Nelle pagine del libro “Il buco nella rete. Storie e passioni di un calcio-altro” del giornalista Mimmo Mastrangelo, il racconto dell’intensa parabola di vita di un grande calciatore uruguaiano ma naturalizzato italiano, stella del Nacional di Montevideo, uomo d’ordine nel Bologna di Dall’Ara e protagonista dell’Italia Mondiale nel 1938.
A Potenza, ultima destinazione del suo incredibile viaggio su questa terra, gli è stata dedicata finanche una piazza. Ma se chiedi a un giovane della sua storia di campione del Mondo e campione d’Italia, di mastino del centrocampo e di maestro dei calci piazzati dalla distanza, probabilmente ti guarderà perplesso.
Eppure, c’è stato un tempo in cui il suo nome incuteva timore negli avversari e provocava ai suoi tifosi dolci emozioni. Senza dimenticare il fascino latino che esercitava su tante signore sparse un po’ dappertutto.
Lui era Miguel Andreolo. Per essere precisi: Miguel Ángel Andriolo Frodella. Anche se, per i suoi tifosi egli era “El Chivo” (in Uruguay) o semplicemente “Michelone” (in Italia).
Classe 1912, cresciuto in un paese a qualche centinaio di chilometri da Montevideo e figlio di una famiglia italiana originaria della provincia di Salerno, Miguel impressiona fin da giovanissimo sui campi di calcio, tanto che a poco più di vent’anni diventa una stella del Club Nacional de Futbol di Montevideo. Con il Nacional vince subito due scudetti, diventando da centrocampista tuttofare una pedina fondamentale nel sistema di gioco dello squadrone della capitale. Ma quando nel 1935 sbarca in Italia, per giocare nel mitico Bologna del presidente Dall’Ara, egli è soltanto un perfetto sconosciuto. Nessun problema. “Bastarono pochissime partite ad Andreolo per mettere in mostra le sue doti, e non per caso divenne il leader di quella «sinfonia rossoblu» che riuscì a fermare l’incontrastato dominio della Juventus e portare sotto la Torre degli Asinelli ben quattro scudetti”, come racconta Mimmo Mastrangelo, autore del libro “Il buco nella rete. Storie e passioni di un calcio-altro” (Valentina Porfidio editore) in uscita in queste settimane, in cui viene raccontata anche la storia di Andreolo.
Eppure, c’è stato un tempo in cui il suo nome incuteva timore negli avversari e provocava ai suoi tifosi dolci emozioni. Senza dimenticare il fascino latino che esercitava su tante signore sparse un po’ dappertutto.
Lui era Miguel Andreolo. Per essere precisi: Miguel Ángel Andriolo Frodella. Anche se, per i suoi tifosi egli era “El Chivo” (in Uruguay) o semplicemente “Michelone” (in Italia).
Classe 1912, cresciuto in un paese a qualche centinaio di chilometri da Montevideo e figlio di una famiglia italiana originaria della provincia di Salerno, Miguel impressiona fin da giovanissimo sui campi di calcio, tanto che a poco più di vent’anni diventa una stella del Club Nacional de Futbol di Montevideo. Con il Nacional vince subito due scudetti, diventando da centrocampista tuttofare una pedina fondamentale nel sistema di gioco dello squadrone della capitale. Ma quando nel 1935 sbarca in Italia, per giocare nel mitico Bologna del presidente Dall’Ara, egli è soltanto un perfetto sconosciuto. Nessun problema. “Bastarono pochissime partite ad Andreolo per mettere in mostra le sue doti, e non per caso divenne il leader di quella «sinfonia rossoblu» che riuscì a fermare l’incontrastato dominio della Juventus e portare sotto la Torre degli Asinelli ben quattro scudetti”, come racconta Mimmo Mastrangelo, autore del libro “Il buco nella rete. Storie e passioni di un calcio-altro” (Valentina Porfidio editore) in uscita in queste settimane, in cui viene raccontata anche la storia di Andreolo.
Con il Bologna, dove resta fino al 1943, “El Chivo” raggiunge l’apice del successo. Prima di lasciare i rossoblu, viene coinvolto pure in una storia di partite combinate. Ne esce con una squalifica di un paio di mesi, dopo di che passa alla Lazio. Ma nella Roma occupata dai nazisti è impossibile vivere con la paga da calciatore, così Miguel si mette a vendere formaggi. L’ultimo sussulto della sua carriera da calciatore è a Napoli, dove lo aspetta il mister Raffaele Sansone, anch’egli italo-uruguayano. Ma quali sono le sue qualità in campo? Miguel, risponde il giornalista Mimmo Mastrangelo, è un vero “mattatore del centrocampo”, ovvero “un maestro nel costruire il gioco” e sulle punizioni calibra un destro che mette in agitazione non poco il portiere di turno. Fisicamente non molto alto e pure rotondetto, tuttavia è “fortissimo nel colpire di testa” e quando si alza da terra sembra che rimanga sospeso in aria
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. “Un mastino, un lottatore insuperabile della zona” è, secondo Mastrangelo, il nostro Miguel. Con un curioso neo, però: “Se tirava una punizione poteva spaccare i paletti, ma se lo chiamavano a battere un rigore poteva farsela addosso”. Va sul dischetto infatti un’unica volta, in un Bologna-Fiorentina, ma fallisce il colpo. Da allora, mai più. “La paura dagli undici metri fu l’unico handicap di un campione rimasto poi senza imitazioni”.
Queste caratteristiche non lasciano indifferente il leggendario Vittorio Pozzo, allenatore della Nazionale due volte Campione del Mondo, nel ’34 e nel ’38. Con gli azzurri “Michelone” disputa 26 partite e realizza un gol. C’è anche lui in campo a Parigi, nel 1938, nella finale del Mondiale che fa entrare definitivamente l’Italia nella storia del calcio. Maglia numero 5 e solita monumentale partita da arraffa-palloni.
Queste caratteristiche non lasciano indifferente il leggendario Vittorio Pozzo, allenatore della Nazionale due volte Campione del Mondo, nel ’34 e nel ’38. Con gli azzurri “Michelone” disputa 26 partite e realizza un gol. C’è anche lui in campo a Parigi, nel 1938, nella finale del Mondiale che fa entrare definitivamente l’Italia nella storia del calcio. Maglia numero 5 e solita monumentale partita da arraffa-palloni.
Oltre che per le gesta calcistiche, “El Chivo” diventa un personaggio anche per le sue imprese fuori dal campo. Miguel “amava la bella vita, tirar notte e, da sangue caliente sudamericano che era, non riusciva a trattenersi al fascino del gentil sesso”, scrive il giornalista Mastrangelo. Non c’è luogo da lui frequentato che non sia legato a storie di amanti o fidanzate. Fino a quando arriva in Basilicata. “Mise la testa a posto solo quando si trasferì a Potenza dove si sposò e gli fu data la guida tecnica delle giovanili della società rossoblu”. Appesi al chiodo gli scarpini da calciatore, Andreolo intraprende infatti la carriera di allenatore, guidando formazioni soprattutto del Sud Italia, come Marsala e Taranto. Ma anche Potenza e Moliterno, in Basilicata, dove lascia un grande ricordo. “Sul finire degli anni Sessanta fu chiamato sulla panchina del Moliterno, il club più antico di Basilicata insieme al Potenza, e anche qui si fece notare per il suo essere personaggio”, annota Mastrangelo: “Chi fu sotto la sua guida ricorda ancora oggi che la fama del grande giocatore, il blasone dell’ex campione del mondo che si portava dietro, mettevano una certa soggezione, ma era una persona squisita. Quando arrivava per gli allenamenti e le partite con la sua fuori serie, vestito sempre all’ultima moda, lo guardavano tutti ammirati”. Ma quella nel piccolo borgo lucano è solo una toccata e fuga, “Michelone” resta a Moliterno il tempo di una stagione, poi via a insegnare calcio e ad estasiare altre platee.
Andreolo muore nel maggio del 1981, all’età di sessantanove anni, a Potenza. All’indomani della scomparsa, Ugo Locatelli, suo compagno nella Nazionale del ’38, lo ricorda così sul quotidiano torinese La Stampa: “È stato uno dei più grandi centromediani del mondo”.
Andreolo muore nel maggio del 1981, all’età di sessantanove anni, a Potenza. All’indomani della scomparsa, Ugo Locatelli, suo compagno nella Nazionale del ’38, lo ricorda così sul quotidiano torinese La Stampa: “È stato uno dei più grandi centromediani del mondo”.