Storie

di Davide Vairani

Priorità è tornare a fare figli

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L’Istat certifica inesorabilmente il lungo e strutturale declino demografico italiano. Nel 2015 sono stati iscritti all’anagrafe per nascita 485.780 bambini, quasi 17mila in meno rispetto al 2014, a conferma della tendenza alla diminuzione della natalità (-91mila nati sul 2008). E nei primi sei mesi del 2016 il trend continua inesorabile il volo in picchiata verso il basso: i nuovi nati sono diminuiti del 6%. Il triplo rispetto a un anno fa. Denatalità che ormai risulta sempre più trasversale: italiani e immigrati. I nati da coppie di genitori entrambi italiani scendono a 385.014 nel 2015 (oltre 95 mila in meno negli ultimi sette anni). Ma per il secondo anno consecutivo scende anche il numero di nati da coppie residenti in Italia con almeno un genitore straniero: sono quasi 101 mila nel 2015, pari al 20,7% del totale dei nati a livello medio nazionale (circa il 29% nel Nord e l’8% nel Mezzogiorno). Così come continua anche il calo dei nati da genitori entrambi stranieri: nel 2015 scendono a 72.096 (quasi 3 mila in meno rispetto al 2014). In leggera flessione anche la loro quota sul totale delle nascite (pari al 14,8%). Considerando la cittadinanza delle madri straniere, al primo posto per numero di figli iscritti in anagrafe si confermano le donne rumene (19.123 nati nel 2015), seguite da marocchine (11.888), albanesi (9.257) e cinesi (4.070). Queste quattro comunità raccolgono il 47,0% delle nascite da madri straniere residenti in Italia. La flessione dei nati è in parte effetto del forte calo della nuzialità registrato nello stesso periodo (circa 52mila nozze in meno tra il 2008 e il 2015). I nati all’interno del matrimonio continuano a diminuire sensibilmente, nel 2015 sono 346.169 (quasi -120mila in soli 7 anni). I nati da genitori non coniugati (quasi 140mila nel 2015) sono, invece, sempre in crescita. Rappresentano il 28,7% del totale delle nascite superando il 31% al Centro-Nord. La tendenza alla forte diminuzione delle nascite avviatasi a partire dal 2009 interessa tutte le aree del Paese: è marcata anche nelle regioni del Nord e del Centro che avevano sperimentato negli anni precedenti una fase di moderata ripresa della natalità e della fecondità. L’Istat rileva poi che circa l’8,3% dei nati in Italia nel 2015 ha una madre di almeno 40 anni mentre nel 10,3% dei casi la madre ha meno di 25 anni. Considerando le sole donne italiane la posticipazione della maternità è ancora più accentuata: il 9,3% ha almeno 40 anni e solo l’8,2% meno di 25 anni. Il dato nazionale nasconde significative differenze territoriali. Il calendario delle nascite è tradizionalmente anticipato nel Mezzogiorno: le madri italiane under 25 sono l’11,1% al Sud e il 13,4% nelle Isole, quelle con almeno 40 anni sono rispettivamente il 7,0 e il 7,6%. Al contrario, in Liguria, Toscana e Lazio (oltre che in Sardegna) la percentuale di nati da madri ultraquarantenni raggiunge il 12%. Le nascite da madri minorenni sono 1.739 oltre un terzo in meno rispetto al 1995 (3.142 unità). Considerando solo le madri italiane, i nati sono 1.411 (circa lo 0,3% dei nati nel 2015). Evidenti le differenze territoriali. Al Centro-Nord le nascite da madri italiane minorenni sono in media lo 0,1% del totale di ripartizione, mentre nel Mezzogiorno si attestano intorno allo 0,6%.

Il professor Gian Carlo Blangiardo, dell’Università di Milano Bicocca commenta così: “Il dato è impressionante. Ma ciò che lo rende del tutto anomalo è il fatto che per trovare un’analoga impennata della mortalità, con ordini di grandezza comparabili, si deve tornare indietro sino al 1943 e, prima ancora, occorre risalire agli anni tra il 1915 e il 1918: due periodi della nostra storia segnati dalle guerre che largamente spiegano dinamiche di questo tipo. Viceversa, in un’epoca come quella attuale, in condizioni di pace e con uno stato di benessere che, nonostante tutto, è da ritenersi ancora ampio e generalizzato, come si giustifica un rialzo della mortalità di queste dimensioni?”.

Ci salva la ripresa economica tanto declamata dal Governo? Tutt’altro. È sempre l’Istat che lo certifica. I giudizi dei consumatori riguardo la situazione economica del Paese scendono lievemente (il saldo passa da -52 a -53) così come le aspettative il cui saldo si attesta sul valore più basso registrato da marzo 2014 (il saldo passa da -19 a -20). Le opinioni sull’andamento dei prezzi al consumo, espresse su un arco temporale di 12 mesi (giudizi sui 12 mesi passati e aspettative per i prossimi 12 mesi), sono orientate alla diminuzione: per i giudizi, il saldo passa da -30 a -34 e per le aspettative da -25 a -28. Infine, diminuiscono le aspettative sulla disoccupazione: il saldo raggiunge il valore più basso dallo scorso giugno (da 31 a 28). Con riferimento alle imprese, nel mese di novembre si registra un peggioramento della fiducia diffuso in tutti i comparti tranne nel commercio: nella manifattura l’indice passa da 102,9 a 102,0, nei servizi di mercato da 106,6 a 105,2, nelle costruzioni da 125,8 a 124,2; nel commercio al dettaglio l’indice sale da 101,6 a 106,5.

Per quanto riguarda le componenti dei climi di fiducia, nel comparto manifatturiero peggiorano i giudizi sugli ordini (il saldo passa da -11 a -14) mentre aumentano le attese sulla produzione (da 9 a 10). Il saldo dei giudizi sulle scorte rimane stabile. Nel settore delle costruzioni, migliorano i giudizi sugli ordini (da -27 a -25) mentre si segnala un diffuso peggioramento delle aspettative sull’occupazione (da -7 a -11 il saldo).

Nei servizi, si deteriorano i giudizi sul livello degli ordini (da 8 a 6 il saldo) e le attese sull’andamento generale dell’economia (da 5 a 3); il saldo delle attese sugli ordini rimane stabile a quota 5. Nel commercio al dettaglio migliorano sia i giudizi sulle vendite correnti (il saldo passa da -1 a 7) sia le attese sulle vendite future (da 23 a 29); il saldo dei giudizi sulle scorte di magazzino diminuisce da 10 a 9.

Quanto ancora dovremo attendere prima che la politica decida di assumere quale priorità del Paese l’investimento sul futuro, cioè sulle famiglie e sui figli?

Lo ripetiamo fino alla noia: senza una riforma strutturale del welfare, l’Italia è destinata a non riprendersi più. Non è vero, infatti, che l’Italia abbia un’elevata spesa sociale. Infatti la spesa sociale in Italia raggiunge il 29,9% del PIL (con 7.017 € pro-capite annui), mentre nei 27 paesi dell’Unione europea ammonta mediamente al 29,4% del PIL (pari a 6.907 € pro-capite all’anno).Quindi, la spesa italiana si colloca esattamente nella media europea. Quello che cambia molto tra i vari paesi europei è come viene suddivisa la spesa tra i vari settori del sociale. Vero è che il welfare italiano si caratterizza per un’elevata spesa pensionistica (51,4% rispetto alla spesa pubblica totale), che corrisponde al 15% del PIL (media europea dell’11%). Bassa risulta invece la spesa sociale a favore delle famiglie italiane: appena 331€ pro-capite (1,3% del PIL), a fronte di una media europea di 553 € (2,3% del PIL). Il sistema di welfare state italiano - che offre protezioni e risorse diverse non a seconda del bisogno, ma a seconda della categoria cui si appartiene - risulta inoltre poco equo. In Europa l’Italia si posiziona appena al 23° posto rispetto all’equità sociale, mentre primi in classifica sono i paesi nordici, che prevedono prestazioni universali, a prescindere dalla categoria di appartenenza, e molti servizi ai cittadini.

Vogliamo parlare del PIL? Il Prodotto Interno Lordo è in sostanza il totale della ricchezza che un certo Paese è in grado di produrre nell’arco temporale di un anno. Si tratta della somma totale dei beni e dei servizi che si producono per essere consumati all’interno di uno Stato. Bene. Il confronto Italia-UE è impietoso. Mentre nei grandi Paesi europei il ritmo di crescita è stato inarrestabile, in Italia la ricchezza stenta a riprendersi. In tutta l’area euro il Pil è cresciuto dell’1,6% nel secondo trimestre di quest’anno rispetto al corrispondente periodo del 2015 (considerando anche il persistente calo della Grecia) e dello 0,3% rispetto al trimestre precedente e, se considerando il dato anno su anno indica che la crescita è stata determinata dalla domanda interna, spinta in particolare dall’accelerazione degli investimenti e dei consumi pubblici, nonché dal nuovo aumento della spesa delle famiglie, a livello congiunturale, ovvero tra il secondo e il primo trimestre 2016, il Pil ha giovato molto di più dalla crescita delle esportazioni, +1,1% decisamente superiore di quella delle importazioni, +0,4% In Italia, invece, il Pil è cresciuto a livello tendenziale (anno su anno) dello 0,8%, cioè esattamente della metà rispetto al resto dei Paesi dell’Eurozona, e di 0, sì, esattamente zero nel secondo trimestre rispetto a quello precedente, a fronte di un +0,3% dell’eurozona. Ma ciò che è interessante notare è che, per quanto riguarda l’Europa, nel secondo trimestre del 2016 è stata la spesa pubblica e gli investimenti a fare da zavorra, crescendo meno degli altri fattori, al contrario di quanto accaduto a fine 2015.

Insomma, è inutile provare a girare e rigirare la frittata con slogan ad effetto: i numeri parlano chiaro. Il problema con priorità assoluta non più rinviabile per l’agenda politica italiana si chiama: tornare a fare figli e investire sul futuro.

Qualcuno avrà il coraggio di salvare l’Italia anche a rischio dell’impopolarità?

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29/11/2016
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