Riferirsi continuamente al passato della persona trans è un altro errore molto comune nei media. Consiste nelle narrative o nelle immagini che direttamente o indirettamente mettono in dubbio l’autenticità della persona trans. Generalmente viene compiuta questa operazione attraverso il riduzionismo biologico (anche detto essenzialismo biologico o determinismo biologico), ovvero il pensare che la combinazione di cromosomi, ormoni, gonadi e caratteri sessuali (primari e secondari) debba necessariamente essere allineata con l’identità di genere (la nostra autopercezione di chi siamo).
Sulla base di questa epistemologia (come sappiamo cosa è reale) riduzionista, che decide arbitrariamente che solo il corpo è reale e che viene smentita da anni di ricerca psicologica, neurologica, antropologica e sociologica (anche se non si vede l’identità, si vedono le conseguenze in termini di malessere psico-fisico del sopprimerla) si giustifica la discriminazione e l’oppressione quotidiana e pervasiva delle persone trans (in famiglia, al lavoro, nelle amicizie, nelle relazioni, nell’amministrazione, nello sport etc.). Dal ridurre la persona trans al suo corpo a dare risalto solo al passato il passo è breve.
Rinforzare questa prospettiva riduttiva attraverso la copertura mediatica distorce e contribuisce all’oppressione delle persone trans: non è né oggettivo, né neutro.
Di seguito le principali rappresentazioni problematiche legate alla strumentalizzazione del passato e al riduzionismo biologico nei media:
Sentirsi donna/uomo/trans/non binary
Sentirsi equivale ad essere nel caso dell’identità di genere. Se costringiamo una donna cisgender a vestirsi e comportarsi “da uomo” (qualunque cosa significhi) per anni, rimarrà comunque donna perché la sua identità di genere è donna cisgender. Anche le persone cisgender hanno un’identità di genere che “si sentono”. La loro identità di genere non viene però invalidata sui media dicendo che “si sentono” uomo/donna/intersex/non binary ma viene piuttosto data per scontata scrivendola senza premesse.
La buona pratica quindi consiste nel dare per scontato che l’identità di genere della persona trans sia valida ed evitare termini come “si sente” e “si sentiva”.
Nat* maschio/femmina/intersex
Nat* uomo/donna
Uomo/donna biologic*
Vale il discorso precedente sul riduzionismo biologico. Qualunque sia la combinazione di ormoni, genitali, organi riproduttivi, cromosomi che ci è capitata per caso, non definisce da sola chi siamo. Se ipoteticamente venissimo cresciut* dai lupi o dalle scimmie non sapremmo nemmeno di essere maschi, femmine o intersex. L’identità di genere esiste, è valida e non si riduce alla biologia. Per cui fare riferimento alla nascita o al passato, non ha alcun senso ai fini della comprensione del fatto che stiamo raccontando se non quello di invalidare l’autenticità della persona trans stessa.
La buona pratica vuole che si eviti “nat* maschio/femmina/intersex” e a maggior ragione “nat* uomo/donna” (dal momento che al massimo si nasce maschio, femmina, intersex, uomo/donna sono identità di genere se stiamo parlando di come la persona si autopercepisce o ruoli di genere se ci stiamo riferendo ai ruoli che una cultura impone).
Deadnaming
Usare il nome assegnato alla nascita nell’articolo. È un atto grave di invalidazione della persona. Fornendo il nome alla nascita (o rifiutandosi di usare il nome di elezione) si strumentalizza il passato della persona per invalidarne l’autopercezione, il percorso di crescita e autodeterminazione, riducendola a quell’atto di violenza che sta alla base di tutti i problemi delle persone trans: l’assegnazione anagrafica errata.
Il fatto che per la legge italiana il cambiare nome non sia un diritto della persona (viene concesso solo a discrezione della Prefettura e per tre mesi dopo la concessione, chiunque può opporvisi) serve solo a rafforzare questa idea che il nome sia qualcosa di immutabile. Non lo è. Appellare una persona trans con il nome assegnato alla nascita non ha niente a che vedere con l’essere oggettivi. L’unico modo di riportare in modo oggettivo quando si parla di una persona è ascoltare come parla di sé senza sovradeterminarla.
Non reggono nemmeno in campo criminologico le presunte “ragioni di sicurezza”, basta confrontare i dati con stati esteri nei quali si può cambiare nome facilmente almeno la prima volta e non si riscontra nessuna correlazione tra atti criminali e l’aver cambiato nome.
Spesso, infine, sui media si manca di rispetto alle persone trans decedute o assassinate usando il loro nome alla nascita nell’articolo. Si offende così anche la memoria di chi le ha conosciute, rispettate ed è stato loro vicino in vita.
Buona pratica è quindi quella di informarsi sul nome con il quale si faceva chiamare abitualmente la persona trans e usare solo quello in tutto l’articolo. Se questo non fosse possibile, meglio usare solo il cognome per intero (usando l’iniziale puntata del nome o omettendolo del tutto) e naturalmente usando le desinenze preferite.
Illustrazione di documenti o foto prima/dopo transizione medica oppure video delle transizioni ormonali
Consistono nel comparare, spesso commentandole, le foto della persona prima e dopo l’eventuale transizione sociale/chirurgica o dei video durante la transizione ormonale. Le implicazioni di questa rappresentazione sono molte e diverse tra loro.
Un primo distinguo va fatto tra le fonti del materiale. Se a fornire il materiale è la persona stessa spontaneamente (perché è soddisfatta dal risultato degli eventuali interventi chirurgici, perché non le interessa nascondere il passato, perché data la mancanza di rappresentazione delle persone trans vuole fornire una testimonianza per chi farà lo stesso percorso etc.) o se la persona acconsente all’uso del materiale vengono meno i problemi etici di consenso e inerenti alla privacy. Ci sono grossi problemi invece se si vanno a ricercare questo tipo di materiali sui social o facendoseli fornire da conoscenti, amici, parenti senza avere l’esplicito consenso a pubblicarle della persona stessa.
A prescindere però dal consenso, esiste un problema politico a pubblicare foto prima/dopo o i video durante: questo tipo di materiale conferma le premesse transfobiche, ciscentriche, medicalizzanti e in Italia anche binarie che postulano che spetti alla persona trans dimostrare che è veramente tale sottoponendosi necessariamente a trattamento ormonale e chirurgie fino ad appararire sufficientemente convincente ad uno sguardo cis e senza che possa venire creduta a prescindere dal suo aspetto.
Lo sguardo cis (cis gaze), tende ad inquadrare e attribuire un valore alle persone trans attraverso una lente di credibilità che si basa su quanto il loro aspetto e il loro comportamento sia aderente agli stereotipi riferibili a uomo e donna in quella specifica cultura.
Troviamo lo sguardo cis alla base di articoli o interviste nei quali, oltre a commentare il passing (quanto o quanto poco una persona trans sembri cis) della persona trans, l’unico argomento affrontato è quello della transizione con domande morbose sui dettagli delle chirurgie. Questo tipo di rappresentazione, come dice anche Ray Pilar nel link sopra “spettacolarizza il corpo deprivandolo della agency” (il libero agire).
Lo sguardo cis si sposa perfettamente con la narrativa medicalizzante che si oppone all’autodeterminazione della persona trans, reifica i professionisti come unici esperti, impone protocolli rigidi e si frappone con il “gatekeeping” (gli ostacoli economici, amministrativi e legali) tra la persona trans e il godimento dei suoi diritti umani.
È più che comprensibile la gioia di fronte ad un aspetto che, dopo tutti gli ostacoli, sia finalmente in linea o si stia allineando con la propria identità, ma tra l’espressione di questa gioia e la sua spettacolarizzazione c’è un abisso.
La buona pratica prevede che questo tipo di materiale possa essere pubblicato solo se è stato fornito spontaneamente dalla persona trans senza essere stato richiesto e possibilmente specificando che non tutte le persone trans si sottopongono a chirurgia/ormoni . In qualsiasi altro caso è deleterio usarlo.