesso, perché l'uomo è il fine ultimo di se stesso. Conoscerlo secondo la sua specie, cioè come essere terrestre dotato di ragione, è ciò che merita in particolare di essere chiamato conoscenza del mondo, anche se l'uomo è solo una parte del creato terrestre»[112].

E non è difficile scorgere come quest'assunto kantiano sia stato, e sia, alla base d'infiniti progetti antropologico-pedagogici, teorici oppure pratici.

E quindi divino e tralucente o menzognero e tracotante dal cominciamento sin quasi al suo terminamento nella metafisica occidentale l'uomo si ripresenta ed agisce come l'animal rationale:

«La caratteristica della facoltà razionale è il pensiero. L'uomo in quanto animal rationale, è l'animale pensante; secondo l'espressione di Rilke egli è l'animale che accerchia cose con le trappole, che si apposta intorno ad esse per catturarle (…) l'uomo che si trova sotto il dominio della metafisica, esprime in questo modo la sua essenza...Nietzsche, l'ultimo pensatore della metafisica, ha fatto sua questa definizione dell'essenza dell'uomo: l'uomo è l'animale intelligente, l'animale che conosce. Un saggio scritto dal ventinovenne Nietzsche a Basilea nel 1873..., inizia con queste parole: “In un angolo remoto dell'universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c'era una volta un astro su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della ‘storia del mondo’: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura la stella si irrigidì e gli animali dovettero morire”»[113].

Quindi, tralasciando forse di notare quanta eco o consonanza di «quegli ancor senz'alcun fin remoti/nodi quasi di stelle/ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo/ e non la terra sol, ma tutte in uno,/ del numero infinite e della mole,/ con l'aureo sole insiem, le nostre stelle/ o sono ignote, o così paion come/ essi alla terra, un punto/ di luce nebulosa»[114] risuoni nel pensiero del giovane Nietzsche, osserva Heidegger: «...dall'inizio della metafisica occidentale fino al suo compimento l'essenza dell'uomo è concepita in base al λογός e il λογός è interpretato come pensiero»[115] – e poiché stiamo, abitiamo, nel compimento della metafisica, mascherato da progresso infinitamente incompiuto, così è tuttora, a terzo millennio cominciato, sotto auspici non dei migliori.

Suppongo quindi, che Leopardi abbia avuto piena, e di rado eguagliata ed eguagliabile, percezione della tradizione metafisica occidentale, e che questa propriamente venga messa in questione, mettendo in questione l'essenza stessa dell'umanità come durata sinora, nell'Elogio degli uccelli.

«...certo fu notabile provvedimento della natura l'assegnare a un medesimo genere di animali il canto e il volo; in guisa che quelli che avevano a ricreare gli altri viventi colla voce, fossero per l'ordinario in luogo alto; donde ella si spandesse all'intorno per maggiore spazio, e pervenisse a maggior numero di uditori. E in guisa che l'aria, la quale si è elemento destinato al suono, fosse popolata di creature vocali e musiche. Veramente molto conforto e diletto ci porge, e non meno, per mio parere, agli altri animali che agli uomini, l'udire il canto degli uccelli. E ciò credo io che nasca principalmente, non dalla soavità de' suoni quanta ella si sia, né dalla loro varietà, né dalla convenienza scambievole; ma da quella significazione di allegrezza che è contenuta per natura, sì nel canto in genere, e sì nel canto degli uccelli in ispecie. Il quale è, come a dire, un riso, che l'uccello fa quando egli si sente star bene e piacevolmente. Onde si potrebbe dire in qualche modo, che gli uccelli partecipano del privilegio che ha l'uomo di ridere: il quale non hanno gli altri animali; e perciò pensarono alcuni che siccome l'uomo è definito per animale intellettivo o razionale, potesse non meno sufficientemente essere definito per animale risibile; parendo loro che il riso non fosse meno proprio e particolare all'uomo, che la ragione (c. m.)»[116].

È bene non adoperarsi ad attenuare o sminuire lo sconcertante di questa tesi leopardiana, nella finzione per giunta attribuita a non meglio precisati ‘alcuni’, pensatori. Tra i quali come ci avvertiva il dotto Ildebrando Della Giovanna nel suo commento alle prose leopardiane, si può contare Dante, che nella Vita Nova scrisse: «Dico anche di lui [cf. amore] che ridea, e anche che parlava; le quali cose paiono essere proprie de l'uomo, e spezialmente essere risibile...»[117]; e senza far torto al Della Giovanna, forse si possono ricordare anche i capitoli 8 e 15 del Terzo Trattato del Convivio, dedicati ai ‘balconi’ dell’anima, gli occhi e la bocca, dai quali promana «piacere altissimo di beatitudine»[118].

Ma nonostante così alti precedenti, il vigore della tesi lo riconosciamo nell'immediata sua irriducibilità ai criteri del senso comune, ma anche alle più radicate e diffuse concezioni correnti. E questo è un punto ben intravisto più che da altri moltissimi critici, proprio dal De Sanctis: «ci è nel pensiero leopardiano qualche cosa di così alieno da ogni opinione e di dotti e d'indotti, che dovea parere a molti una stravaganza...»[119].

Come possiamo realmente pensare, e credere, che ragione e riso siano del pari – del pari – essenziali nell'uomo? Che il riso possa costituire lo spirito dell'uomo al pari della ragione? Non dobbiamo nasconderci la difficoltà che comporta realmente tentare di ripensare questa tesi di Leopardi come una tesi essenziale, senza ricorrere alla scappatoia di ritenerla l'opinione di un ‘filosofo’, astratto dalla ‘realtà’, e in questo caso poi nemmeno riconosciuto come tale. E che sia una tesi essenziale ne è spia l'elegante parafrasi del leibniziano nihil est sine ratione; niente è e può essere senza ragione sufficiente: «potesse non meno sufficientemente essere definito...».

Di fronte alla tradizione più che bimillenaria, ed alle sue immense opere, non le sole opere filosofiche e metafisiche, che vede e vuole l'uomo costituito, principalmente e per così dire, principialmente dalla ragione, la tesi leopardiana appare semplicemente inaccettabile, ed anche, tutto sommato, si sarebbe tentati di dire, a sua volta, risibile: atta a far ridere la tesi, più che atto a ridere, essenzialmente l'uomo.

Ma è proprio tenendo ferma agli occhi la vastità storica della determinazione uomo=animale razionale che intravvediamo il colpo d'occhio leopardiano e abbiamo presentimento del vigore d'un pensiero che dice: essenza umana=riso.

Tratteniamo questo pensiero presso di noi nella sua apparente levità, tratteniamo noi stessi, il nostro ‘se stesso come se stesso’ presso questo pensiero – ricordiamo – lasciandolo agire senza ricondurlo ad una qualche spiegazione psicologica sulla ‘natura umana’, senza contrapporlo dialetticamente, alla ‘ragione’, al ‘razionale’ – quasi fosse una delle infinite ‘creazioni’ concettuali confezionate nell'Atelier Novecento, riempiendo armadi borghesi d'inconsci a la page da sfoggiare per ogni ‘occasione di società’, e gli armadi dei contestatori del ‘sistema’ d'esotici Irrazionali da sfoggiare tra ‘amici di setta’.

Potrebbe allora persino, in un'ora favorevole, sciogliersi in noi la ferrea presa della ‘ragione’ e della congemine volontà...

Ma in questo non c'è nulla di meramente soggettivo, nonostante le nette apparenze del contrario.

Quale dislocamento opera qui Leopardi?

Per poter saggiarne la portata dobbiamo avere agli occhi che la ‘metafisica’ non è qualcosa, una causalità o una casualità, che colpisca l'uomo dall'esterno – l'improvvisa caduta di un masso che blocchi una strada – come non è propriamente qualcosa che accade solo nell'uomo, dentro l'uomo, nella ‘nostra’ interiorità – è piuttosto l'uomo che accade nella metafisica e come metafisica:

«Se chiamiamo sensibile tutto ciò che è animale e comprendiamo la ragione come ciò che è non sensibile e soprasensibile, l'uomo, l'animale razionale, ci apparirà come l'essenza sensibile-soprasensibile. Se chiamiamo fisico, in base alla tradizione tutto ciò che è sensibile, la ragione, il soprasensibile si mostrerà come ciò che sta oltre il sensibile, oltre il fisico; oltre si dice in greco μέτα; μέτα τα φυσιχά, oltre il fisico; il sensibile nel suo andar oltre il fisico è metafisico. L'uomo è, finché viene rappresentato come animale razionale, il fisico nell'oltrepassamento del fisico. Detto in breve: nell'essenza dell'uomo come animale razionale si raccoglie il passaggio dal fisico al non-fisico e all'oltre-fisico: l'uomo è così il metafisico stesso» (c. m.)[120].

Se abbiamo negli occhi questi semplicissimi ma determinanti rapporti – se ci avvediamo della imponenza metafisica dominante nella più ovvia delle ovvietà, quale quella ci vuole animali più o meno ragionanti – possiamo riudire l'urto silenzioso del colpo d'occhio leopardiano – che con impareggiabile delicatezza sottrae l'uomo, nell'essenza, nel ‘se stesso come se stesso’, alla presa metafisica: l'animale risibile non è più in sé scisso, in fisico ed oltre-fisico, non è più teso verso l'oltre-fisico, non è più dilacerato in sé, nella sua stessa ‘fisica’ - ma vive della e nella (sua stessa) ‘fisica’; e può così affrancarsi dal più che bimillenario aggiogamento metafisico – senza venir per questo ‘ridotto’ al mero sensibile – a mera materia – che tale appare solo nel passaggio al meta-fisico, guardato a partire dalla ratio trascendente.

L'animale risibile inscisso in sé partecipa della ‘natura’ come inscissa parte d'essa – quali sono appunto – gli uccelli: l'elogio degli uccelli è l'elogio d'esser'inscissi. Viventi di una libertà, vitali di una vitalità, per ‘noi’ pressoché inconcepibile e quasi inimmaginabile, salvo che da bambini, come scrive lo stesso Amelio.

Ed è per questa via, inoltre, che appare la digressione essere il centro dell'intera operetta – nella quale è pensata una libertà dalla metafisica che non si rovescia, come in Nietzsche in un'ultra-fisica – che non mira a trasformare, apparentemente affrancandolo dalla, in realtà irretendolo definitivamente nella scissione tra fisico e oltre-fisico, l'uomo, l'animale razionale nell'animale, per così dire, super-fisico; infatti: «Tutte le ‘rivoluzioni’ (sovvertimenti) non sono mai abbastanza ‘rivoluzionarie’ – esse non portano mai a un inizio, ma lo rinnegano giacché esse sono sempre caratterizzate dal capovolgere soltanto, e nel far questo si fanno però irretire incondizionatamente in ciò che le aveva precedute, disconoscendo e dimenticando poi questo loro irretimento»[121]. È stato spesso ascritto a debolezza leopardiana, il non essersi, come Nietzsche, contrapposto frontalmente al cattolicismo; ma proprio questo è il tratto certo della sua forza e appropriatezza di pensatore, poiché egli è in grado di ricomprendere in un pensiero più originante, lo stesso pensiero da cui si distacca; ed allo stesso modo nell’Elogio, apparentemente la ragione come fondamento dell’uomo non viene negata; soltanto, Amelio scrive, ‘alcuni’ hanno pensato che non meno proprio ed unico nell’uomo ed atto a determinarlo essenzialmente sia il riso: è il puro approssimamento di queste due possibilità che libera dalla morsa univoca della ratio metafisica, riconducendo la ratio stessa a misura ‘naturale’; indicando insieme un mondo ‘naturalmente’ inscisso del quale gli esseri risibili partecipano e sono parti innesse. Per misurare la difficoltà, oltre che la portata, di tali questioni si potranno anche un giorno comparare l’animale leopardiano e quello rilkiano; questo irretito metafisicamente nell’Aperto; quello spensieratamente ametafisico[122].

Ma tale è la fermezza leopardiana, e quindi la sua immisurabile delicatezza, ch’egli si guarda bene dal sigillare quella possibile liberazione con una qualche statuizione, e nel finale anzi quasi irride al suo stesso pensiero accostandolo alle smanie dell’innamorato anacreonteo che vorrebbe farsi cosa per poter stare addosso alla sua amata: così sigillando invece l’allontanamento dai «presenti sistemi, sempre diretti a rendere impossibile il contrario, se il sistema appartiene alla pratica, e a dimostrare impossibile il contrario, se il sistema appartiene alla speculativa [584]». E quest’ultima avvertenza parrebbe feconda anche nel tentare d’approssimare il pensare heideggeriano tutto, nel suo disapprossimarsi dai ‘presenti sistemi’.

Il primo compito di una lettura, anche nell'intreccio e confronto con altri scritti, è quello di far percepire come, giusta una preziosa indicazione adorniana, ogni parte della composizione sia prossima al ‘centro’; anche le più apparentemente neutre, persino un solo articolo, in uno scritto, può essere dirimente. Avendo agli occhi, come centro dell'operetta la liberazione non meramente oppositiva dall'animal rationale che siamo, diventa possibile avvertire ed avvedersi che anche il nome del ‘filosofo’ che si finge scriva l'operetta, Amelio, lo ‘spensierato’, ha corrispondenza necessaria al ‘centro’ della stessa. Rileggendo la tanto nota quanto controversa opera di Max Weber dedicata al primo configurarsi dell'immenso cosmo dell'ordinamento dell'economia capitalistica, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, possiamo apprendere come ‘l'ascesi cristiana’ avesse «già dominato ecclesiasticamente sul mondo...proprio in quanto rinunciava al mondo» mentre con l'ascesi protestante intramondana, presupposto ‘spirituale’ dell'animo e dell’etica del capitalista, l’ascesi «veniva sul mercato della vita...e imprendeva a pervadere proprio la vita quotidiana mondana della sua metodicità, a trasformarla in un'esistenza razionale nel mondo eppure non di questo mondo o per questo mondo»; ed apprendiamo tra molto altro che «l'ascesi combatte con autentica violenza soprattutto una cosa: il godimento spensierato dell'esistenza e dei piaceri che può offrire»[123]. Ed è notabile, qui, che tutti i corsivi sono di Weber.

Se assumiamo come probante la tesi di Weber sull'origine della mentalità e del comportamento capitalistici dall'etica puritana – per la quale «solo una vita guidata da una riflessione costante poteva essere considerata come superamento dello ‘status naturalis’» e quindi «il cogito ergo sum di Descartes» era stato adottato dai puritani in una ‘reinterpretazione etica’ che riprendeva e potenziava la tendenza, già presente nel Medioevo e nei Gesuiti, a diventare «un metodo sistematicamente sviluppato di vita razionale, con lo scopo di superare lo status naturalis, di sottrarre l'uomo al potere degli impulsi irrazionali e alla dipendenza dal mondo e dalla natura»[124], vediamo come nel mondo di Amelio, dello spensierato, non vi sia luogo per l'affermarsi dell'ascesi, affrancandosi dai vincoli naturali, come priorità comportamentale, ma nemmeno per la vita quotidiana sviluppantesi nell’economia capitalistica come ‘cosmo’ divenuto primario nel ‘disincantamento del mondo’; mentre in questo si è dovuto, peraltro, industrializzare la spensieratezza, come industria sentimentale, non potendosi forse ancora totalmente eradicare dall'uomo la ‘natura’, né da questa, quello.

Il ridimensionamento della ratio è, quindi, la liberazione dal suo predominio da dentro il ‘se stesso come se stesso’ in un mutato, e non solo recuperato, rapporto con la ‘natura’ tutta; non ne è la mera negazione, né l'asservimento alla voluntas.

Se ripercorriamo le centinaia e centinaia di pagine nelle quali Heidegger tenta di svincolare il Dasein – che non è il cosiddetto ‘Esserci’[125] - dall'animal rationale, si accresce lo sgomento per la suprema fermezza del colpo d'occhio leopardiano e si fa netto come, per l'uno e per l'altro, diversamente nel pensare il medesimo, sia divenuto necessario venire a capo dei limiti della ratio, e non rifugiarsi in un qualche sentimentalismo irrazionale: «che cosa non può la ragione umana nella speculazione? Non penetra ella fino all'essenza delle cose che esistono, ed anche di se medesima? Non ascende fino al trono di Dio, e non giunge ad analizzare fino ad un certo segno la natura del sommo Essere? [2941-2942]». O come al culmine della Monadologia affermava «forse il più grande dei metafisici tedeschi», Leibnitz «la conoscenza delle verità necessarie ed eterne è quella che ci distingue dagli altri animali e ci dà la ragione e le scienze, coll'elevarci alla conoscenza di noi stessi e di Dio» ed in ciò «consiste quel che in noi si chiama anima ragionevole»[126].

Profondamente in colloquio con la metafisica leibniziana – quella a fondamento dell'intera epoca moderna – la critica leopardiana della ragione è una critica ‘metafisica’ - qual è in Heidegger – e non la critica d'una delle sue forme storiche, quella dell'Illuminismo francese, o di certe correnti del Romanticismo, come vorrebbe Luporini, ed in scia Prete, ed in modo ancora diverso vorrebbero Damiani e la Santi; e rispetto a quest’intero ambito immenso ambito di questioni poetico-speculative suppongo che siano appropriate le parole di uno tra gli accurati studiosi del Leopardi, quali il ricordato Gatti, Rensi, Tilgher, Amelotti, forse troppo trascurati nelle ricerche successive, il Graf, che da ‘positivista’ dà un’ottima, non soggettivistica determinazione di ‘genio’ come: «…colui che addimostra una straordinaria potenza interiore, operando cose che non erano preparate, o erano solo scarsamente preparate dal precedente lavoro delle generazioni; che corona il faticoso e lento edifizio della tradizione e lo abbatte; che in far ciò dà a divedere un massimo di autonomia e un minimo di dipendenza; che si trascina dietro un numero grande di spiriti comuni, i quali lo acclamano maestro e rivelatore, e che riesce a far da solo, per intrinseca e necessaria virtù di natura, ciò che i molti e gl’infiniti insieme non potrebbero fare…»[127].

E la critica ‘metafisica’ della ragione, della ragione in quanto metafisica, è compito che andrà ancora lungamente riassolto da pensatori venturi, che modi e vie dell'interrogare potranno attingere dalle opere di Leopardi, in versi ed in prosa; anche ponendo nuovamente la questione posta con tutto il suo vigore da Heidegger incessantemente: che ne è del λογός quando non sia più assimilato alla ratio?

E le sue ricerche, come quelle del Leopardi possono approssimare le questioni metafisiche poiché si muovono nella dimensione a noi più prossima, così prossima che ce le fa apparire remote: il ‘se stesso come se stesso’. E per tanto la liberazione dalla metafisica non può sovvenire senza una trasformazione del proprio ‘se stesso come se stesso’; del proprio pensare; del pensare più proprio; ma in rapporto alla ‘natura’ tutta.

E se persino Leopardi pensa ancora in griglie metafisiche, pensando l'uomo dotabile di facoltà, e la ratio come una di queste in quanto secondo: «... la rappresentazione della metafisica, l'uomo è anzitutto in quanto un ‘essere’ fra gli altri, dotato di certe facoltà. [e] quest'essenza così costituita, la sua natura, il che cosa e il come del suo essere, è in se stessa metafisica … [e così] rinchiuso entro la sfera metafisica, l'uomo rimane legato alla non esperita distinzione di essente ed ‘essere’ [ed] il modo umano di rappresentarsi le cose, improntato dalla metafisica, trova dovunque solo il mondo costruito metafisicamente [e che] la metafisica appartiene alla natura dell'uomo» - queste griglie non impediscono al titano ‘metafisico’ Leopardi di porre in questione esattamente questi ultimi assunti metafisici, che la metafisica appartenga alla natura dell'uomo e che il ‘mondo’ sia costruito metafisicamente, insieme all'interrogare se esistano nell'uomo facoltà, incessantemente ponendo le domande con cui Heidegger prosegue: «Ma che cos'è la natura stessa? Che cos'è la metafisica stessa? Che è all'interno di questa metafisica naturale, l'uomo stesso?»[128].

E nel movimento di questo domandare va scorta la tanto essenziale quanto fraintesa questione del “materialismo” leopardiano: la messa in questione leopardiana dello ‘spirito’ e della ‘materia’, che ha tuttora una portata ‘metafisica’ dirimente, ed uno dei cui culmini, stavolta nello Zibaldone è la tesi principiale: «I limiti della materia sono i limiti delle umane idee [3441]» (c. m.). Alla quale corrisponde nelle Operette, l'altra tesi principiale, dall'apparenza molto nietzscheana, o senza dubbio molto materialista: «il corpo è l'uomo»[129].

Ed in rapporto alle questioni toccate sinora, che esigono ben più articolate trattazioni, e se questo scritto ne facesse avvertire la necessità il suo compito sarebbe assolto, rileggiamo dallo Zibaldone un pensiero, non l’unico, nel quale nettamente Leopardi s'interroga sugli ambiti metafisici originari, anche se proprio Heidegger su questo forse non è stato dello stesso avviso, avendo affermato: «Ciò che sta tra Hegel e Nietzsche si presenta in varie forme, ma in nessun caso in modo originario sul piano metafisico...»[130].

‘...sul piano metafisico’ - si rende necessaria prima delle ultime battute di questo ormai troppo lungo discorso una delucidazione sull'uso e sui rimandi d'una parola ricorsa fin troppe volte sinora, come aggettivo, come sostantivo, come avverbio: metafisico e metafisica.

Al lettore non disaccorto non sarà sfuggita la difficoltà, e la quasi palese contraddizione nell'aver sostenuto che Leopardi è innanzitutto un ‘metafisico’, e non un ‘moralista’, mentre poi si sostiene che la grandezza del suo pensiero sta nel liberarci dal giogo della metafisica stessa. Come si ‘spiegano’ e conciliano accezioni opposte della stessa parola? Poiché è la parola stessa a parlare polivocamente.

‘Metafisico’ nella prima accezione indica, com'è stato accennato, l'ambito delle questioni ‘ultime’ e più ampie e centrali – o per riprendere una felice, ancorché tutta ‘metafisica’, espressione del Russo, il metafisico «attinge le Idee Madri della storia e dell'universo» – ed il Croce, non è filosofo tale, afferma nello stesso passo il Russo, e la sua filosofia «si limita a essere una geniale descrittiva degli aspetti più formali della vita di questo mondo»[131] – e forse potremmo vedere in questa differenza e distanza la concreta motivazione della totale preclusione del Croce al pensiero del Leopardi, che è filosofo, contro ciò che pensava anche il Russo, delle ‘Idee Madri’.

Ma tornando alla metafisica, Heidegger, com'è arcinoto e come ho più volte già accennato, con questa parola ‘definisce’ il corso fondamentale, e fondamentalmente nichilistico, del pensiero occidentale, della ragione occidentale, un aspetto del quale abbiamo forse intravvisto in queste pagine: della stessa ‘storia’ d'Occidente, da Platone a Marx e Nietzsche inclusi: «La metafisica è in quanto metafisica il nichilismo autentico. L’essenza del nichilismo è storicamente la metafisica; la metafisica di Platone non è meno nichilistica della metafisica di Nietzsche»[132]. E non solo quando guardiamo alla così detta storia dell’essere, dobbiamo badare all’ossimorico congiungersi di quel che, per definizione metafisica, non avrebbe tempo, sarebbe l’oltretemporale, e quindi non avrebbe storia, l’‘essere’ stesso allo storico, al temporale, al transeunte; ma badando alle determinazioni via via approfondentesi di Heidegger, dovremmo arrivare ad avere agli occhi che la ‘storia dell’essere’ sarebbe propriamente l’essere della storia, quel che nella ‘storia’ è determinante in quanto la determina; e ci determina in quanto ‘esseri storici’, in quanto esseri determinati come rapporto alla ‘natura tutta’; quindi in alcun caso mai soltanto qualcosa di ‘storiografico’, o di ‘storico’ inteso come susseguirsi lineare e cronologico di avvenimenti o fatti, causalmente o casualmente concatenati.

Ed ha Heidegger riassunto, ri-assunto, quello che è determinante, e che avendo presenti queste differenze e implicazioni potremmo forse non fraintendere del tutto, nel 1949: «Per l'uomo dell'avvenire incombe il confronto con l'essenza e con la ‘storia’ della metafisica occidentale»[133].

Nell’approssimarsi a questa ‘storia’ il ‘metafisico’ Leopardi non appare quasi più un pensatore della metafisica, pur ancor ricorrendo al linguaggio della metafisica, e pur forse essendosi consapevolmente determinato per una delle varianti della metafisica, quella ‘materialista’ (in ogni caso non riconducibile però a quelle ‘sensista’ o ‘dialettica’ o ‘storica’); o forse, malgrado queste limitazioni non lo è più affatto – poiché s'è liberato dalla ‘metafisica’ e dalla ‘filosofia’, e dalla sua pretesa al compiuto e perfetto ‘sistema della pura ragione’, lavorando ad approssimare il, per così dire, ‘sistema’ della impura ‘natura’.

Ed in questa duplicità essenziale del suo pensiero va visto anche forse il reale motivo del fraintendimento di cui il pensiero pensante di Leopardi è stato fatto oggetto; poiché la sua ‘oltrafilosofia’ non è più una filosofia della ratio, il suo ‘sistema’ non appare più come stessità dell'ordine delle idee (razionali) e delle cose in quanto semplicemente essenti, al modo dei sistemi dei metafisici tedeschi e non solo tedeschi[134]; e chi lo abbia studiato, come il Gentile, aspettandosi di trovarvi qualche variante di quei sistemi, è giocoforza non ve l'abbia trovata ed abbia perciò concluso alla disunitarietà e disorganicità del pensiero leopardiano; che non può non apparire tale se guardata da prospettive inappropriate, disapprossimandosi. E che l'oltrafilosofia, sempre citata, non sia più filosofia della ratio lo vedono in molti, anche in certa misura proprio Gentile, ma poi forse nessuno la ripensa, poiché nessuno sembra interrogare la congiunzione che tutta la regge: perché l'ultrafilosofia «ci ravvicini alla natura» è necessario conosca simultaneamente «l'intiero E l'intimo delle cose [115]»: ma come si congiungono nella ‘natura’, intimità ed interezza, delle cose?

L'irriducibile essere polivoco della parola, delle parole, che è il segno della loro essenziale ‘storicità’ o destinalità o fatalità o generatività[135] è uno degli elementi più propri del pensiero, nel linguaggio: le parole del e nel pensiero non sono, né potranno mai essere univoche come i ‘termini’ delle scienze.

Non lo è persino la stessa parola ‘pensiero’, poiché qui si è preteso approssimare il pensiero pensante del Leopardi, ma non potrebbe essere questa una forzatura, dal momento che è Leopardi stesso ad affermare che sapientissimi sono i non pensanti? Non avremmo dovuto forse allora definirlo più che grande pensatore, grande spensieratore? Ma della stessa ambiguità della parola metafisica è pervasa la parola ‘pensiero’, che indica insieme la ragione, il pensiero come sinora stato per più di due millenni «…la posizione fondamentale che guida la metafisica occidentale, enticità e pensiero, ovvero il ‘pensiero’ – ratio – la ragione come filo conduttore»[136]; ed il pensiero come possibilità del ‘pensare’ del tutto altrimenti, come «pensare assenziente»[137]; e piuttosto che rifiutare quest'ambiguità noi siamo chiamati e tenuti a muoverci in essa e attraverso essa con sempre maggiore nettezza.

Poiché che le parole siano polivoche ed ambigue, ciò non comporta che siano ‘arbitrarie’: se per indicare la sfera più alta, quella decisiva, e la più profonda, quella inestinguibile, del pensiero occidentale, da lungo tempo è invalso l'aggettivo ‘metafisico’, in rapporto e solo in rapporto a quella sfera il pensiero del Leopardi ‘metafisico’ potrebbe essere allora stata una delle prime scosse al più che bimillenario dominio della ‘metafisica’ come scissione tra sensibile e oltre-sensibile:

«...per dire il materiale e lo spirituale, o il sensibile e l'intellettuale, i francesi dicono il fisico e il morale. (le physique et le moral, le physique et le moral de l'homme, le monde physique et le [3748] monde moral etc.). Qual cosa più impropria di queste significazioni, o che si considerino in se stesse o nella loro scambievole opposizione e in rispetto l'una all'altra? Fisico propriamente significa forse materiale o sensibile? E il fisico, che vuol dir naturale, è forse l'opposto dello spirituale o intelligibile? Quasi che questo ancora non fosse naturale, ma fuori della natura, e vi potesse pur esser cosa non naturale e fuori della natura, che tutto abbraccia e comprende, secondo il valor di questa parola e di questa idea, e che si compone di tutto ch'esiste o può esistere, o può immaginarsi ec.».

Verità del giorno 21 ottobre 1823.

 

 

Salento, Gennaio-Aprile 2015

Luca Carbone

 

 

 


[1] Francesco De Sanctis, Leopardi, a cura di Walter Binni, Bari, Laterza,1953, nota 21, p. 336.

[2] Giovanni Mestica, Il Leopardi davanti alla critica, in Studi Leopardiani, Successori Le Monnier, Firenze, 1901, p. 428

[3] Ivi, pp. 401-424.

[4] Tra altre edizioni: Pietro Giordani, Proemio al terzo volume delle Opere di Giacomo Leopardi che è degli studi filologici di sua adolescenza, 1845, in Scritti editi e postumi, a cura di Antonio Gussalli, Francesco Sanvito, Milano,1857, pp. 123-138.

[5] Giovanni Gentile, Le operette morali, in Manzoni e Leopardi, Firenze, Sansoni, 1960, p. 119.

[6] Luca Carbone, Accorgimenti per la Comparazione delle sentenze di Bruto e di Teofrasto vicini a morte di Leopardi, Lettura 69 del Febbraio 2014, www.eudia.org.

[7] Giulia Santi, Sul materialismo leopardiano. Tra pensiero poetante e poetare pensante, Milano–Udine, Mimesis, 2011 p. 87.

[8] Luigi Russo, La carriera poetica di Giacomo Leopardi, in Ritratti e disegni storici. Dall’Alfieri al Leopardi (Serie prima), Bari, Laterza, 1946, pp. 210-332.

[9] Giuseppe Ungaretti, Il pensiero di Leopardi, in Vita d’un uomo. Saggi e Interventi, Milano, Mondadori, 1997 (VI edizione), p. 341.

[10] Giovanni Mestica, Studi leopardiani, cit. p. 403. Mestica cita uno scritto del 1833 del De Sinner.

[11] Cesare Luporini, Leopardi progressivo, (I edizione in Filosofi vecchi e nuovi, Sansoni, Firenze, 1947), Roma, Editori Riuniti, 1980, nota 20, p. 41 e p. 68; per la parziale ritrattazione, Avvertenza, p. IX.

[12] Walter Binni, La nuova poetica leopardiana, Sansoni, Firenze, 1947, p. 103 e p. 126.

[13] Giacomo Leopardi, Opere di Giacomo Leopardi Edizione accresciuta e corretta secondo l’ultimo intendimento dell’autore, A cura di Antonio Ranieri, Firenze, Le Monnier, 1845, vol. II.

[14] Pasquale Gatti, L’unità del pensiero leopardiano. Saggio critico-polemico, Giannini, Napoli, 1921, p. 22. Gentile, La filosofia del leopardi, in Manzoni e Leopardi, cit. pp. 31-44.

[15] Ivi, p. 277

[16] Theodor W. Adorno, Skoteinos ovvero come si debba leggere, in Tre studi su Hegel, Bologna, il Mulino, 1971, p. 135.

[17] Mestica, Studi Leopardani, cit. pp. 435-436.

[18] Giulia Santi, Sul materialismo leopardiano, cit., p. 54.

[19] Cesare Luporini, Leopardi progressivo, cit. p. 9.

[20] Ivi, p. 4, e nota 1.

[21] Lettera a Giampietro Vieusseux del 4 marzo 1826; Giacomo Leopardi, Epistolario, in Tutte le opere, a cura di Walter Binni ed Enrico Ghidetti, volume primo, Milano, Fabbri 1993 (ristampa anastatica dell’edizione Sansoni), p. 1242.

[22] Giacomo Leopardi, Zibaldone, Roma, Newton & Compton, 1997. Le citazioni dallo Zibaldone sono tutte rintracciabili attraverso il numero di pagina apposto da Leopardi, ed incluso nella citazione, o in coda alla stessa.

[23] M. Heidegger, La provenienza dell’arte e l’intonatura del pensiero, Lettura 40, Anno 5, 2011, www.eudia.org, p. 13.

[24] M. Heidegger, Chi è lo Zarathustra di Nietzsche, in Che cosa significa pensare?, Milano, Sugarco, 1971, p. 138.

[25] Giacomo Leopardi, Studi filologici, a cura di pietro Pellegrini e Pietro Giordani, Firenze, Le Monnier, 1853.

[26] Sebastiano Timpanaro, La filologia di Giacomo Leopardi, Roma-Bari, Laterza, 1997, III edizione riveduta con Addenda, pp. 184-185 per lo studio del Moroncini.

[27] Ivi, pp. 131-139.

[28] Antonio Ranieri, Notizia intorno agli scritti, alla vita ed ai costumi di Giacomo Leopardi, in Opere di Giacomo leopardi, cit., vol. I, pp. XII-XIII.

[29] Luigi Russo, La carriera poetica di Giacomo Leopardi, cit. pp. 217-229.

[30] Benedetto Croce, Leopardi, «La Critica. Rivista di Letteratura, Storia e Filosofia diretta da B. Croce», 20, 1922, 2007 per l'edizione digitale: CSI Biblioteca di Filosofia. Università di Roma "La Sapienza" - Fondazione ‘Biblioteca. Benedetto Croce’, pp. 193-204.

[31] Giuseppe De Robertis, Saggio sul Leopardi, Vallecchi, Firenze, 1946, pp. 14-22.

[32] Giuli Santi, sul materialismo leopardiano, cit. pp. 30-36.

[33] Giovanni Gentile, La poesia del Leopardi, in Manzoni e Leopardi, cit., specialmente pp. 183-189; ed ancora ivi: Poesia e filosofia del Leopardi, pp. 229-230.

[34] Luigi Russo, La carriera poetica di Giacomo Leopardi, cit., p. 317: «Il Leopardi non è tutto poeta degli idilli…».

[35] Luigi Russo, La critica letteraria contemporanea, Dal Gentile agli ultimi romantici, volume secondo, Bari, Laterza, 1942, p, 137.

[36] Francesco De Sanctis, La prima canzone di Giacomo Leopardi, in Nuovi saggi critici, Napoli, Morano, 1890, p. 109.

[37] Luigi Russo, Francesco De Sanctis e la cultura napoletana (1860-1885), Laterza, Bari, 1943.

[38] Ivi, p. 312, ma tutto il confronto pagine 306-314: i libri del De Sanctis li scagliava Carducci, giù dalla cattedra.

[39] Confronta Introduzione e note di Francesco De Sanctis, Giacomo Leopardi, cit. pp.VII-XLVII con Introduzione, Leopardi poeta delle generose illusioni e della eroica persuasione, pp.XI-CXX: per le Operette in particolare p. LXXV-LXXVI e nota 1.

[40] Emilio Bigi, Il leopardi traduttore dei classici (1814-1817), in La genesi del “canto notturno” ed altri studi sul Leopardi, Palermo, Manfredi, 1967, p. 13.

[41] Sebastiano Timpanaro, Introduzione, in Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi, 1965, pp. 25-32.

[42] Giovanni Mestica, Il Leopardi davanti alla critica, cit., pp. 438-439.

[43] Francesco De Sanctis, Appendice, in Giacomo Leopardi, cit. p. 368-369.

[44] Mario Marti, La fortuna di Leopardi nella critica desanctisiana, in Dal Certo al Vero. Studi di filologia e di storia, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1962, p. 299.

[45] Ivi, e pag. 294.

[46] Sebastiano Timpanaro, Le idee di Pietro Giordani, in Classicismo e illuminismo etc., cit., pp. 41-117.

[47] Ivi, p. 115.

[48] Ivi, p. 105.

[49] Michele Saponaro, Leopardi, Milano, Garzanti, 1944 (21º migliaio), p. 92.

[50] Pietro Giordani, Proemio al terzo volume delle Opere di Giacomo Leopardi etc., cit. pp. 125-129, e p. 137.

[51] Emanuele Severino, Il Nulla e la Poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, Rizzoli, 1990.

[52] Luigi Russo, La critica letteraria contemporanea, cit., p. 230

[53] Theodor W. Adorno, Teoria Estetica, Torino, Einaudi, 1977, p. 221.

[54] Ivi, p. 129-130.

[55] Ivi, p. 146.

[56] Vincenzo Gioberti, Pensieri e giudizi sulla letteratura italiana, a cura di Filippo Ugolini, Firenze, Barbera, 1887, ottava edizione, pp. 335-337.

[57] Giacomo Leopardi, Dissertazione sopra l’esistenza di un ente supremo, in Tutte le poesie e tutte le prose, a cura di Lucio Felici ed Emmanuele Trevi, Roma, Newton & Compton, 1997, p. 680-681.

[58] Gino Zaccaria, Pensare il nulla Leopardi, Heidegger, Como, Ibis, 2011, III edizione, pp. 21-70.

[59] Giulia Santi, Sul materialismo leopardiano, cit. pp. 73-87.

[60] Sebastiano Timpanaro, Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, in Classicismo e romanticismo etc., cit., p. 140 e nota 17; pp. 148-149; per il titanismo alfieriano.

[61] Luigi Russo, La carriera poetica di Giacomo Leopardi, cit., p. 293 e p. 305.

[62] Benedetto Croce, Leopardi, cit., p. 199; Giovanni Pascoli, Giacomo Leopardi, in La vita italiana durante la Rivoluzione Francese e l’Impero, Milano, Fratelli Treves, 1897, p. 467

[63] Cesare Galimberti, Leopardi: meditazione e canto, in Giacomo Leopardi, Poesie e prose, a cura di Mario Andrea Rigoni, Milano, Mondadori, 1998 (VII edizione), p. LXII.

[64] Giulia Santi, Sul materialismo leopardiano, cit., p. 79.

[65] M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano, 1994, pp. 48-76, per una primissima approssimazione alla questione.

[66] Giovanni Gentile, La filosofia del Leopardi, in Manzoni e Leopardi, cit., p. 33; e per, forse, la prima critica al Gentile: P. Gatti, L’unità del pensiero leopardiano, cit. pp. 10-14.

[67] Vincenzo Gioberti, Pensieri e giudizi sulla letteratura italiana, cit., p. 363.

[68] Ivi, pp. 231-239.

[69] Benedetto Croce, Leopardi, cit, p. 196.

[70] Giovanni Gentile, La filosofia del Leopardi, ivi.

[71] Carlo Emilio Gadda, Il dolce riaversi della luce (Il tempo e le opere), in Il tempo e le opere, Milano, Adelphi, 1982, p. 15.

[72] Rispettivamente: G. De Robertis, Saggio sul Leopardi, cit., pp. 64-65; Walter Binni, Introduzione, cit. p. XLIV e nota 1; Emanuele Severino, Cosa arcana e stupenda. Leopardi e l’Occidente, Milano, Rizzoli, 1997, pp. 486-487.

[73] Emanuele Severino, Cosa arcana e stupenda. Leopardi e l’Occidente, cit., loc. cit.

[74] Giuseppe De Robertis, Saggio sul Leopardi, cit., pp. 89-91.

[75] Mario Marti, Leopardi: il ‘momento’ di Arimane, in Ripensare Leopardi, a cura di Michele Dell’Aquila, Fasano, Schena Editore, 1999, p. 140.

[76] M. Heidegger, Il principio di ragione, Milano, Adelphi, 1991, p. 200.

[77] Rispettivamente i tre passi si trovano in: Giacomo Leopardi, Epistolario, cit., lettera 453 del 31 maggio 1826, pp. 1254-1255; lettera 445 del 26 aprile 1826, pp. 1251-1252; lettera 424 del 12 marzo 1826, p. 1244.

[78] Mario Marti, Leopardi: il ‘momento’ di Arimane, cit., p. 140.

[79] Giuseppe Sergi, Leopardi al lume della scienza, Milano-Palermo, Sandron, 1899; p. 7, ma pp. 3-14; e pp. 62-89.

[80] Theodor W. Adorno, Teoria Estetica, cit., p. 408.

[81] Pietro Giordani, Proemio al terzo volume delle opere di Giacomo Leopardi etc., cit., p. 132.

[82] Giacomo Leopardi, Tutte le poesie e tutte le prose, cit., pp. 610-611.

[83] Ivi, p. 611.

[84] Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, a cura di Angelo Fregnani, Cesena, AQF, 2009.

[85] Sebastiano Timpanaro, Classicismo e romanticismo etc., cit., p. 117. Unica citazione riservata da Timpanaro al Ranieri, qualificato appunto come “uomo di…desolante mediocrità intellettuale”.

[86] Giacomo Leopardi, Epistolario, cit., lettera 923, 11 dicembre 1936, p. 1414.

[87] Roland Barthes, Roland Barthes par Roland Barthes, Paris, Edition du Seuil, 1975, pp. 174-175 (trad. mia).

[88] Theodor W. Adorno, Il concetto di filosofia, a cura di Christoph Godde, Roma, manifestolibri, 1999, pp. 138-139.

[89] Giulia Santi, Sul materialismo leopardiano, cit., p. 87.

[90] Cesare Luporini, Leopardi progressivo, cit., pp. 68-77.

[91] Ricordato in M. Heidegger, La questione della cosa. La dottrina kantiana dei principi trascendentali, Napoli, Guida, 1989, p. 74.

[92] M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, cit., p. 90 e p. 132.

[93] M. Heidegger, La questione della cosa etc., cit., ivi.

[94] Giulia Santi, Sul materialismo leopardiano, cit., pp.24-25.

[95] Emanuele Severino, Il nulla e la poesia, cit., p. 19.

[96] Ivi, p. 199.

[97] Ivi, pp. 206-207.

[98] Ivi, p. 231.

[99] Jan Bourdeau, La philosophie affective : Nouveaux courants et nouveaux problèmes dans la philosophie contemporaine, Descartes et Schopenhauer, William James et M. Bergson, M. Th. Ribot, M. Alfred Fouillée, Tolstoï et Leopardi, Paris, Alcan, 1912, p. 152.

[100] Giosuè Carducci, Le tre canzoni patriotiche di Giacomo Leopardi, in Poesia e storia, Bologna, Zanichelli, 1905, p. 196.

[101] Giacomo Leopardi, Poesie e prose, a cura di Rolando Damiani, Milano, Mondadori, 1999, p. 1340.

[102] Mario Marti, Leopardi: il ‘momento’ di Arimane, cit., p. 141.

[103] Pietro Citati, Leopardi, Mondadori, Milano, 2010, pp. 268-274.

[104] M. Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’Evento), Milano, Adelphi, 2007, p. 106 e p. 111.

[105] Rolando Damiani, Introduzione, in Giacomo Leopardi, Zibaldone, Milano, Mondadori, 1997, p. XXXIV.

[106] Antonio Prete, Il pensiero poetante, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 91 e p. 90.

[107] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Nuova Edizione, Torino, Einaudi, 1991 (1a ed. it. 1967), p. 181.

[108] P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 2005 (1a ed. 1999), p. 1474.

[109] M. Heidegger, Eraclito, Milano, Mursia, 1993, p. 148.

[110] Dante, Convivio, Milano, Rizzoli, 1952, Trattato secondo, capitolo VII, p. 97; Trattato III, cap. II, p. 150; tra altri.

[111] Jean Beaufret, In cammino con Heidegger. Conversazioni con Frédéric de Towarnicki, Milano, Marinotti, 2008, p. 144. Il volumetto è forse il migliore disponibile per una prima approssimazione ai lavori ed alla figura di Heidegger.

[112] Ricordato in M. Heidegger, Dell’essenza del fondamento, in Segnavia, Milano, Adelphi, 1987, p. 109.

[113] M. Heidegger, Eraclito, cit., p. 148.

[114] Sono i versi 175-184, da La Ginestra, del Leopardi.

[115] M. Heidegger, Eraclito, cit., p. 144.

[116] Giacomo Leopardi, Elogio degli uccelli, in Tutte le poesie e tutte le prose, cit., p. 572.

[117] Giacomo Leopardi, Le prose morali commentate da Ildebrando della Giovanna, Firenze, Sansoni, 1899, p. 196.

[118] Dante, Convivio, cit., pp. 178-182; e pp. 213-214.

[119] Francesco De Sanctis, Giacomo Leopardi, cit., p. 298.

[120] M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, cit., p. 70.

[121] M. Heidegger, L’oltrepassamento della metafisica, in Metafisica e nichilismo, Genova, il melangolo, 2006, p. 42.

[122] Per primi confronti: M. Heidegger, Parmenide, Milano, Adelphi,1999, pp. 269-285; e M. Heidegger, Perché i poeti?, in Sentieri Interrotti, Firenze, la Nuova Italia, 1986, pp. 255-270.

[123] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Milano, Rizzoli, 1996, p. 214.

[124] Ivi, p. 179.

[125] Zaccaria, 2 Heidegger Essere e Da-sein, in Pensare il nulla, cit. pp. 73-118.

[126] Leibinitz, La Monadologia, Bari, Laterza, 1957, Tesi 29, p. 130.

[127] Arturo Graf, Foscolo, Manzoni, Leopardi, Torino, Chiantore, 1920, pp. 136-137.

[128] M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1991, p. 47.

[129] Giacomo Leopardi, Dialogo di Tristano e di un amico, in Tutte le poesie e tutte le prose, cit., p. 603.

[130] M. Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’evento), cit. p. 238.

[131] Luigi Russo, La collera del Vico e la stizza del Croce (dalle Memorie di un vecchio crociano), «Belfagor», Anno IV, n. 5, 30 settembre 1949, Messina-Firenze, G. D’Anna, p. 581.

[132] M. Heidegger, La determinazione del nichilismo, in Nietzsche, cit., p. 816.

[133] M. Heidegger, Sentieri interrotti, in Dall’esperienza del pensiero (1910-1976), Genova, il melangolo, 2011, p. 83.

[134] M. Heidegger, Schelling. Il trattato del 1809 sull’essenza della libertà umana, Napoli, Guida, 1994, pp. 66-117.

[135] M. Heidegger, La provenienza dell’arte e l’intonatura del pensiero, cit., p. 21, nota 1.

[136] M. Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’evento), cit. p. 193.

[137] Gino Zaccaria, Pensare il Nulla. Leopardi, Heidegger, cit. pp. 197-199.


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