Valerio Battista. In Olanda con la Prysmian

Un cavo lungo 200 milioni di chilometri nelle mani dell’italiano che sa tagliare.

Valerio Battista. In Olanda con la Prysmian Valerio Battista. In Olanda con la Prysmian

di Redazione

di Ugo Bertone

«Voglio numeri, non solo percentuali. Altrimenti a fine mese vi do una percentuale per stipendio, mica quattrini». Non sono ancora abituati gli ingegneri di Eindhoven, dal gallese Phil Edwards all’olandese Philippe Vanhille, che pure dispone di un ottimo italiano, al parlar franco dell’ingegnere Valerio Battista, conterraneo di quel Pietro l’Aretino che nel Cinquecento conquistò l’Europa, puritana Olanda compresa, con il suo ingenio acuto e la sua lingua ancora più tagliente.

Ma gli ingegneri della Draka, gioiello delle fibre ottiche che  sorge a Eindhoven (per l’Onu l’area che conta più brevetti per  chilometro nel mondo), una cosa l’hanno capita subito, fin dal primo  contatto con il chief executice officer della Prysmian, la  protagonista di un matrimonio dove, una volta tanto, gli italiani  contano di più: i numeri per Battista sono merce sacra, da trattare con  il massimo rispetto.

Guai, perciò, a chi per farsi bello si presenta alle riunioni aziendali sul budget con preventivi troppo ambiziosi. «Poi i preventivi saltano» brontola mentre l’auto percorre la foresta che unisce l’aeroporto di Eindhoven al recinto della fabbrica della Draka, uno spicchio di quello che fu un grande stabilimento Philips. «I volumi scendono, gli utili pure, ma i costi restano gli stessi». Annuisce, al suo fianco, l’altro depositario dei numeri, il catalano Jordi Calvo, il controller che lo accompagna nella missione.

«Taglia i costi, innova e tieni il passo con le tecnologie. Se generi la cassa per sostenerlo, puoi permetterti di non avere poi troppa paura del debito. Se segui questa regola, a uscire sconfitto sarà qualcun altro» continua Battista. E si vede che avrebbe voglia di usare un linguaggio più forte. Intanto l’aereo a noleggio plana sulla pista di Eindhoven. «L’abbiamo preso per risparmiare tempo» si scusa. «Altrimenti l’ordine aziendale è di viaggiare in seconda classe. Me compreso».

Al ritorno, dopo 10 ore di riunioni una in fila all’altra, panini e caffè, Battista non mostra fatica: si vede che la riunione sul budget delle fibre per telecomunicazioni, il fiore all’occhiello dell’affiliata olandese, è andata secondo le indicazioni. «Restano ancora differenze di stile tra noi di Prysmian e Draka, ma il quadro è positivo. Del resto, per completare una fusione così ci vogliono tre anni».

Ma attenzione, questo vale per le procedure aziendali, mica per gli uomini. Quelli sono già stati misurati da arbitri neutrali, i consulenti di Egon Zehnder ed Eric Salmon. Sei mesi di tempo e nel luglio scorso i 60 nuovi top manager del gruppo sono stati convocati per due giorni a Vimercate. Poi tutti a galoppare per raggiungere gli obiettivi: 150 milioni di sinergie dalle nozze con la Draka a partire dal 2014-15.

Tuttavia, bisogna crescere anche nel 2012, cosa mica facile visto il prezzo delle materie prime che sale mentre quello dei listini tende a scendere per la forte concorrenza. «Quest’anno per il management non ci saranno aumenti di stipendio, anche perché non sarebbe corretto nei confronti di chi è rimasto fuori dall’integrazione con Draka». Gli vien voglia di dire che non c’è trippa per gatti, ma un linguaggio così non si conviene a un top manager.

Comunque, il concetto l’hanno capito tutti, italiani e non, perché Battista sa farsi capire meglio di un manuale della Harvard school. Almeno a giudicare dai risultati della Prysmian, leader mondiale dei cavi, la formula funziona: 22 mila dipendenti, 17 centri di ricerca, 50 paesi serviti dai cavi per l’energia e le comunicazioni che escono dai 97 stabilimenti, che sfornano un filo infinitamente lungo (200 milioni di chilometri nel solo 2011) di fibre infinitamente piccole, su cui scorre il flusso delle informazioni, cioè il centro della nostra società.

La redditività è al top del settore e nel 2012 genererà almeno 600 milioni di margini. Un piccolo-grande miracolo italiano cresciuto in meno di 10 anni da una grande scuola, la Pirelli, ma laureatosi all’università del private equity, nientemeno che la Goldman Sachs, prima di approdare con successo in borsa per la gioia di tanti piccoli azionisti.

Perché la Prysmian è davvero una public company, così come ce ne sono tante a Wall Street ma solo una, ahimè, parla italiano. Anche se pensa in chiave mondiale, per niente sazia di avere conquistato la vetta del mercato dopo l’acquisto, un anno fa, della concorrente Draka, in terra d’Olanda. «Si va avanti  nello stesso modo» commenta Battista. «Tira giù il debito, aumenta l’ebitda, cioè la generazione di cassa». E poi? «Poi stai a vedere che cosa offre il mercato per crescere».

Già, il consolidamento del settore, anche dopo che sono usciti big del calibro di Siemens, Nokia e Alcatel, è tutt’altro che finito. E la Prysmian, che ormai detiene dopo l’acquisto della Draka l’unica tecnologia per le fibre ottiche made in Europe, si accinge a sfidare un po’ dappertutto, dal Brasile («In cui siamo di casa») alla Cina («Dove siamo primi, ma la competizione è agguerrita e i margini sono bassi»), i concorrenti Usa, giapponesi e gli stessi cinesi.

Mica si conquista per caso una leadership mondiale. Occorre essere pronti a piazzare i tradizionali cavi in rame in paesi emergenti e meno avanzati, ma anche a servire la nuova rete ad alta velocità che connetterà l’intero territorio australiano. O a cablare il nuovo World trade center di New York, piuttosto che a tendere 1.000 chilometri di cavi ottici a Novosibirsk, metropoli siberiana.

Si contano sulla punta delle dita le aziende italiane che hanno l’ambizione e i mezzi per essere cacciatore e non preda nel mercato globale. Eppure, quasi nessuno, al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori, conosce la magnifica avventura dell’ingegner Battista e dei suoi capitani coraggiosi, tipo il chief financial officer Pierfrancesco Facchini, il responsabile delle attività industriali Massimo Battaini o quello del business dei cavi energia, Fabio Romeo Ronco.

Sono loro che hanno affrontato l’avventura di questa costola della Pirelli, acquistata nel 2005 dalla Goldman Sachs che, come d’uso nel mondo dei private equity, ha scaricato l’onere maggiore dell’operazione sulla preda.

Di qui una gran galoppata nel silenzio dei media. Anche perché in questi anni Battista ha avuto troppo da fare per frequentare convegni. O forse perché i quotidiani e le tv, tutto sommato, non servono alla cosa che gli preme di più: vendere cavi. «Quando ho comprato casa, ho chiesto: ma che cavi avete usato? Quelli che mi ha dato il distributore, mi hanno risposto. È giusto così, mica vendo Coca-Cola».

Vero, ma quella di Prysmian è una storia esemplare di quel che l’Italia può essere e può dare quando non si fa male da sola. A partire dai debiti, che non sono una maledizione, purché si sappia generare abbastanza ricchezza da ripagare interessi e capitale.

Come Battista ha imparato di persona. «La notte del 29 luglio 2005 non ho dormito: non capita tutti i giorni di accollarsi 1 miliardo e 56 milioni di debito». Già, al termine della lunga selezione fra i possibili pretendenti all’acquisto della Pirelli Cavi, aveva prevalso la Goldman Sachs. «Gente straordinaria» commenta Battista «veri e propri geni della finanza. Al tempo sembrava normale per le aziende avere una leva anche fino a 6-7 volte l’ebitda. Ma alla fine la scelta di non sovraccaricare Prysmian di troppi debiti si è rivelata vincente».

Anche così i numeri fanno davvero impressione: per pagare la cifra pattuita con la Pirelli (1,3 miliardi), la Goldman versa 225 milioni, il resto è debito da caricare sulle spalle dell’azienda. E in questo modo la Prysmian, così battezzata nel 2004 («Il nome l’ha scelto una società specializzata, la Interbrand, perché doveva funzionare in tutto il mondo»), con Battista in sella ha imparato a correre come una puledra.

Tempo un anno e la Goldman, nell’ottobre 2006, si era già ripagata l’investimento iniziale di 225 milioni. «Allora abbiamo subito inquadrato nel mirino il traguardo della quotazione in borsa e ci siamo messi a correre perché i private equity, si sa, guadagnano quando riescono a rivendere o a portare le aziende sul listino».

Un’altra corsa contro il tempo per sfruttare il vento propizio che sui mercati come in barca a vela (l’unica vera passione di Battista) è la cosa che conta di più, assieme alla fortuna: la Prysmian approda così nel porto di Piazza Affari nel maggio del 2007, giusto prima della tempesta finanziaria.

«Il nostro è un azionariato molto diffuso, in cui solo i fondi di investimento, tutti assieme, controllano percentuali a due cifre». Il 6 per cento è invece controllato dalla Club 3, che ha espresso i due consiglieri di minoranza, Gianni Tamburi e l’armatore Cesare D’Amico.

C’è poi la quota del management, Battista e i dirigenti della prima linea. L’azionariato è così diffuso che il consiglio di amministrazione, un po’ come capita nelle public company anglosassoni, ha presentato una sua lista, a maggioranza di indipendenti, per il rinnovo del board. Con il pieno consenso dei gestori più esigenti, tipo quelli di BlackRock o Goldman, piuttosto che il fondo sovrano di Norvegia.

«Dedico molto tempo a spiegare agli azionisti programmi, strategie e risultati» sottolinea Battista «anche perché è importante raggiungere un’ampia partecipazione. Altrimenti operazioni come l’aumento di capitale per rilevare la Draka, che richiedono maggioranze qualificate, rischiano di essere impossibili».

E poi, la parola impossibile suona strana in bocca a Battista l’Aretino, l’uomo che in sette anni si è, in un certo senso, «venduto» due volte (prima alla Goldman Sachs, poi alla borsa) ma ora, dopo l’acquisto della Draka, ha preso il gusto per lo shopping. Grazie a lui e a pochi altri, ci sarà sempre una spruzzata di tricolore in più nelle classifiche del big business. Che sarà pur bello quand’è piccolo, ma quando è grande lo è di più.

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