Volume: il riso

Sezione: storia e arte

Capitolo: risicoltura vercellese

Autori: Maria Pia Ferro, Aldo Ferrero

Introduzione

Il paesaggio risicolo padano, così suggestivo in ogni stagione dell’anno, è frutto di complesse interazioni fra elementi naturali, lavoro di generazioni e scelte politiche. Le prime testimonianze documentali della presenza del riso nel territorio lombardo e nel ducato di Savoia risalgono al XV secolo, quando la coltura iniziò a diffondersi nei territori con suoli pesanti, soggetti a ristagno idrico, ben tollerati da essa ma poco adatti alla coltivazione di altre piante. Si trattava di un ambiente in parte ancora selvaggio, che aveva subito i primi interventi di bonifica e dissodamento già in epoca romana. A partire dal I e II secolo d.C., alcune aree incolte vennero infatti distribuite, a titolo gratuito, ai militari con l’impegno di bonificarle e renderle produttive. Gli interventi di bonifica e miglioramento si limitarono per alcuni secoli alle zone prossime alle maggiori vie di comunicazione o in vicinanza dei più importanti agglomerati urbani. La maggior parte dell’attuale territorio risicolo era occupato da paludi e boscaglie, in gran parte non interessate da alcuna attività agricola. Alle soglie del secondo millennio si avviò un intenso processo di bonifica in alcune aree del Vercellese, come risulta dagli atti di una donazione del 961 fatta alle canoniche di Sant’Eusebio e Santa Maria di Vercelli. In questo stesso territorio l’impegno a dissodare e bonificare i terreni fu successivamente sviluppato in modo intensivo e razionale a partire dal XII secolo da parte dei monaci cistercensi, nell’ambito dell’abbazia di Santa Maria di Lucedio. L’opera dei monaci portò al recupero di aree paludose, grazie alla costruzione di una rete di canali per lo sgrondo delle acque, creando le condizioni favorevoli all’introduzione della risicoltura. La coltivazione del riso ebbe, fin dagli inizi, carattere estensivo e trovò inserimento nelle grandi proprietà che si erano andate sviluppando in epoca post-carolingia. Si basava sull’applicazione di tecniche molto approssimative, senza impiego di fertilizzanti, facendo al massimo ricorso alla pratica del maggese. Fornendo una resa pari a 10-12 volte la quantità di seme impiegato, contro le 4-5 del frumento, questa forma iniziale di risicoltura si dimostrò subito un’attività molto redditizia, in quanto richiedeva limitati investimenti di capitali e lavoro. La manodopera era per lo più rappresentata da personale avventizio reclutato principalmente in due periodi dell’anno per le operazioni di semina e di raccolta.

Organizzazione delle aziende

Le grandi proprietà fondiarie, sia laiche sia ecclesiastiche, che si erano formate durante il periodo carolingio (IX sec.) avevano assunto dimensioni notevoli nel corso dell’epoca post-carolingia, tanto da divenire veri e propri centri di potere economico. La grande proprietà, la curtis, era composta da due parti distinte, il dominico, nucleo centrale curtense, e le masserizie, dipendenze disseminate sul territorio che costituivano il sistema di produzione e di consumo di un’economia definita dagli storici “curtense”. Tale sistema si affermò anche nelle grandi proprietà monastiche; a un nucleo centrale (abbazia) si affiancavano molteplici nuclei dipendenti (grange); un caso emblematico, per il Piemonte, alla fine del XII secolo, è rappresentato dalle grange dipendenti dalla certosa di Montebenedetto in Valle di Susa, dei monaci benedettini, e dalle proprietà appartenenti all’abbazia cistercense di Lucedio. Il monastero era gestito da un abate, autorità indiscussa, responsabile delle terre, degli uomini e degli animali, in cima alla scala gerarchica che si creava all’interno del sistema costituito dall’abbazia, e dalle grange. Dall’abate dipendevano il cellarius, il monaco che sovraintendeva all’amministrazione economica dell’abbazia, e il grangiarius, al quale era affidata l’organizzazione all’interno di ogni grangia. In posizione subordinata figuravano poi i conversi, che affiancavano l’abate nella conduzione delle aziende agricole. Queste figure di laici, che non avevano preso i voti, si dedicavano alle attività agricole a tempo pieno, partecipando in misura ridotta alle funzioni liturgiche. Infine venivano i familiares, domestici che vivevano all’interno delle grange agli ordini dei conversi. Le grange, il cui termine deriva dal latino volgare granica, granaio, arrivavano a possedere fino a mille giornate di terreno (circa 380 ettari). Esse erano costituite da più nuclei rispondenti sia alle esigenze della vita comunitaria (refettori, dormitori) sia alle attività agricole vere e proprie (magazzini, fienili, stalle, e locali recintati). Dal secolo XII, con il processo di incastellamento delle curtes, divenute sempre più insicure, anche le grange iniziarono a essere fortificate con palizzate, torri e fossati, assumendo l’aspetto di veri e propri edifici fortificati. Gli insediamenti rurali, sia quelli appartenenti a ordini religiosi, sia quelli di proprietà dell’aristocrazia, seguivano un impianto precostituito. Attorno a un cortile centrale, erano disposte le abitazioni del grangere o del massaro (responsabili, rispettivamente, di aziende appartenenti a ordini monastici e non) le case dei conversi e dei familiares, le stalle e i magazzini; due passaggi per l’accesso, uno principale e uno secondario aperto sui campi. Ogni massaro possedeva, oltre all’abitazione, una porzione di terreno coltivabile, un orto e, a volte, un pascolo. Già nel XIII secolo le abitazioni dei grangeri erano costruite in muratura e su due piani: un unico ambiente (stanza-focolare) al piano terreno, accanto al quale era situata la stalla, e al piano di sopra i locali adibiti a fienile e a magazzino. Si può ipotizzare che 2 o 3 famiglie vivessero nella stessa abitazione in precarie condizioni igieniche. Accanto all’abitazione del massaro sorgevano i locali destinati ai salariati; sugli altri lati della corte si sviluppavano i fabbricati rurali. Sempre all’interno delle aziende agrarie erano talvolta presenti mulini e piste da riso, per la lavorazione del risone, i casoni dove avveniva la lavorazione del formaggio e del burro, nonché le ghiacciaie, costruzioni interrate e dotate di coibentazione, dove era conservato il ghiaccio dopo l’inverno; infine si trovavano dei fabbricati a schiera, di piccolissime dimensioni, costituite da un piccolo porcile, al piano terreno, e da un pollaio al piano di sopra. Tale disposizione degli edifici su quattro lati della corte, riferibile all’epoca medievale, si ritroverà poi nella tipologia della “cascina a corte chiusa”, originatasi, secondo documenti d’archivio, nelle pianure vercellese e novarese già nel XVI secolo e diffusasi nelle campagne di tutta la Pianura Padana dall’inizio del XVII secolo. Costruita intorno a complessi edilizi preesistenti (castelli, monasteri, grange) la cascina a corte chiusa materializza nell’epoca dell’assolutismo la grande proprietà nobiliare settecentesca. All’interno della corte venivano costruite le “case da nobile”, vere e proprie ville che si contrapponevano ai fabbricati rurali circostanti. La tipologia ricorrente era costituita da complessi con una sola corte, ma non mancano esempi con più corti, risalenti all’Ottocento. Le corti avevano forma quadrangolare ed erano circondate da edifici. Tra questi figurava in primo luogo la “casa da nobile”, che si distingueva soprattutto per il carattere non rurale e talvolta era utilizzata come residenza di villeggiatura dai proprietari. Su un altro lato si disponevano le abitazioni del fattore e dei lavoranti fissi; sui restanti lati erano presenti stalle e magazzini. Tecniche e materiali costruttivi corrispondevano allo status sociale dei residenti. La casa da nobile infatti veniva abbellita con inserimenti di torrioni agli angoli, torri-porta come ingresso, cornicioni, architravi, che rendevano l’edificio simile a una villa o a un piccolo castello. Si può citare per esempio, nel basso Vercellese, la cascina Crocetta (XVII sec.) o la Colombara a Livorno Ferraris, risalente al XVI secolo. I complessi destinati ai contadini erano privi di ogni comodità e realizzati in modo assai semplice. In quasi tutti i borghi o nelle grange sorgeva una chiesa parrocchiale. La disposizione a struttura chiusa, attorno a vaste aree per le aie, era utilizzata per un doppio scopo: difesa in caso di attacco o di pericolo di contagio, soprattutto di epizoozie. Tale modello si mantenne per un lungo periodo nelle campagne risicole, almeno fino alla seconda metà dell’Ottocento, quando intervennero trasformazioni connesse alle innovazioni in campo agricolo. Le rappresentazioni iconografiche e le testimonianze esistenti ancor oggi sul territorio dimostrano la persistenza della struttura-tipo delle case per i massari (salariati fissi). Questa, fin dal Cinquecento, comprendeva 2 ambienti al piano inferiore, un magazzino sovrastante, e disponeva inoltre di ambienti chiusi per la stalla o aperti per il ricovero degli attrezzi. Solo a partire dal XIX secolo questi fabbricati subirono ampliamenti con la realizzazione di dormitori per i lavoratori stagionali, costruiti all’esterno della corte originaria. Anche l’aia, che era in origine in terra battuta, venne cementata. Solitamente le aie si trovavano all’esterno della corte ed erano situate in spazi aperti. Rimaneva inalterata la presenza di due accessi risalente già all’impianto medievale delle grange. Tali insediamenti costituirono, fino alla prima metà del XX secolo, dei villaggi autonomi, all’interno dei quali vivevano decine di famiglie, a cui in certi periodi dell’anno si aggiungevano numerosi dipendenti stagionali. Si potevano trovare la bottega, il mulino, la scuola, la farmacia nonché una piccola chiesa accanto alla casa padronale. Esempi di edifici religiosi si riscontrano in quasi tutte le grange lucediesi. Questa situazione si protrasse fino verso la seconda metà del Novecento quando, con l’avvento della meccanizzazione e l’abbandono delle campagne da parte della popolazione, la cascina si ridusse esclusivamente a centro di produzione agricola. Abbazia di Santa Maria di Lucedio L’antica abbazia di S. Maria di Lucedio sorse al centro di una grande foresta planiziale, estesa da Crescentino al fiume Sesia e consacrata ad Apollo in epoca romana (Lucus Dei), sul territorio dell’antica corte Auriola, un feudo che, come risulta da un diploma del 933, l’Imperatore Lotario aveva donato alla Signoria degli Aleramici. Secondo lo storico dell’ordine cistercense Leopoldo Janauschek, l’abbazia fu fondata nel 1123, a seguito di un lascito di Ranieri, marchese del Monferrato, della dinastia degli Aleramici e affidata a una comunità di monaci cistercensi, appartenenti all’abbazia borgognona di La Ferté, della diocesi di Chalon-sur-Saône, con lo scopo di rendere produttivi i terreni loro donati. Si trattava di un impegno che prevedeva la realizzazione di importanti interventi di disboscamento e la realizzazione di opere idrauliche volte a bonificare i terreni acquitrinosi e a portare l’acqua nei terreni asciutti. L’ordine cistercense era derivato da quello benedettino, a seguito della fondazione nel 1098 di un’abbazia presso Citeaux (Cistercium in latino), con l’obiettivo di tornare a uno stile di vita basato sulla pratica dell’obbedienza e dell’umiltà, con tempi scanditi dal lavoro e dalla preghiera, incarnando in modo autentico la Regola di San Benedetto. Grazie a generose donazioni e soprattutto all’abilità di monaci che seppero coniugare spiritualità e fervore operativo, il patrimonio fondiario crebbe estendendosi ben oltre l’area prossima al monastero, mediante la fondazione delle grange, centri agricoli sottoposti al suo controllo, cui spettava il compito di gestire il territorio loro assegnato. Numerose furono le grange dipendenti da Lucedio. Molte erano situate in un raggio massimo di 5 km dalla casa madre: Lucedio, Castelmerlino, Montarucco, Leri, Darola, Ramezzana; altre, più distanti, erano Cornale, Montonero, Moncalvo e Gazzo (in territorio casalese), Pobietto (a sud di Trino). In tal modo, nelle grange in cui non erano presenti le chiese, i conversi potevano, con al massimo un’ora di cammino, recarsi nei giorni festivi alle funzioni religiose e ascoltare il sermone dell’abate. Secondo varie fonti documentali, la maggior parte di esse furono fondate nel XII secolo: Montarucco, Montarolo e Castelmerlino nel 1126, Leri nel 1152, Ramezzana nel 1183, Darola nel 1186, Cornale nel 1188, Gazzo nel 1198. Si ha testimonianza della fondazione, agli inizi del secolo successivo, di grange ancora più distanti dall’abbazia: di quelle pavesi di Breme e Settimo Rottaro nel 1210, di quella di Sartirana nel 1220 e di quella di Valtesa, presso Chivasso, nel 1290. Le nuove grange furono per lo più frutto di donazioni, anche se alcune di esse derivarono da acquisti con beni monastici. Esemplificativo è il caso di Gazzo e Leri, grange che furono acquisite da altre abbazie, che le avevano precedentemente costituite: Gazzo dal cenobio cistercense di Rivalta Scrivia, Leri dal monastero di S. Genuario di Lucedio. Queste acquisizioni si inserirono in un piano di organizzazione delle proprietà volto a un ampliamento razionale delle aree da coltivare. Talvolta gli acquisti non venivano realizzati direttamente dall’abate del monastero, ma dai grangeri più dotati di capacità amministrative e gestionali del territorio. La maggior parte delle grange era localizzata in prossimità di tracciati stradali o fluviali di rilievo: Moncalvo lungo la strada VercelliAsti; Pobietto, Cornale, Gazzo, Breme e Sartirana lungo i tracciati viari Pavia-Torino e Casale-Torino, traendo altresì beneficio dalla possibilità di collegamenti con il corso navigabile del Po. Anche per le aziende di Leri, Montarolo e Ramezzana rivestiva un ruolo rilevante la rete viaria, che consentiva collegamenti con i principali centri urbani piemontesi e lombardi. Nella maggior parte dei casi le grange vennero costituite nell’ambito di villaggi o di aziende preesistenti. Emblematico è il caso di Gazzo, sorto su una preesistente mansio, e quello di Leri, sviluppato su una villa già presente. Anche Cornale e Montarolo sarebbero sorte all’interno di curtes, sovrapponendosi a precedenti strutture costruite in materiali lignei, secondo gli schemi costruttivi tradizionali. Tra la fine del XII e quella del XIII secolo, Lucedio divenne un’abbazia molto ricca e potente, con possedimenti e grange sparsi su tutto il territorio piemontese, spingendosi anche a sviluppare insediamenti monastici al di fuori di esso. In questo periodo prese avvio per esempio la fondazione di nuove comunità monastiche a Rivalta Scrivia, Castagnole di Senigallia, ad Antiochia e a Salonicco. Agli inizi del XIV secolo comparvero però i primi segni di una crisi economica, che investì molte abbazie dell’epoca. Gli abati furono costretti a indebitarsi, impegnando anche i beni dell’abbazia e talvolta concedendo in affitto alcune proprietà per far fronte ai debiti. Il modello cistercense entrò in crisi anche a seguito dell’istituzione di nuovi ordini religiosi, che portò a una riduzione di monaci e conversi, figure fondamentali per la gestione delle grange. La decadenza dell’abbazia iniziò nel 1457 con la sua trasformazione in commenda per volere del pontefice Callisto III e il controllo dei suoi redditi da parte dell’abate commendatario Teodoro Paleologo, pronotario apostolico, figlio del Marchese del Monferrato. La commenda comportava un diritto di patronato da parte dei Marchesi del Monferrato, diritto che venne confermato con due bolle papali, nel 1477 e nel 1488, e che si mantenne anche dopo la cessione del territorio di Trino ai Savoia, nel 1681, con il trattato di Cherasco. In questo periodo, la gestione dell’abbazia era affidata all’abate commendatario che curava l’intero patrimonio terriero, godendone i frutti, e all’abate claustrale, con la funzione di guida spirituale e il diritto alla gestione della sola grangia di Lucedio, per il mantenimento dei monaci. Questo sistema portò a un graduale allentamento della disciplina e dei costumi monastici e al sostanziale passaggio della proprietà abbaziale al patrimonio personale dell’abate commendatario, esponente spesso di potenti famiglie nobili. Nel 1784 l’abbazia lucediese venne secolarizzata da Papa Pio VI ed entrò a far parte, con tutte le sue grange, dell’ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. I monaci cistercensi, ridotti a una decina, vennero trasferiti nel convento di Castelnuovo Scrivia. La commenda venne poi trasferita dall’Ordine Mauriziano, nel 1792, al duca Vittorio Emanuele I di Savoia. Con l’occupazione francese del Piemonte, la proprietà fu oggetto dei decreti di soppressione da parte di Napoleone e concessa al cognato principe Camillo Borghese, allora Governatore Generale del Piemonte. Nel 1818 molte proprietà dell’abbazia vennero acquisite in società da Luigi Festa, dal marchese Francesco Benso di Cavour, padre di Camillo, e dal marchese Giovanni Gozani di San Giorgio, antenato dell’attuale proprietaria. Lucedio, e alcune delle sue grange, nel 1861 vennero poi trasferite al marchese Raffaele de Ferrari. Con la nomina di quest’ultimo a principe, per meriti militari, Lucedio divenne un “principato”. Nel 1937, la proprietà venne quindi ceduta dall’erede del principe de Ferrari ai conti Cavalli d’Olivola, i cui eredi sono ancora oggi i proprietari. Durante la sua massima espansione territoriale, nel periodo di appartenenza all’ordine Mauriziano, Lucedio arrivò a possedere e coltivare ben 13.197 giornate (5028 ha), utilizzando tutte le forme di conduzione, dalla diretta alla mezzadria e all’affitto, come risulta dalla contabilità conservata scrupolosamente negli ultimi quindici anni del Settecento. Le grange situate in posizione contigua erano prevalentemente condotte in gestione diretta, mentre quelle più isolate erano per lo più concesse in affitto. Dopo i primi interventi di bonifica i monaci avviarono la coltivazione di piante erbacee, quali frumento, orzo, segale, panico, sorgo, canapa, lino e successivamente quella del riso. Quest’ultima trovò inserimento in modo estensivo sui terreni abbaziali meno favorevoli alle altre colture, come quelli a reazione acida. La presenza del riso nelle grange è documentata fin dal 1453, proveniente dalle tenute di Galeazzo Maria Sforza a Villanova, nel Pavese, come attestano due lettere datate 1475. Verso la fine dello stesso secolo la commenda lucediese riportava la presenza di 1732 ettari a riso sui 2700 ettari totali sotto la sua gestione. L’organizzazione economica del sistema delle grange nell’ambito dell’Ordine Mauriziano assumeva caratteristiche analoghe a quelle di altre grandi proprietà controllate dallo stesso Ordine, quali l’Abbazia di Staffarda, nel Saluzzese, oppure quella di Sant’Antonio di Ranverso, in Val Susa. Dipendevano tutte dalla sede torinese in cui risiedeva il direttore, mentre a Darola, una delle grange, risiedeva un responsabile, che aveva il compito di garantire il funzionamento il più possibile omogeneo tra le varie tenute. All’interno di ogni unità produttiva, vi era un’organizzazione che si avvicinava molto ai modelli praticati da altre aziende agrarie vercellesi dell’epoca. In conclusione le grange di Lucedio assumono particolare rilevanza per comprendere, dapprima, l’organizzazione territoriale cistercense e poi quella delle cascine a corte chiusa del XVIII secolo, presentandosi oggi, dal punto di vista architettonico, come nuclei notevolmente stratificati per l’inserimento sulle strutture originarie di elementi di epoca diversa. Dell’antico complesso abbaziale di Lucedio si sono conservati l’aula capitolare e il campanile a pianta ottagonale (metà XIII sec.). Darola rappresenta uno dei più antichi esempi di cascina “a corte chiusa” conservati nel Vercellese: presenta una doppia corte, una destinata alla casa padronale, l’altra all’azienda agricola; delle due torri d’accesso ne rimane una a pianta quadrata. Delle antiche grange, Montarolo conserva la chiesa settecentesca dei SS. Pietro e Paolo (opera di C. Antonio Castelli). La grangia di Ramezzana conserva la chiesetta di S. Giorgio. Anche la chiesa di Montarucco, settecentesca, è opera di C. Antonio Castelli. Castelmerlino conserva una cappella datata 1724-25, dedicata a S. Pietro. Infine Leri, già residenza della famiglia Cavour, presenta, accanto alla residenza padronale, oggi abbandonata, la chiesa della natività, eretta nel 1718-20 da F. Gallo.

Problemi socio-sanitari e del lavoro

Sin dai primi tempi della sua introduzione, la coltivazione del riso evidenziò una serie di problemi, principalmente legati agli aspetti igienico-sanitari e al precariato lavorativo. La diffusione della malaria (aria cattiva), prodotta secondo la concezione del tempo dal ristagno delle acque sui campi, indusse le autorità delle diverse zone risicole a porre limiti allo sviluppo del cereale. Nel Saluzzese ne venne vietata la coltivazione nel 1523, poco dopo la sua introduzione. Nella maggior parte del territorio vercellese si intervenne stabilendo aree di rispetto intorno ai centri abitati, emanando regolamenti che risultavano spesso inosservati e privi di effetto. Nonostante l’opposizione di esperti e agronomi, come per esempio Pietro de’ Crescenzi (1512), per limitare la risicoltura alle zone naturalmente acquitrinose e malsane, il cereale si diffuse anche in zone sottoposte ad altre colture. Nella seconda metà del Cinquecento la nuova coltura fece affluire una grande quantità di manodopera proveniente dalle montagne e da aree contigue. L’afflusso di questi lavoratori fu favorito dall’abolizione della schiavitù della gleba da parte del duca Emanuele Filiberto. L’applicazione di tecniche produttive più avanzate, come per esempio il ricorso alla monda, sia pur onerosa, si rivelò subito molto favorevole all’innalzamento dei livelli produttivi. In questo secolo solo una minima parte dei lavoratori veniva assunta con contratti annuali, perché si tendeva a utilizzare per brevi periodi manodopera avventizia, reclutata a più basso costo. In questa situazione venne ad assumere particolare rilevanza il problema del precariato lavorativo. Dalla fine dello stesso secolo si diffuse gradualmente la mezzadria, con pattuizioni sulla partecipazione alla produzione, che permettevano ai mezzadri condizioni economiche molto più elevate di quelle di altre figure di lavoratori. I mezzadri fornivano il lavoro proprio e della famiglia, gli animali e le attrezzature necessarie per le varie operazioni colturali, mentre i proprietari mettevano a disposizione il terreno e i fabbricati necessari alla famiglia del mezzadro e allo svolgimento dell’attività agricola, la legna per riscaldamento e cucina e talvolta anche la semente. Con questa forma di conduzione, la produzione veniva divisa in parti uguali tra il proprietario e il mezzadro. Verso la seconda metà del XVIII secolo, il 4% dei proprietari, rappresentati da nobili, ecclesiastici, ospedali, abbazie e borghesi, possedeva circa il 60% dei terreni, con aziende di oltre 100 giornate di superficie. Il sistema organizzativo all’interno di ogni azienda era sostanzialmente simile, indipendentemente dalla proprietà. In questo stesso periodo, man mano che si andava diffondendo la coltivazione del riso, si riduceva sempre più l’esigenza di disporre di manodopera impegnata per tutto il corso dell’anno e da coinvolgere nella divisione della produzione, essendo i lavori essenzialmente concentrati durante la semina e la raccolta. A partire dal territorio vercellese, iniziarono gradualmente a diffondersi forme di contratto come l’affitto e la schiavenza, che portarono al superamento della mezzadria. Nelle grange dell’abbazia di Lucedio i contratti di affitto prevedevano una durata novennale; gli affittuari non potevano variare la destinazione colturale dei fondi e le stesse rotazioni dovevano coincidere, soprattutto per le risaie, con quelle delle tenute a conduzione diretta. Una regola comune a cui sottostavano gli affittuari nell’ambito del sistema lucediese era l’esenzione dalla rendita solo “nei casi di peste, guerra guerreggiata e mortalità del bestiame”, ove l’allevamento del bestiame costituiva una peculiarità delle grandi aziende agrarie del Vercellese, dotate di bovini sia per la produzione di carne e latticini, sia per il lavoro dei campi. Nelle grandi aziende, la gestione diretta si basava su una ben definita struttura gerarchica nei ruoli del lavoro, con la presenza di un massaro, con compiti organizzativi e di coordinamento, e due principali categorie di lavoratori: i fissi e gli avventizi. I primi, detti anche schiavandari, comprendevano diverse figure professionali. I bovari si occupavano di una o raramente di due coppie di buoi e di tutte le attività connesse all’aratura, al trasporto e alla concimazione. I bergamini avevano la responsabilità dell’allevamento dei bovini, mentre i manzolari provvedevano alla cura dei manzi. Queste diverse figure evidenziano l’importanza del ruolo degli animali nell’azienda agricola di quell’epoca per l’esecuzione dei più gravosi interventi colturali, come il livellamento del terreno, l’aratura, i trasporti e la trebbiatura. Quest’ultima operazione era comunemente realizzata con l’intervento degli animali che dovevano calpestare i covoni disposti in circolo per favorire il distacco del risone. Un’altra importante figura era quella del pratarolo che doveva occuparsi della risaia dopo la semina e aveva la responsabilità della gestione delle acque, della raccolta e della battitura del cereale. Al pistarolo era affidata la lavorazione del risone, che prevedeva la sbramatura in apposite “piste”, la sbiancatura e la crivellatura. In alcune aziende era presente anche il casaro che operava nel casone, una struttura adibita alla produzione di latticini. Il termine schiavandaro, derivato da schiavo, dà una chiara idea delle tristi condizioni di vita a cui era sottoposta questa figura di lavoratore. Nell’ambito delle sue specifiche competenze, egli era obbligato a eseguire fedelmente gli ordini del responsabile dell’azienda, o del “padrone”, con la possibilità di essere cacciato dall’azienda, con tutta la propria famiglia, a seguito della più modesta inadempienza. In tale situazione era altresì esposto al rischio di perdere, a titolo di penale, quanto doveva ancora percepire dalla proprietà. Anche per questa ragione, un terzo del salario annuo era normalmente corrisposto a S. Martino (11 novembre), periodo in cui si regolavano comunemente i conteggi e avvenivano i trasferimenti. A questo tipo di manodopera si affiancavano altre figure di lavoratori, come i manovali, che erano occupati con contratti di durata annuale, e gli avventizi, lavoratori stagionali assunti in periodi di particolare intensità dei lavori agricoli. A essi erano affidati la pulizia e la manutenzione di argini, canali e chiuse, il taglio del fieno e il trasporto. Tra gli avventizi figuravano anche gli addetti alla monda del riso e gli airatori o aratori che, operando in squadra, provvedevano alla battitura del cereale. I lavoratori avventizi risiedevano all’esterno dell’azienda ed erano reclutati da intermediari nei comuni delle aree limitrofe. Anche le donne avevano un ruolo importante nell’economia aziendale: esse si occupavano della monda del riso, della confezione dei sacchi, della rastrellatura del fieno e della paglia ed erano comunemente retribuite a giornata. Verso la fine del Settecento i salari venivano per lo più percepiti sia in denaro, sia in natura. La parte in denaro era stabilita ad anno per i salariati fissi, a giornata o a cottimo per i manovali fissi e per gli avventizi. La parte in natura dipendeva dal fatto che i lavoratori risiedessero o meno in azienda e comportava l’assegnazione di quote di prodotti agricoli. Ai salariati fissi erano assegnati un’abitazione, un orto, un pollaio e un piccolo porcile. Era permesso l’allevamento di animali di bassa corte, utilizzando i prodotti dell’azienda, e il cui numero variava a seconda del ruolo ricoperto dal lavoratore. I salariati fissi del complesso dell’abbazia di Lucedio, nel periodo di appartenenza all’Ordine Mauriziano, godevano di condizioni più vantaggiose rispetto a quelle in uso presso altre aziende. A essi erano infatti assegnate quote di segale, granoturco, riso bianco, fagioli e un certo numero di fascine di legna ed era loro permesso l’acquisto di prodotti dell’azienda a prezzi di costo o all’ingrosso. Inoltre, tutti i residenti nelle cascine dell’abbazia disponevano dell’assistenza medica gratuita, compresi i medicinali. Per i manovali fissi e gli avventizi la parte in natura del compenso era stabilita in quote di prodotto ottenuto nelle diverse operazioni. Per esempio per la battitura delle cosiddette prime paglie del risone veniva assegnato un quarto del raccolto. Nel caso degli avventizi il taglio del riso comportava un compenso pari a un dodicesimo del risone di prima battitura. Anche i per pistaroli era previsto un compenso definito a cottimo, in relazione alle diverse operazioni di sbiancamento, crivellatura e insaccamento. Relativamente ai salari, si deve anche tener presente che verso la fine del Settecento, i lavoratori dovettero subire le conseguenze di una grave crisi economica, che portò, in seguito a manifestazioni e proteste, a una revisione del trattamento economico. Puntuale testimonianza di questa situazione ci viene fornita dal capo agente della grangia di Darola, che in un rapporto del 29 marzo 1795 al suo diretto superiore esponeva le difficoltà di reclutare manodopera avventizia nelle zone circostanti alla proprietà a causa del trattamento salariale troppo basso. La legislazione francese con l’alienazione delle proprietà ecclesiastiche e l’abolizione del maggiorascato aveva, d’altro canto, favorito la formazione di aziende agricole medie e grandi, in cui si attivò un’agricoltura di tipo capitalistico, contraddistinta da forti investimenti, che diedero impulso alla coltivazione del riso. Con la perdita dei privilegi feudali, molti nobili proprietari terrieri si erano trasferiti dalle campagne nelle città, concedendo le loro terre in affitto. La diffusione dell’affitto e della schiavenza portò, però, a un progressivo impoverimento dei contadini, ridotti al rango di salariati, con pochi diritti. Tra la metà del Settecento e gli inizi dell’Ottocento la superficie risicola passò da poco più di 7 mila a circa 30 mila ettari. Nel Pensiero sopra le risiere della Lombardia, pubblicato nel 1784, lo scrittore e pensatore Giovanni Antonio Ranza osservava che l’eccessivo sviluppo della risicoltura in Lombardia e Piemonte stava portando allo spopolamento delle campagne; accusando i grandi proprietari terrieri di una visione egoistica e irresponsabile, egli sosteneva la necessità di limitare il latifondo nelle risaie e di coltivare il cereale in rotazione con altre colture. La risicoltura, tuttavia, continuò a diffondersi soprattutto nelle aziende concesse in affitto, grazie alle rese produttive superiori a quelle delle altre colture e alle minori esigenze di manodopera. Secondo testimonianze dell’epoca, l’affittanza ebbe effetti deleteri sia sulla fertilità dei terreni sia sulle condizioni sociali ed economiche della manodopera occupata nelle stesse aziende. Tra le varie voci critiche nei confronti dei fittavoli, può essere citata quella dell’avvocato Gianstefano Debernardi, il quale in una feroce requisitoria del 1786 li accusava di depauperare i terreni e di ridurre in miseria i propri salariati, preoccupandosi unicamente di trarre il massimo profitto dai fondi durante il periodo della locazione. In un suo passaggio particolarmente efficace, il Debernardi scriveva: “quelle infelici maremme popolate da mille insetti palustri, nel fervore di ciascuna state trasfigurano i più bei piani di terra in una immensa cloaca tutta sparsa di corpi infraciditi, le figure incadaverite di que’ meschinissimi abitatori, con orrore della umanità, a metà del corso ordinario della vita già vittime della morte”. La situazione sociale e sanitaria delle aziende risicole non cambiò neppure dopo l’occupazione francese, tenuto conto che, con il blocco navale imposto a Napoleone, il riso divenne particolarmente prezioso per la Francia. In questo periodo i vincoli imposti alla diffusione della coltura trovarono una forte opposizione da parte dei grandi proprietari terrieri, che talvolta rivestivano anche importanti ruoli pubblici e non avevano troppe difficoltà a corrompere i commissari prefettizi. Limiti alla coltivazione vennero fatti applicare con fermezza dai prefetti napoleonici Carlo Stefano Giulio e Félix Saint Martin de la Motte, mediante controlli sui territori vercellesi sottoposti alla loro giurisdizione. L’esame delle condizioni di vita della popolazione rurale delle zone risicole mise in evidenza una forte incidenza di malattie come le febbri intermittenti che provocavano patologie al fegato e all’apparato linfatico, ulcere e scorbuto e causavano, inoltre, nel sesso femminile la scomparsa del ciclo e la sterilità già verso i trent’anni. Venne rilevata una forte eccedenza dei morti sui nati e si ipotizzò che in due secoli il dipartimento si sarebbe di fatto quasi spopolato. Malgrado il ripetersi delle proibizioni, il riso si diffuse e cominciò a soppiantare le altre colture, per il suo prezzo crescente, che arrivò a superare quello del grano, a partire dai primi dell’Ottocento. Dopo la caduta di Napoleone, l’area risicola continuava a essere caratterizzata dalla presenza di grandi aziende in proprietà o in affitto, le cassine (cascine), che svilupparono un’intensa attività agricola con elevati investimenti di capitali e lavoro. In queste aziende la risicoltura era diventata un’importante fonte di reddito. Come scriveva nel 1818 Carlo Emanuele Mella, intendente della provincia, in un rapporto al sovrano sabaudo: “L’utilità dei proprietari consiste nella minore spesa di coltura, minor rischio della stessa, maggior possibilità di vendita, a prezzo maggiore degli altri generi di coltura, quindi minor spesa di coltivazione… occorre una sola zappatura l’anno, non occorre letame, cioè non abbisognano di bestiame e di solo pochi contadini e, quindi, nessuna fabbrica. I lavoratori della raccolta del riso si pagano con la raccolta”. Nello spazio di pochi decenni, si giunse, così, a una forte esigenza di forza lavoro, con una conseguente crescita demografica. Nelle cascine trovavano occupazione sia lavoratori fissi sia lavoratori stagionali, che si spostavano tra la tarda primavera e l’autunno. Erano occupate anche la manodopera femminile e infantile, soprattutto per il minor costo ma anche per la maggiore cura nella realizzazione di operazioni agricole che richiedevano attenzione e precisione. Una di queste era per esempio la monda, che iniziava a fine maggio e impegnava i lavoratori per trenta, quaranta giorni. Le condizioni di vita non erano sostanzialmente cambiate rispetto ai decenni precedenti. Il lavoro era molto pesante e durava sette giorni su sette; iniziava alle 4 e 30 del mattino e si concludeva un’ora prima del calar del sole, con due sole pause di mezz’ora ciascuna per riposarsi e consumare i pasti. Questi erano composti da pane di mais o di cruschello e da una minestra di riso e fagioli condita con lardo, spesso di cattiva qualità. A seguito della pressione di amministratori locali, medici, uomini di Chiesa e talvolta anche proprietari illuminati, queste faticosissime condizioni di lavoro cominciarono a migliorare leggermente a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, con interventi sulla sanità ambientale e con l’applicazione della profilassi sanitaria, favorita soprattutto dall’introduzione del chinino. Alcuni interventi furono di carattere strutturale e riguardarono il livellamento dei terreni per favorire lo scorrimento dell’acqua nelle risaie, la costruzione di abitazioni con pavimenti sopraelevati per impedire le infiltrazioni di acqua, la costruzione di nuovi pozzi per l’acqua potabile. Gradualmente aumentarono anche i salari e ai lavoratori vennero forniti un regime alimentare e un abbigliamento più idonei alle difficili condizioni ambientali della risaia. Con la legge Cantelli del 12 giugno 1866, si arrivò a prescrivere che la giornata lavorativa fosse compresa tra un’ora dopo il sorgere del sole e un’ora prima del tramonto. Tale legge fu in molti casi ignorata e nella maggior parte delle aziende risicole la vita rimaneva ancora molto dura. Una memoria del 1879, presentata alla Commissione parlamentare per la famosa inchiesta agraria di Jacini, poneva in evidenza nel territorio vercellese diffuse condizioni di miseria dei lavoratori agricoli, ai limiti della sopravvivenza. Il documento informava per esempio che tra metà aprile e metà luglio dello stesso anno erano state ricoverate nell’ospedale di Vercelli 244 persone affette da pellagra di cui 170 manovali e 68 salariati. Nel 1882 scoppiò il primo sciopero nella risaia vercellese alla frazione Vettigné di Santhià, che portò due anni più tardi alla creazione da parte della Società Generale degli operai di Vercelli a una Cassa Pensione per gli operai. Gli anni successivi fecero registrare un fervore di iniziative e movimenti che culminarono in scioperi del bracciantato in varie zone della Pianura Padana, comprese quelle risicole. Numerose furono le agitazioni delle mondariso, che portarono alla costituzione della Camera del Lavoro di Vercelli e ad accordi su salari e condizioni di lavoro migliori. Agli albori del Novecento, dopo alcuni scioperi di mondine e di altri lavoratori del riso, con conseguenti arresti e condanne di scioperanti, si cominciò a parlare della riduzione dell’orario di lavoro a otto ore. Accordi in tal senso si stabilirono nei comuni di Carisio e Tricerro, mentre nella maggior parte delle località erano ancora adottati turni di lavoro di dieci e anche dodici ore. In una manifestazione del 1906, cui parteciparono circa 12.000 persone, si chiese la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore in tutte le aziende risicole. Il governo rispose in un primo tempo con un’opposizione e cariche di gendarmeria, arrivando poi a stabilire la riduzione a nove ore massime giornaliere per i lavori di monda, con un salario di 25 centesimi all’ora. Nel 1910 divenne poi operativo un accordo, primo nel mondo del lavoro del nostro Paese, sulla riduzione dell’orario lavorativo a otto ore per tutti i lavoratori del settore del riso. Durante la Prima guerra mondiale, a seguito dell’aumento della domanda di riso, l’area coperta dal cereale crebbe significativamente, arrivando a interessare oltre il 40% della totale superficie agraria vercellese. Al termine della guerra la risicoltura andò incontro a un periodo di forte crisi a causa dell’importazione di riso a prezzi più bassi dai Paesi asiatici. Il governo fascista si impegnò a sostenere la produzione nazionale, con una serie di iniziative volte allo sviluppo della coltura. Tra i diversi interventi va in particolare ricordata l’istituzione nel 1931 dell’Ente Nazionale Risi, con l’obiettivo di promuovere la coltura a livello produttivo, industriale e commerciale. In questo quadro vennero avviati programmi di ricerca per la messa a punto di nuove varietà, poste in atto azioni di formazione e misure di sostegno economico ai risicoltori, costruiti magazzini ed essiccatoi a uso collettivo; venne altresì fissato il prezzo del riso a livello nazionale e furono concessi aiuti agli esportatori. Nonostante queste importanti iniziative, va però osservato che l’attenzione dei politici del tempo si rivolse sempre più allo sviluppo della coltura del grano, per la quale era stata messa in atto una massiccia opera di interventi nell’ambito della nota “battaglia del grano”.


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