Condimenti sontuosi, minestre cremose e profumate, sughi di carne saporiti cotti a lungo: per accogliere delle salse così dense e golose servono dei formati di pasta adeguati. Ecco le specialità tipiche del territorio campano.

Una gastronomia ricca, profondamente radicata alle tradizioni e ai tanti prodotti della terra, ma soprattutto una tavola diversificata fra le varie zone che compongono il panorama regionale. C’è la cucina napoletana, golosa e succulenta, che affonda le sue radici nel periodo greco-romano, e che alterna piatti di mare e di terra, e poi quella del Cilento, un territorio vario che va dal mare alla collina, dalle alture all’entroterra, foriero di specialità gastronomiche di qualità come i latticini e l’olio extravergine di oliva, senza dimenticare i prodotti ittici e l’ortofrutta. E poi quella delle isole, Ischia e Capri, circondate dal mare del Golfo di Napoli ma debitrici della tradizione contadina che ne ha costruito nel tempo l’identità popolare. Che si tratti di una località di mare o di terra, sulla tavola campana non manca mai un buon piatto di pasta. Prima di raccontare la storia dei diversi formati tipici della regione, però, è doveroso un accenno sulla celebre pasta di Gragnano, una delle eccellenze locali più rinomate.

La pasta di Gragnano

Una pasta di grano duro che nasce in un territorio particolare: da un lato, i Monti Lattari, catene rocciose che bloccano il passaggio dei venti da ovest verso est, dall’altro il mare, porto sicuro dove poter avviare un commercio, e nel mezzo, tramontana e scirocco, venti che si muovono fra le vie della città incanalandosi in ogni dove. Essiccata naturalmente dalle brezze, alla fine del Cinquecento la pasta nasce a Gragnano maniera spontanea, come unica conseguenza logica dei doni preziosi di una terra generosa. In principio fu via Roma la sede dei pastai, una strada che differisce da tutte le altre in città per larghezza e per il modo in cui si snoda a S, creando delle curve perfette per far convogliare il vento necessario all’essiccazione. Ancora oggi le botteghe di pasta si susseguono in palazzetti stretti costruiti in asse, molti dei quali riportano ancora le insegne di un tempo, esponendo in bella mostra questa straordinaria specialità campana a base di farina e acqua, quella del torrente Vernotico, alimentato dalla sorgente della Forma, per la precisione.

La Campania, però, vanta anche altre tipologie di prodotti, all’uovo, di semola, ripieni o di grano duro. Qui, abbiamo radunato gli 11 formati più noti, più la ricetta degli scialatielli.

Candele

Tra i più noti formati di pasta napoletani, un tempo venduta sfusa nei negozi di alimentari (come pure altri formati), le candele devono il loro nome alla caratteristica forma liscia e cilindrica che ricorda le candele utilizzate nelle processioni religiose; qualcuno le confonde con gli ziti (o zite), ma questi ultimi presentano un diametro leggermente inferiore. Da sempre si usa spezzarle a mano prima di cuocerla e servirla con vari condimenti, tra i più adatti il sugo alla genovese, una salsa densa a base di cipolla e carne, e il ragù napoletano (‘o rraù), un sugo di carne cotto a lungo nel pomodoro e derivato dalla ricetta francese del “daube de boeuf” lo stufato di carne di bue e verdure tipico della cucina provenzale del Settecento. Come nelle migliori tradizioni popolari, però, sono tanti i racconti che ruotano attorno a questa specialità che si fa risalire a molti secoli fa. Fra le storie più note, quella della Compagnia dei Bianchi di giustizia e del signore nemico di tutti, mosso a commozione dal miracolo del sugo rosso, battezzato poi “Raù” in onore del figlio.

 

candele

Cannolicchi

Utilizzati soprattutto nelle minestre, i cannolicchi sono perfetti per le zuppe di legumi proprio per la loro forma e per la dimensione, in grado di accogliere il fagiolo all’interno (in questi casi a Napoli si dice che “il ciccillo è ‘ncruvattato”). Infatti in Campania, soprattutto a Napoli, c’è da sempre una forte tradizione legata alle minestre di legumi: qui si preparano cuocendo la pasta direttamente insieme ai fagioli, in modo che l’amido venga conservato nel brodo e conferisca così maggiore cremosità al piatto. Peculiarità unica della pasta e fagioli alla napoletana, poi, è la mantecatura, lenta e meticolosa, pensata per rendere il sugo più fitto, azzeccato, in dialetto locale. Sempre per questo motivo, nasce l’abitudine di consumare la minestra il giorno dopo, una volta riposata e rappresa.

Cecatelli

Una pasta tipica della Campania e della Puglia, nata probabilmente a Lucera, in provincia di Foggia, dove viene consumata con rucola e pomodoro, e spesso preparata con varie farine come quella integrale oppure di orzo o altri cereali. Il nome deriva dal tardo latino caecula, che significa “anguilla di aspetto filiforme e trasparente”, e sta a indicare la forma allungata della pasta che ricorda, appunto, un’anguilla. Un formato che è stato un po’ dimenticato nel tempo, ultimamente riportato in auge dai cuochi del territorio più dediti alle tradizioni locali.

Conchiglioni

Sono tante le versioni delle conchiglie presenti in tutta Italia, dalle dimensioni diverse a seconda degli utilizzi. In Campania, sono i conchiglioni a fare la parte del leone, grandi conchiglie di grano duro pensate per essere farcite con ragù di carne oppure ricotta e spinaci, condite con sugo e fatte cuocere in forno. Si possono trovare, però, anche preparate fresche con salse più leggere, come mozzarella, pomodoro e basilico, soprattutto nella stagione primaverile.

 

conchiglioni

Filati

Nati per accompagnare legumi e pesce azzurro – prodotti molto promossi dalla stampa governativa nei primi decenni del Novecento – i filati sono una tipologia di pasta all’uovo che ricorda un normale spaghetto, ma leggermente più lungo e dal diametro più ampio. In origine, venivano conditi con ceci soffritti in aglio, olio e peperoncino, e poi insaporiti con un po’ di formaggio grattugiato, mentre oggi, nelle zone di maggiore diffusione come Teggiano e Padula, in provincia di Salerno, vengono impiegati come normali spaghetti e consumati con i sughi più disparati, anche se l’abbinamento con i ceci resta comunque vincente.

Fioroni

Un raviolo ripieno di pecorino e salame napoletano, simile a un grande fico fiorone (da qui il nome) tipico del Sannio beneventano: il fiorone è una delle paste ripiene più famose di questa zona, preparato tradizionalmente con farina, acqua, strutto, uova e sale. Solitamente cotti in forno, vengono preparati anche più piccoli, per essere poi fritti in olio extravergine di oliva e serviti come antipasto.

Paccheri

Paccaria in napoletano significa “schiaffeggiare”, ed è proprio da questo termine che nasce il nome pacchero, tipico formato partenopeo chiamato così per il rumore che fa durante la mantecatura, simile a quello di uno schiaffo. Detti anche schiaffoni, i paccheri vogliono un sugo liquido e cremoso, ma vengono spesso preparati anche ripieni, oppure utilizzati per i timballi di pasta al forno. Un tempo piatto dei poveri, questi grandi maccheroni erano molto in voga fra le famiglie contadine meno abbienti, che in questo modo potevano saziarsi con pochi soldi, ricorrendo a piccole quantità grazie alle grandi dimensioni della pasta. Il suffisso -ero, infatti, nei dialetti tradizionali italiani viene utilizzato come dispregiativo, e in questo caso si riferisce proprio alla popolarità del prodotto fra le classi più povere. Presenti anche nelle Marche e in Umbria come moccolotti, i paccheri sono tradizionalmente a base di semola di grano duro e acqua, anche se negli anni sono andate sempre più a diffondersi versioni fresche con l’aggiunta dell’uovo.

 

paccheri

Parmatielli

Simili a dei cavatelli di acqua e farina stretti e lunghi dalla forma ellittica, diffusi soprattutto nella provincia di Salerno, i parmatielli (o parmatieddi) sono stati per molto tempo uno dei grandi classici della Domenica delle Palme, giorno di festa in cui venivano solitamente conditi con ragù di carne, una salsa golosa e speciale utilizzata soltanto nelle grandi occasioni. Originariamente stesi con il palmo della mano (il termine parmatielli deriva probabilmente da questa caratteristica), oggi vengono preparati sulla classica spianatoia di legno, chiamata “quadro” nella zona di Teggiano, una delle località dove la tradizione della pasta fatta in casa ha avuto maggiore successo nel tempo.

Ravioli alla napoletana

La nascita della pasta ripiena in Italia si fa risalire ufficialmente al Cinquecento, soprattutto al Nord della Penisola, alle corti di Milano e Mantova, anche se alcuni prodotti, come i cappelletti, erano già diffusi in Romagna fin dal Medioevo. Le prime testimonianze scritte di una preparazione simile al raviolo, infatti, sono del 1100: nel Liber de ferculis di Giambonino da Cremona, una raccolta di circa 80 ricette arabe in appendice al Tractatus de modo preparandi et condiendi omnia cibariasi legge la descrizione del sanbusaj, un contenitore di pasta di forma triangolare ripieno di carne macinata, una sorta di primo antenato dell’attuale raviolo. La ricetta ha poi subito nei secoli diverse evoluzioni e modifiche a seconda, dando vita a una serie di varianti regionali che differiscono fra loro per sfoglia, dimensioni, forma e ripieno. L’interpretazione campana per eccellenza è quella dei ravioli alla napoletana, antica preparazione che prevede una pasta all’uovo ripiena di latticini (in genere mozzarella e ricotta) e prosciutto, ma non è l’unica. Già citati nella Cucina teorico-praticadi Ippolito Cavalcanti duca di Buonvicino del 1864, i ravioli alla napoletana erano il piatto della media borghesia, di notai, medici ma anche dei commercianti. A quel tempo la farcia era a base di carne, prodotto destinato solamente ai ceti più alti, mentre oggi è possibile trovarli anche ripieni di pesce o verdure.

Reginelle

Regine, reginelle, reginette, mafalde, mafaldine: tanti i nomi con cui vengono definite queste fettucce lunghe e dai bordi ondulati che hanno iniziato a diffondersi dapprima in Campania e poi nel resto d’Italia agli inizi del Novecento. Inizialmente chiamate “fettuccelle ricche”, vennero ribattezzate mafaldine nel 1902 in occasione della nascita della principessa Mafalda, figlia del re Vittorio Emanuele III. Insieme ai cannolicchi, sono uno dei formati più popolari per la pasta con i legumi, ma vengono spesso anche servite con sugo di ricotta o altri condimenti locali.

 

reginelle

Scialatielli

Particolarmente diffusi nella Costiera Amalfitana, gli scialatielli devono il loro nome ai termini dialettali scialarsi (divertirsi, godere) e tiella (padella). Si tratta di striscioline di sezione rettangolare, più corte e larghe degli spaghetti classici, fatte con farina, acqua o latte, sale e formaggio grattugiato. La leggenda fa risalire l’origine di questa pasta al 1978, per opera dello chef Enrico Cosentino, che preparò questi spaghettoni in occasione di un concorso culinario. Ad Amalfi si mangiano con gamberi, vongole veraci, tartufi, cozze, seppioline, pomodorini del piennolo, olive verdi, prezzemolo, aglio e capperi, ma nel resto del territorio non è raro trovarli conditi con un semplice sugo di pomodoro e basilico, spesso arricchito con la ricotta. Due i procedimenti principali per realizzarli: si prepara una grande tagliatella, che viene poi arrotolata attorno all’apposito ferretto e strofinata sulla spianatoia, oppure si stacca un pezzo di impasto da tirare direttamente sul ferretto.

 

scialatielli

La ricetta: scialatielli

500 g. di semola di grano duro

250 g. di acqua

Versare la semola in una ciotola piuttosto capiente e unirvi l’acqua a poco a poco, iniziando a mescolare con le mani o con l’aiuto di una forchetta. La quantità di acqua necessaria può variare secondo il tipo di semola, dunque si consiglia di non versare tutta l’acqua subito e lavorare bene e a lungo il composto (più si fatica in lavorazione e più la pasta che si ottiene avrà dente!). In ogni caso, l’impasto che si deve ottenere è piuttosto sodo. Far riposare in frigorifero per circa un’oretta.

a cura di Michela Becchi

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