Sergio Bonelli è senza dubbio il nome più importante nel panorama fumettistico nostrano. Il suo nome – il suo cognome, in realtà – è ormai diventato sinonimo stesso di fumetto. Basta vedere l’aura di rispetto, quasi di devozione, che lo circonda quando arriva nelle varie fiere del fumetto, per rendersi conto di quanto davvero significhi il suo lavoro per i lettori di casa nostra. Probabilmente non c’è uno solo, dei sessanta milioni di italiani, che non abbia letto almeno una volta un albo pubblicato dalla sua casa editrice. Ma fino a qualche anno fa, Sergio Bonelli era anche uno sceneggiatore, non solo un editore. Con lo pseudonimo di Guido Nolitta è stato sceneggiatore di fumetti avventurosi, creatore di Zagor e Mister No. Con lui parliamo della sua esperienza come sceneggiatore e del suo lavoro di editore.

Lei è figlio di un grande autore di fumetti. Quanto è stata importante la figura di suo padre nel farla appassionare a questo mondo?
Fondamentale, perché quand’ero ragazzino vedevo arrivare in casa tutti i fumetti per i quali lavorava: “Rin Tin-Tin”, “il Vittorioso”… E poi le mie prime letture erano anche le sue: la letteratura popolare dell’epoca, la famosa libreria Sonzogno, che ospitava Conrad, London… e Zane Grey soprattutto. E quindi anche quello mi ha condizionato, spingendomi verso il mondo del sogno e dell’avventura. Poi, essendo lui appassionato di cinema, mi portava con sé, e le scelte per mia fortuna erano sempre film avventurosi, dinamici. Sono stato indirizzato in quel senso, a questo mondo sognato che poi per tutta la vita mi ha inseguito. Ancora oggi, pur avendo tanti altri interessi, non trascuro mai il lato dell’avventura.

E quand’è che ha deciso di provare a scrivere?
L’ho deciso piuttosto tardi, quando ormai mi occupavo da almeno 5-6 anni della casa editrice. Prima non l’avrei mai neanche sospettato, perché mi piaceva molto il ruolo della direzione di una mini-azienda. Mi sono allenato in un primo tempo traducendo, con l’illusione di chi parlicchia spagnolo perché andava in vacanza in Spagna, le storie di Oesterheld e di Pratt, modificandole, adattandole al ritmo narrativo nostrano. Quello di mettersi a scrivere è stata un po’ una curiosità, motivata dal voler capire quanto fosse difficile: io leggevo i soggetti di mio padre, della Vezzolo, di D’Antonio… e mi chiedevo quanta fatica c’era dietro quel lavoro. Era pura curiosità, tant’è vero – e io lo ricordo sempre – che in molti casi cominciavo, magari facevo i primi numeri e poi lasciavo stare, perché facevo fatica, mi sembrava di non esser capace. Spesso mio padre interveniva e portava avanti lui le cose.

Come mai ha deciso di usare uno pseudonimo?
Per il rispetto che dovevo a mio padre. Lui era un uomo che per tutta la vita ha fatto delle cose molto importanti, era bravissimo, e usare il nome Bonelli poteva creare confusione: non volevo che lui, che da trent’anni aveva lasciato una traccia nell’editoria a fumetti, venisse scambiato per me, che invece stavo cominciando. Mi è sembrata la cosa più giusta da fare, e continuo a pensare che sia stato giusto così.

E il nome Guido Nolitta, com’è nato?
Delle volte sono convinto di averlo scelto per caso, aprendo le pagine di un libro e puntando il dito ad occhi chiusi; altre volte racconto – ma non sono mai sicuro – che fosse un soprannome datomi da uno zio materno, uno di quei nomignoli che non hanno nessuna attinenza con la realtà, che non hanno una vera ragione d’essere.

Lei ha sempre caratterizzato le sue storie con una forte componente comica. Secondo lei quanto è importante bilanciare l’avventura “pura” con l’ironia?
Secondo me non è importante: l’avventura ne può fare a meno, può essere esclusivamente avventurosa, a patto che la persona che scrive ne sia convinta e lo sappia fare. Mio padre non aveva dubbi: lui era un ammiratore del coraggio, dell’Eroe, quindi le sue storie erano decisamente avventurose. Io all’Eroe ci credo un po’ meno, mi piaceva far vedere che anche in una situazione eroica ci può stare il momento comico. Anche se all’epoca andavo a vedere film d’avventura, mi piacevano anche quelli comici. Era proprio la mia natura, quella di non prendersi troppo sul serio. Il segreto di mio padre era che lui scriveva delle storie di cui avrebbe voluto essere il protagonista, mentre a me piaceva stemperare la situazione mettendoci dentro riferimenti legati al mondo del cinema che amavo: Gianni e Pinotto, Stanlio e Ollio, persino un po’ di cartoni animati…
Questo era un problema, perché quando mio padre accettava di darmi una mano, era imbarazzato dalla presenza di questi personaggi, che a lui davano un po’ fastidio. Lui era un uomo spiritoso, ma quando scriveva voleva che l’Eroe fosse serio, anche se qualche quadretto comico l’ha scritto. Quando c’erano i miei personaggi comici da muovere, lui faceva in modo – ad esempio – che Cico finisse in prigione, o all’ospedale. Era infastidito dalla presenza di questi personaggi, cui io invece dedicavo 3-4 pagine. In molti casi, rileggendoli, capisco che ho esagerato, ho privilegiato il lato comico. E’ difficile miscelarli bene.

Recentemente ho riletto la ristampa delle avventure del giudice Bean, che erano spiccatamente comiche…
Lì ho fatto un’opera di tradimento ai danni del giudice Bean, di cui io ero e sono tuttora uno studioso, perché è un personaggio tragico. Adesso penso che avrei dovuto farlo ugualmente, perché mi ero divertito anche se ingenuamente mettevo troppe parole, ma mi rimprovero di averlo chiamato giudice Bean. Ho tradito la realtà storica, e si poteva benissimo farne a meno.

Ma nei fumetti si ritrovano sempre degli elementi reali, come nel caso di Tex che incontra personaggi realmente esistiti…
Però in questo bisogna essere molto capaci. Penso che gli incontri di Tex con i personaggi reali siano molto difficili: in genere non sono mai tra i meglio riusciti, chiunque li abbia scritti. La realtà storica mette dei bavagli. Uno veramente bravissimo a fare quest’opera di miscela, di alchimia, tra realtà e fantasia era D’Antonio, il più grande autore completo d’Europa. Ne “La storia del West” riusciva a darti la vicenda inventata, che aveva una sua credibilità, senza turbare la realtà storica. Secondo me è un artificio difficile da usare, ed è possibile solo se il personaggio inventato non è molto forte: i personaggi di D’Antonio sono molto più umani di Tex, che se vogliamo è un Superuomo, e quindi possono essere inseriti in un contesto senza doverne per forza essere i protagonisti. Tex è quello che deve per forza arrestare tutti lui, i personaggi di D’Antonio potevano essere solo dei testimoni dell’arresto. Il problema è proprio la misura delle due proposte: quella realistica e quella storica.

E a proposito di Storia, Paolo Piffarerio ci ha raccontato che lei non ama molto “trine e merletti”…
Mio padre amava molto le storie di “cappa e spada”, e amava anche tutti quei romanzoni medievali, tipo Re Artù. Io invece, non sopporto proprio quelli che hanno tutti i vestitini coi pizzi: mi annoiano, non mi piace nemmeno vederli al cinema, è anche un fatto estetico. Ognuno ha le sue passioni, io sono molto appassionato dal periodo delle guerre coloniali: anche al cinema preferisco vedere quel tipo di storie. Già i pirati non mi entusiasmano, per non parlare dei Moschettieri…

Lei ha creato Zagor nel 1961. Si ricorda l’ispirazione che l’ha portata a creare questo personaggio?
L’occasione è venuta perché si è presentato Gallieno Ferri, che allora in Italia nessuno conosceva. A quell’epoca non avevamo scrittori liberi, ma non volevo lasciarmi scappare questo bravo disegnatore, che tra l’altro aveva pubblicato in Francia. Così ho provato a fare io un personaggio. In quegli anni certi personaggi, tipo Capitan Miki e il Grande Blek, vendevano molto più di Tex a striscia. Questo perché Tex era una lettura piuttosto seriosa, che non si rivolgeva ai ragazzini ma a persone più adulte. Dato che erano soprattutto i ragazzini che leggevano fumetti, ho voluto provare a fare un’alchimia di storie meno impegnative, più fantasiose e non legate al mondo del west classico. Ho inserito tutte le mie cose preferite: un tarzanide, una specie di Uomo Mascherato un po’ misterioso. Gli ho dato un contesto ambientale strano, una foresta misteriosa che non si sa se è grande come il Parco Sempione o come tutta l’Amazzonia. Facendo così hai bisogno della massima collaborazione dei lettori, perché devono credere a tutto. Poi, pur non essendo un appassionato di supereroi, ero affascinato dalle loro divise, le trovavo un elemento importante di riconoscimento, e allora ho messo anche quello. E nei primi tempi gli ho attribuito delle capacità sensoriali: lui avvertiva il pericolo, aveva delle premonizioni… ma quello, un po’ per volta, l’abbiamo fatto sparire.

Nella creazione di Mister No, invece, quanta importanza ha avuto la sua esperienza in Amazzonia?
Mi ha suggerito molte cose. La prima ideuzza l’ho avuta nell’incontro con un giovane pilota in Messico, alla fine degli anni ’60. Ero a Palenque e volevo visitare l’unico tempio Maya che ha delle decorazioni dipinte, ma era difficile da raggiungere. Mi hanno suggerito di andarci con l’aeroplano di uno che faceva un servizio tra le fattorie, portando galline e maiali. Era un ragazzo giovane, vestito come un nostro paracadutista – anche un bel tipo, fisicamente – e con la rivoltella appesa alla cintura. Col suo aeroplanino da quattro soldi siamo andati, con un atterraggio non facile vicino a questo tempio di Guadanpaq, in un posto dove aveva degli amici indios che giravano a mano l’aereo per poi decollare di nuovo. Per me, che coraggioso non sono, è stata una cosa abbastanza particolare.
Questa situazione non era una grande idea, però ho capito che il pretesto dell’aereo, che ti permette di spostarti in un contesto anche piccolo, poteva servire a causare delle situazioni avventurose. Quando poi sono andato in Amazzonia ho capito che quello era l’ambiente ideale: mi sono auto-convinto che, dopo tanto west, quel pezzo del mondo avrebbe voluto dire molte cose. L’Amazzonia degli anni ’50 era tosta: c’erano ancora gli indios che ti tiravano le frecce… poi le malattie erano più gravi perché non c’erano le medicine, era più difficile spostarsi: un viaggio con un motorino da cinque cavalli, nel 1945 prendeva ancora giorni e giorni… Quindi ho pensato di prendere quel pilota messicano, l’ho spostato in Amazzonia e ne ho fatto un personaggio da un lato più allegro, come in fondo allora ero io, però uno che fosse anche un po’ perdente. Ma il progetto è rimasto nel cassetto per due-tre anni, perché in realtà non ero così convinto ed ero preso dalla casa editrice. Oggi si direbbe che ho fatto una miniserie, ma ho solo provato a mandarli fuori d’estate. Allora c’era molta differenza di vendita nei mesi estivi, perché alla pensione Miramare di Rimini, alla sera, avevi un unico canale e tutti leggevano i libri gialli, “Urania” e i fumetti. Allora ho deciso di far uscire i 5 albi che avevo pronti, per coprire l’estate e basta, perché non avevo più voglia. Come vedi, nelle cose mie c’è molta casualità, non c’è sempre un piano preordinato.

Lei è una persona che ha viaggiato molto, al contrario di suo padre, che il West l’ha visto solo molto tardi. Quanto è importante, secondo lei, l’esperienza personale nella creazione di storie d’avventura?
Mio padre ha visto il west solo una volta, quando aveva già 70 anni. Lui non amava tantissimo i viaggi, e certe cose le devi fare da giovane, altrimenti ti passa la voglia. Io quando ho viaggiato, non l’ho fatto certo per andare a controllare com’era la realtà: viaggiavo perché stavo bene con i miei amici e perché avevo delle curiosità personali. Poi, man mano che giravo, trovavo delle perle sul posto: magari in Amazzonia trovavo un libretto fatto dai missionari di Manaòs che non si trovava da nessun’altra parte del mondo. Però non credo che, essendoci stato, io scriva delle cose più interessanti di uno che ha solo letto qualcosa su “Panorama”. Mi ha aiutato, perché sai che effetto fa scendere da una rapida, e questo ti aiuta a descriverlo quando fai la sequenza, ma questo non vuol dire che al lettore la cosa interessi…

Adesso parliamo un po’ dell’editore, del presente e del recente passato della casa editrice. Io sono rimasto abbastanza stupito, qualche anno fa, quando dopo anni che non venivano lanciate serie nuove, ne sono uscite quattro o cinque quasi contemporaneamente…
Capisco che possa lasciare sorpresi, perché noi eravamo caratterizzati dall’attenzione e dalla calma con cui facevamo le cose: non siamo mai stati capaci di improvvisare una serie sull’onda di una moda. Il mio amico Renzo Barbieri, tanto per citare, era un genio dell’istant-book: come appariva una moda, lui la realizzava immediatamente. Al contrario noi, proprio perché siamo pignoli, rompiscatole, prima di metter fuori qualcosa ci prendevamo molto tempo. Il fatto che quelle serie siano uscite assieme è abbastanza casuale, perché le abbiamo studiate per anni.
Comunque, man mano che veniva a chiederci lavoro gente capace, ci veniva voglia di non lasciarli andar via, e quindi di aumentare la produzione. Da un lato eravamo spinti da questo, dall’altro dipende dal fatto che oggi è più difficile capire cosa vuole la gente. I grandi successi sono ciclici, non vengono sempre. I grandi successi violenti sono “Miki”, “Blek”, “Tex”, “Diabolik”, “Dylan Dog”, “Nathan Never”… Però il grande successo arriva difficilmente, e non sempre il pubblico ti dà dei segnali per capire cosa vuole. Il mondo dei fumetti, per fortuna, non è come quello dei dentifrici, dei saponi, delle auto… il mondo dei fumetti è misterioso, è fatto di gente che non accetta pressioni pubblicitarie violente, per cui l’unico modo per sapere cosa vuole il pubblico è quello di captarlo, se hai fortuna, frequentando il mondo dei tuoi potenziali lettori. Quindi noi dovevamo provare tanti ambienti diversi: ho affrontato anche tematiche che personalmente non condividevo, io che non amavo i gialli ho dato retta a chi mi ha detto di provare a farli. In fondo, per quanto uno personalizzi il proprio lavoro, non puoi dire “faccio solamente quello che piace a me”, e allora ti fidi dei collaboratori.
Negli ultimi cinque anni abbiamo fatto tante cose, ma tutte rappresentano dei tentativi per capire qual è la direzione nella quale muoversi, e l’unico modo è quello di rischiare, e rischiare vuol dire anche andare incontro a delle delusioni, a dei fiaschi. L’importante è che non siano degli insuccessi che ti rovinano, ma in questo siamo sempre stati molto cauti: non siamo gente che rischia più di tanto, ma certi rischi di argomento ce li siamo presi. Questi tentativi spesso si sono ridimensionati a modesti successi, che campano… altri invece sono stati dei tonfi più pesanti, che però vengono sostenuti perché hanno la loro logica in un contesto generale, dove se un giornale va male l’altro va bene e si compensano, e tu tieni vivo un mondo di persone che lavorano.

A proposito di cose che non sono andate benissimo, ricordo che quando è uscito Dylan Dog voi venivate dagli insuccessi di “Full” e “Bella & Bronco”…
“Bella & Bronco” è stato davvero un insuccesso, che ci ha sorpresi perché era fatta benissimo. Però non me la sono presa più di tanto, perché ho capito che avevamo tradito un regola: col western, in Italia, non si scherza. Ci puoi mettere dentro la spalla, se la misuri, ma quella era una proposta piuttosto rivoluzionaria: D’Antonio si era illuso di poter fare una parodia spiritosa e il pubblico ha dato una risposta così negativa che abbiamo capito di averlo quasi offeso. E’ stata una cantonata totale. Con “Full” ci sono stati anche dei problemi di collaborazione: ad un certo momento sono mancati anche degli autori che avevano promesso di esserci, e abbiamo dovuto tappare le falle mettendo lì i nostri autori. Quello è stato un momento davvero difficile, ma anche adesso ne abbiamo, di cose che non vanno bene.

Voi avete pubblicato anche “Orient Express”, anche se l’avete presa quando già esisteva…
Quello è stato un altro tentativo: le riviste antologiche sono state un fenomeno soprattutto francese, che si pensava potesse funzionare anche in Italia. Poi noi, accusati di fare fumetto di bassa qualità, volevamo provare a suggerire un fumetto più colto, sofisticato. “Orient Express” era già nato altrove, ed era una fucina di nuovi talenti davvero interessante. Poi c’è stato persino “Pilot”, che era una cosa ancora più strana, diretta da Tiziano Sclavi, con concetti anche grafici piuttosto curiosi… E’ stato un momento in cui, pur difendendo il nostro lato popolare, abbiamo cercato di fare qualcosa d’altro, ma probabilmente il pubblico interessato era troppo poco, e poi non è detto che volendo fare un fumetto colto tu ci riesca: magari lo fai noioso. Ma questo ti fa capire questo lato di curiosità, che per fortuna la casa editrice può confessare di essersi concessa: si gioca un po’, si prova…

Ma secondo lei come mai non ci sono più riviste antologiche?
Non è così facile fare un’analisi… Probabilmente i lettori di fumetti non erano così ansiosi di grandi exploit culturali, magari se uno ha proprio ansia di cultura la trova di più in libreria, o a teatro. Il lettore del fumetto vuole anche divertirsi, per cui magari quelle storie che volevano essere colte erano soltanto noiose. All’epoca, poi, si dedicavano a questo tipo di fumetto dei grandi talenti che magari oggi non ci sono più: oggi non ci sono più quelle punte che c’erano vent’anni fa, che andavano da Moebius a Hugo Pratt… Può darsi che gli autori di oggi non siano in grado di continuare il loro lavoro. Noi ci illudiamo, ci sforziamo, di realizzare l’incontro tra il fumetto colto e quello popolare… Graficamente possiamo dire di avere dei disegnatori che avrebbero potuto fare delle cose d’autore. Magari nei soggetti è diverso, perché è un po’ sparita quella volontà di essere super-sofisticati…

Qual è la sua opinione sulla situazione generale del mercato fumettistico attuale?
Sarebbe ingiusto dire che c’è la crisi perchè voi ragazzi non leggete: capisco l’importanza che hanno altri interessi rispetto ai fumetti. Può anche darsi che noi non riusciamo a capire il pubblico e a dargli quello che si aspetta da noi. Quando io faccio un albo nuovo e del primo numero vendo tante copie, la cosa mi lusinga perché è bello avere delle persone che ti danno credito. Esce il primo albo e voi mi date il privilegio, l’onore, di leggerlo, il primo. Però se dal secondo in poi lo mollate, io non posso far finta di niente: posso pensare che oggi i nostri autori non sono in grado di darvi il prodotto che vorreste. Può darsi che voi siate ormai irraggiungibili, se non nelle piccole nicchie, che oggi il pubblico pretenda delle cose ben precise. Può darsi che il futuro sia quello di dimenticarci dei grandissimi numeri di una volta, come già stiamo facendo, e di indirizzarci a delle piccole nicchie di lettori che hanno degli interessi specifici, non globali come il western, che poteva andar bene a tutti. Un po’ come succede con le riviste specializzate. Questo porterebbe a dei grandissimi cambiamenti, anche dal punto di vista organizzativo. Può darsi che non siamo proprio in grado di dare un prodotto della qualità richiesta, non perché chi scrive e disegna oggi sia più scalcinato di chi lavorava trent’anni fa: può darsi che chi scrive oggi, che è sicuramente più colto ed informato chi scriveva trent’anni fa, non sia in coincidenza con le aspettative del lettore. Può darsi che i lettori siano talmente preparati, oggi, che pretendono talmente tanto che noi non siamo in grado di darglielo.

L’ultima domanda: lei ha settant’anni…
Ahimè…

…come fa ad avere ancora voglia di fare l’editore?
Innanzitutto non saprei fare altro: ho fatto la mia scelta quando ho smesso l’Università, e mi piaceva l’idea, che piacerebbe a tutti, di poter fare della propria passione il proprio lavoro. E’ una cosa che ti cambia la vita, se ti va bene, se hai successo. E allora sei contento di aver fatto quella scelta. In realtà oggi è più faticoso, perché ad esempio ho meno tempo per leggere tutto. Una volta leggevo veramente tutto quello che facevano i miei colleghi, in Italia e in Francia, ma l’età complica le cose… Poi è diventato più difficile perché, credo si sia capito, le scelte di oggi sono più difficili di quelle di una volta. Oggi la gente pretende molto di più, la vera fatica è anche questa: capire qual è la direzione giusta, chi ha nel cassetto la proposta giusta.
La vera fatica è la responsabilità di avere tante persone: quando eravamo quattro gatti c’era l’impressione che fosse un gioco, che tu potessi smettere da un momento all’altro. Adesso è diventata un’azienda pesante, come numero di persone, e questo senso di responsabilità si sente, anche perché non sei in un contesto come in Francia, dove ci sono dieci editori grandi: qui da noi ce ne sono pochi, purtroppo, e non è così facile, anche per uno bravo, trovare lavoro e passare da un lavoro all’altro. E allora uno tiene duro anche per non lasciare le persone senza lavoro…

Alberto Cassani